La sofferenza e la cura nella relazione tra vittime di tratta e operatori dell'accoglienza

Andrea Distefano

Associazione Comunità Papa Giovanni XXIII

Indice

Premessa
L'esercizio del posizionamento
Benessere dei migranti e sfruttamenti multipli
Una sofferenza che si svela man mano
>Il primo incontro
A casa
Dialogando con l'antropologia e l'etnopsichiatria
Bibliografia

Premessa

Dal 2012 sono un operatore presso l'Associazione Comunità Papa Giovanni XXIII (d'ora in avanti solo Comunità), uno degli enti attuatori per il Comune di Bologna del programma unico di tutela per vittime di tratta e grave sfruttamento.

Il mio ruolo all'interno del progetto è trasversale e seguo la persona inserita nel programma di tutela durante tutto il loro percorso fino all'ottenimento dell'autonomia e, quindi, la chiusura del programma[1] stesso. Nello specifico mi occupo dell'attività di emersione, quindi i colloqui protetti e in passato ero maggiormente coinvolto nelle unità di strada, seguo l'iter legale di regolarizzazione, dalla raccolta della memoria alla tutela legale, mi occupo dell'inserimento lavorativo e seguo le accoglienze territoriali che sono, in gergo tecnico, coloro che sono in procinto di ultimare il programma e vivono già fuori dal sistema d'accoglienza. Il mio lavoro non sarebbe efficace senza una stretta collaborazione e un continuo confronto con tutti coloro con cui – responsabili, operatrici, genitori di casa famiglia – vivono le ragazze e i ragazzi nella quotidianità dell'accoglienza. Pur avendo una visione d'insieme di tutto il percorso, dall'emersione all'autonomia, poco potrei conoscere senza quell'osservazione continua dell'accoglienza che proprio nella condivisione della vita quotidiana riesce a cementificare i legami e far emergere vissuti, ansie e aspirazioni personali.

Scrivere di quello che si fa è sempre molto complicato, razionalizzare un lavoro che ha fortissime implicazioni emotive è difficile, per me quasi impossibile, e la scrittura di questo contributo mi ha fortemente messo in crisi anche perché ha voluto dire ripensare scelte fatte in passato e rivederle e rivalutarle con il distacco del tempo trascorso.

Ragionare su quanto la mia formazione e il percorso di studi antropologici abbia influenzato il mio modo di essere operatore all'interno del progetto e le scelte professionali fatte è il filo conduttore di questo elaborato senza, però, riuscire a superare quelle implicazioni emotive che sono parte del lavoro e che, inevitabilmente, plasmano e influenzano il mio agire.

Questo contributo prende spunto da un webinar andato in diretta streaming [2] sulla pagina Facebook del Centro Interculturale Massimo Zonarelli il 22 marzo 2021 dal titolo: “Benessere dei migranti e sfruttamenti multipli”, organizzato dalla Rete “Oltre La Strada”[3] (d'ora in avanti solo Rete) e coordinato dall' Ass. Comunità Papa Giovanni XXIII all'interno del ciclo di eventi realizzati dal Comune di Bologna per il Decennale ONU per le persone afro-discendenti.

L'intervento aveva come finalità quella di far dialogare sul concetto di benessere dei migranti due professionalità e due punti di vista diversi ma complementari, l'antropologia culturale, con il coinvolgimento di Selenia Marabello[4], e la psichiatria transculturale, con il coinvolgimento di Maria Nolet[5]; questo contributo sulla mia esperienza professionale, è sicuramente debitore delle considerazioni fatte in quell'occasione e ripercorre brevemente alcune delle riflessioni emerse e lo scambio di idee tra le ospiti coinvolte.

L'esercizio del posizionamento

Personalmente arrivo a occuparmi di tratta e grave sfruttamento attraverso un percorso non lineare. Fin dai primi anni degli studi universitari[6] ho coniugato lo studio con il lavoro e l'impegno nell'associazionismo[7]. Proprio attraverso il mio impegno nel volontariato sono entrato in contatto, per la prima volta, con il tema della tratta e nello specifico con lo sfruttamento di minori nella prostituzione nelle aree del Sud-Est asiatico Ho iniziato a interessarmene. In quel fenomeno riscontravo la concretizzazione di molti spunti riflessivi che la mia formazione accademica mi stava fornendo e che ritrovavo, inoltre, in tutte le tematiche della salute globale che approfondivo attraverso la partecipazione ai corsi elettivi del Centro di Salute Internazionale[8].

Il mio interesse sul fenomeno della tratta si è così strutturato leggendo il fenomeno principalmente come effetto di un disequilibrio tra il Nord e il Sud del Mondo, di un mancato accesso alle risorse e di una costante privazione dei diritti degli individui. A questo riguardo, fu proprio il concetto di continuum genocida (Dei 2006: 282) a darmi una precisa chiave di lettura del fenomeno, la “vittima di tratta”, come categoria astratta, nasceva in uno specifico contesto che la costruiva come oggetto sacrificabile e mercificabile.

La tratta emergeva anche in testi che non erano attinenti all'argomento, penso ai lavori di attivisti come Raj Patel (2008) o Vandana Shiva (2010, 2011) e sicuramente alla lezione di Nancy Scheper-Hughes (2001, 2004) che con la forza che la contraddistingue parlava di poveri che non potevano permettersi il lusso di avere organi “in più”.

Com è risaputo, l'università italiana non prevede, per i corsi di laurea in antropologia, una vera e propria specializzazione, e ogni studente prova a specializzarsi principalmente con il lavoro di tesi, scegliendo una materia e approfondendo specifici argomenti. Anch'io stavo svolgendo quel mio personale percorso e avevo trovato nel corpo, quindi nell'antropologia del corpo e dei saperi medici, un modo di fare ricerca che mi entusiasmava. «Il corpo è il primo e più naturale strumento tecnico dell’uomo. O, più esattamente, senza parlare di strumento, il corpo è il primo e più naturale oggetto tecnico e, nello stesso tempo, mezzo tecnico, dell’uomo» (Mauss 1965: 392-393). Nel corpo costantemente rinegoziato, costruito e co-costruito emergeva potente l'individuo e l'individuo in relazione ad uno specifico contesto storico e sociale (Destro 2005: 149), avrei provato ad interrogare i corpi trafficati ricercando nella distruzione e annichilimento le forze vitali che avevano permesso di sopravvivere alle violenze di un'esistenza brutale.

Il mio lavoro iniziò, come ormai ero solito fare, dal volontariato. Mi sarei messo a studiare il fenomeno mettendomi al servizio di chi, sul fenomeno, spendeva tempo ed energie e avrei svolto la mia ricerca subordinandola a un'azione di intervento e di aiuto. Il primo incontro con la tratta e lo sfruttamento a fini di prostituzione nel territorio di Bologna fu con l'Ass. Via Libera[9] che per conto del Comune di Bologna si occupa di monitoraggio della prostituzione e riduzione del rischio, poi, l'incontro che cambiò la mia vita professionale con Nicola Pirani, referente per l'Ass. Comunità Papa Giovanni XXIII[10] del progetto a contrasto della tratta e del grave sfruttamento nel territorio di Bologna.

In Comunità iniziai come un qualsiasi volontario che il venerdì sera andava in strada a incontrare le ragazze che si prostituivano per proporre un'alternativa a quel tipo di vita. Sono stato volontario per circa un anno fino a che, nell'ottobre del 2013, avviammo con Nicola Pirani il progetto sperimentale per l'analisi del fenomeno dell'accattonaggio coatto. Il lavorò durò circa tre anni, divenne il mio argomento di tesi e nel 2016 divenne parte integrante del Progetto Oltre La Strada. Negli anni ha subito varie modifiche, sono state realizzate diverse azioni sperimentali complementari e, ancora oggi, è una delle attività che portiamo avanti nella nostra attività professionale quotidiana[11].

Questa lunga premessa mi è necessaria per posizionarmi, perché non potrei affrontare l'argomento senza una chiara presentazione di chi scrive che non è un antropologo ma è un operatore che, quando può e se riesce, usa degli strumenti che gli anni di università gli hanno fornito. Il dibattito su fare antropologia in ambienti non accademici è un argomento a lungo discusso e per quanto vogliamo perorare la causa dell'antropologia come scienza che vada calata in tutti i settori pubblici e istituzionali della vita nazionale credo che la mera attenzione alla complessità non possa dirsi “fare antropologia”.

Nel mio specifico ambito di lavoro, quello che potremmo banalmente sintetizzare come il settore dell'accoglienza, molti hanno una formazione in antropologia ma molti, tutti, come me del resto, fanno altro e provano a fare quell'altro nel miglior modo possibile grazie, forse, a quanto abbiamo studiato e a quanto in noi si è sedimentato.

Svolgere un lavoro con l'“Altro”, e qui mi riferisco non esplicitamente al cittadino proveniente da un contesto nazionale differente dal nostro, non vuol dire fare antropologia o “antropologia in casa”.

Provare a mettere in pratica lo sguardo che l'antropologia ci può fornire senza avere un controllo del “campo” che nel mio caso e nel caso di molti colleghi è il nostro lavoro, senza la possibilità di delimitare il campo, di poterne uscire, di poter teorizzare su quel “campo” inevitabilmente lede la nostra efficacia e la comprensione della complessità che quotidianamente, con violenza, abbiamo davanti ai nostri occhi.

Razionalizzare e approfondire le questioni quando si vive, come spesso capita, in un continuo stato emergenziale rende impossibile quell'allontanamento che è necessario per una corretta visione interpretativa dei fatti e delle situazioni. La difficoltà cui facevo riferimento all'inizio è proprio da connettersi, credo, alla scarsa abitudine che abbiamo di staccare costantemente da quello che potrebbe e dovrebbe essere, anche, oggetto di studio.

Nel mio rapporto con le persone che seguo, e questo credo sia proprio il lascito maggiore che l'antropologia mi ha dato, posso solo posizionarmi, costantemente, spiegare chi sono, cosa faccio, perché lo faccio in quella determinata maniera, cosa non riesco a fare e cosa non voglio fare. Nella relazione d'aiuto, una relazione di potere e asimmetrica, tenere in mente questa asimmetria è importante, è alla base della sincerità nei rapporti e nello sforzo, continuo e mai raggiunto pienamente, di comprensione della complessità che si sta affrontando.

Se i mandati istituzionali possono essere chiari per figure istituzionalizzate, e molto spesso non è neanche vero, come l'assistente sociale, l'educatore professionale, l'operatore legale, lo psicologo; una figura ibrida come “l'operatore”, in cui ritroviamo molti antropologi o meglio, molti laureati in antropologia, vive una nebulosità in cui ciascuno deve trovare il suo equilibrio. Nel mio lavoro, nel mio specifico contesto, che so bene non essere comune e diffuso, posso vantare e godere di certe libertà interpretative che non sono da connettere alla mia formazione accademica, l'essere antropologo, ma ad una fortunata combinazione di eventi, di cui sono grato, e ad una fiducia accordatami da chi è responsabile del mio operato. Anche il webinar, di cui mi appresto a parlare, nasce non da un riconoscimento dell'antropologia in ambito istituzionale, ma dal riconoscimento della validità del lavoro svolto che, nel mio percorso personale è stata plasmato anche con gli strumenti della disciplina.

Benessere dei migranti e sfruttamenti multipli

Non è mai semplice prevedere come la sofferenza si manifesterà nelle ragazze che a noi si rivolgono, ma ritengo interessante sottolineare come la sofferenza spesso può emergere in momenti specifici del percorso che il programma di tutela per vittime di tratta e grave sfruttamento prevede. Durante il programma il corpo delle ragazze non smette mai di comunicarci il proprio dolore, ma sono riscontrabili modi diversi e tempistiche specifiche in questo linguaggio.

Una sofferenza che si svela man mano

Il nostro programma può essere diviso in tre macro-settori, a loro volta suddivisibili in altri sotto-settori. Ognuno di questi momenti incide pesantemente sulla vita del migrante, ci coinvolge (come operatori) in sfide differenti e costruisce quel rapporto di conoscenza e fiducia che spesso, negli anni, resiste e si protrae ben oltre la tempistica del programma.

>Il primo incontro

Il primo momento è il colloquio protetto. Il primo contatto potrebbe essere avvenuto anche in precedenza, si pensi ai contatti sporadici tramite le unità di strada, ma è in sede di colloquio che si ha tempo e spazio necessari per raccontarsi e per aprirsi.

Il colloquio protetto è un momento che, a volte, risulta sfiancante da entrambe le parti, se da una parte l'intervistato deve fare lo sforzo sovraumano di fidarsi, specie dopo anni di inganni e violenze, dall'altra l'operatore deve saper mantenere costantemente quel precario equilibrio tra la domanda istituzionale e il suo coinvolgimento emotivo. È importante un ascolto attivo su cui basare un neonato rapporto di fiducia, un ascolto che deve provare a comprendere la sofferenza altrui, leggere quella miriade di segnali (spesso non verbali) su cui basare il nostro parere sullo specifico caso e indirizzare quel dolore verso un progetto, comune e condiviso, che lasci all'intervistato l'idea che può tornare a essere padrone della propria vita.

In questa fase del nostro lavoro leggere la sofferenza altrui è importante, spesso molte nostre decisioni si basano non su ciò che viene detto ma piuttosto sul non detto. Tragiche storie di violenza snocciolate e dettagliate senza scomporsi ci possono sembrare un campanello d'allarme di un uso strumentale del progetto; silenzi, pianti, vuoti mnemonici, improvvisi momenti di disattenzione spesso, invece, ci sembra che celino una verità più profonda, che non può essere raccontata, condivisa. Può capitare di aprire le porte del progetto a una persona che, per una serie di colloqui, non dice nulla, ma riesce solo a singhiozzare; oppure può accadere di prendere tempo e continuare la valutazione di perfette e organiche storie di tratta raccontate anche troppo bene, che sembrano esposte proprio con l'intento di dirci quello che vogliamo sentirci dire. I colleghi che fanno questo mestiere lo sanno bene, la verità, forse, arriverà con il tempo, se il tempo permetterà alla verità di emergere.

Un'altra sfida importante del colloquio protetto è anche la gestione della sofferenza quando questa emerge incontrollata e incontrollabile. Il colloquio protetto non è una seduta di psicoterapia, noi non possiamo improvvisare una formazione che non abbiamo e, inoltre, cosa molto importante, al termine del colloquio protetto quella persona farà rientro in una casa, in un appartamento, dove non abbiamo idea di chi ci sia ad attenderla. Far emergere qualcosa di così intimo, senza poter riuscire a trovare una risposta in un momento così precario potrebbe esporla a nuove vulnerabilità e questo è qualcosa a cui dobbiamo prestare molta attenzione. Il nostro lavoro tende sempre a limitare l'emergere della sofferenza in maniera incontrollata e nell'interazione con l'altro si prova incessantemente a portare il discorso su qualcosa di piccolo, contingentabile, gestibile, qualcosa di cui si può avere un controllo, qualcosa che ci permetta, a colloquio ultimato, di salutarci con un'idea condivisa, con un progetto comune o semplicemente con il pensiero che forse, possiamo trovare una soluzione.

Nei primi colloqui il perno del discorso è certamente la raccolta della memoria, in particolare se i colloqui sono potenzialmente finalizzati all'inserimento in programma, non si attua un lavoro analitico sugli avvenimenti, si avvia un percorso di avvicinamento e conoscenza per far sentire l'altro, semplicemente, libero di trovare un qualsiasi modo di chiedere aiuto. Non è raro, così, che nei colloqui di emersione sia molto spesso l'operatore a parlare, a raccontarsi, e a presentare tutte quelle persone che con lui lavorano e che faranno il possibile per lenire quella sofferenza. Non si fanno promesse, si dice solo che se si vuole, non si è più soli.

Ricordo che John[12] non disse nulla per svariati colloqui, pianse solo, all'ultimo incontro ci lanciò sulla scrivania il suo cellulare e ci chiese di farlo sparire... non abbiamo avuto dubbi.

A casa

La serie di colloqui termina, a volte, con la sigla di un patto tra le parti che si impegnano a lavorare insieme per ottenere obiettivi comuni. L'inserimento in programma parte con un atto di fiducia reciproco e si basa su un impegno condiviso e co-costruito nel tempo.

L'accoglienza inizia così: alla persona che accede viene garantito supporto, ascolto e vicinanza, viene restituita, o si tenta di restituire, un'agency che in molti casi era stata fortemente ostacolata e l'utente inizia un lento percorso di rilettura del proprio passato e una progettazione del proprio futuro.

Gli spettri del passato, però, non tardano a manifestarsi e in alcuni casi in modi violenti e che mettono in crisi i propositi su cui si era basato l'avvio del progetto.

L'accoglienza si struttura in due fasi distinte, la pronta accoglienza o prima fase e la seconda fase. Le due fasi hanno regole precise e una diversa gestione dell'autonomia, questo comporterà, in alcuni casi, l'emersione della sofferenza in stadi e forme diverse.

La prima fase è quasi un momento di rottura con il passato, o meglio, nella prima parte del percorso tutte le nostre azioni sono volte a permettere alle donne (in particolar modo)[13] di avere tempo per riflettere e mettere ordine su ciò che sta avvenendo e su ciò che sta cambiando. La forte riduzione e controllo dei contatti con l'esterno, la vita in casa, il rapporto intimo con le operatrici che vivono con loro, la relazione familiare con la responsabile, servono a restituire una tranquillità in cui poter ripensarsi. Nella prima fase i tempi sono volutamente dilatati, con l’idea di fortificare le relazioni, dove il confronto non si struttura nella dinamica asettica del colloquio con un professionista, ma nei canali molteplici del gruppo, della supervisione, e delle relazioni nel quotidiano.

In questa fase, inoltre, trascorso un primo periodo di assestamento e ambientazione, si riattiva anche il percorso della raccolta della memoria e si ritorna sulla propria biografia e di conseguenza sugli aspetti traumatici del proprio vissuto. L'aspetto contenitivo e tutelante, della prima fase d'accoglienza, permette di svolgere con maggiore serenità il lavoro sulla memoria che viene elaborata con la protagonista cercando di coglierne il suo specifico punto di vista. Avvenimenti traumatici come il giuramento, il tradimento della famiglia, l'assoggettamento alla rete criminale, vengono raccontati e spiegati e anche in questa fase si cede sempre la parola alla persona. Un fenomeno, si pensi al caso emblematico del juju, non è mai letto nella medesima maniera e benché noi possiamo dire di conoscere la sua evoluzione e la sua storia, poco sappiamo delle concezioni e delle visioni che ha il soggetto, come il singolo individuo lo abbia vissuto, elaborato e quale senso gli abbia dato.

In questa fase del percorso il rapporto con il soggetto in accoglienza si è fortificato notevolmente ma è comunque necessario posizionarsi, nuovamente, ai suoi occhi. A fini legali, naturalmente, scendere nel dettaglio del giuramento non ha nessun valore, così come non ha nessuna utilità descrivere le violenze subite, tuttavia, quando la persona che si ha davanti manifesta la necessità di raccontarsi, come operatori proviamo insieme a lei a rendere dicibile quel mondo distante e così oscuro da comprendere. Questo ribaltamento di ruoli, se svolto con estrema sincerità, ponendoci in un piano d'ascolto, ritengo che sia fondamentale per iniziare un lento processo di rielaborazione che non ha mai fine ma che porta ad una crescita personale e del progetto individuale stesso, consolidando le relazioni. Riconoscere all'altro la dignità di parola è un processo molto difficile sia per noi che per le persone che seguono il programma. Per loro è la prima volta che gli viene chiesto di spiegare qualcosa, forse è la prima volta che viene riconosciuto che la loro versione dei fatti è quella corretta, noi che siamo “tecnici”, “esperti”, dobbiamo farci piccoli di fronte a quella conoscenza e rispettosi nell'ascolto.

Se in una memoria si parla di juju priest, native doctor, juju, ogni operatore ha una sua personale visione e conoscenza del fenomeno, può prevedere cosa accadrà, immagina cosa questo comporterà nella vita della persona che prenderà parte al rito, ma è quando si chiede di raccontarlo che si scopre che le visioni sono diverse, le implicazioni sono personali, le letture sono molto discordanti. In sede di colloquio, per esempio, non sono rari i casi in cui sono stato portato a raccontarmi alla persona che avevo davanti, condividere parte di quello che facevo per lavoro, di quello che avevo studiato, di quello che ero e poi dire, banalmente, «Comunque non capisco...». Ho sempre notato nell'altro lo sforzo di rendersi intelligibile ai miei occhi. In questi momenti, che rimangono nostri, che non confluiscono né in una memoria né in una relazione di valutazione, la persona si apre con una profondità e un’intimità talvolta spiazzanti.

Emergono ricordi lontani dell'infanzia, convivenze sepolte e mai sopite con l'occulto che veniva vissuto e respirato quotidianamente. Il juju, per fare un esempio, perde la teatralità terrificante delle pareti imbrattate di sangue, dei cuori di pollo, delle formule magiche incomprensibili, dei feticci e si veste con una domesticità che pervade la vita di tutti i giorni, che convive con la fede e con la concezione di Dio e che, proprio per questo, si incarna nello spirito e nelle paure di queste donne che difficilmente riusciranno a trovarne una chiave di lettura univoca. Un sincretismo quotidiano, potremmo dire, che prepara l'efficacia del rituale quando poi ne diverranno protagoniste.

Parafrasando una di queste discussioni ricordo Joy che provava a spiegarmi la sua visione dopo una serie di domande sul ruolo di Dio, della fede, sulla possibilità di liberarsi da questa costante paura, da questo peso che rimane lì, a volte sopito, ma sempre presente. «Papà era un seguace del culto juju, mia madre, invece, no, andava in chiesa e voleva che noi fossimo cristiani e così è stato. Noi andavamo in chiesa a pregare ma poi mamma tornava a casa e cucinava per noi e per il juju. In Africa funziona così, puoi anche non seguire il juju ma vivi in casa con un altare Ayelala».

Il terribile juju, che poco dopo verrà raccontato come un'esperienza mostruosa, prima viene vissuto quasi come “uno di famiglia”, una presenza domestica che vive con te, quotidianamente, che mangia alla tua tavola come uno dei tuoi fratelli. Il mondo così è esperito come ostile, connotato di presenze occulte e ingestibili, presenze terrificanti che tracciano un orizzonte di domesticità entro cui si cresce, si vive, si crede.

In alcuni casi, qualcosa di assimilabile al pensiero magico, può riscontrarsi se si decide di approfondire il rapporto con la madame [14]. Ai fini legali e della legalizzazione è di nostro interesse spiegare le connessioni criminali, le violenze subite, il denaro estorto e il rischio di un possibile ritorno nel paese d'origine, ma se si chiede di raccontare come sono stati vissuti quei momenti, quegli anni, spesso inizia un lento processo di elaborazione che problematizza dinamiche sulle quali non si erano mai interrogate prima. Ricordo Bridget quando chiesi come mai, in un momento in cui si era allontanata dalla madame, avesse deciso di farvi ritorno. Non ricordo come arrivammo a quella domanda e la maniera esatta in cui la posi, ricordo però in modo vivido che Bridget si prese del tempo per spiegare e che, soprattutto, mi coinvolse nel ragionamento. Avevamo sempre pensato al rapporto con la madame in termini di violenza fisica e paura, invece, in quell'occasione si fece avanti un'altra lettura. Dallo sforzo cognitivo che era quasi palpabile sotto i miei occhi, vedevo Bridget ripercorrere fatti e avvenimenti, le sue posizioni e le sue scelte nel silenzio dei suoi pensieri venivano rimesse in discussione. Ricordo che concluse, dopo una breve pausa di silenzio, pesando le parole che erano gravi come i pensieri tornati alla mente: «Andrea non lo so, se ci penso non mi riconosco, aveva il controllo totale di me, anche a distanza».

La magia, però, a volte, non dà scampo e le azioni messe in campo non funzionano, non hanno efficacia. La storia di Faith racconta bene queste difficoltà e spiega anche quanto la situazione possa complicarsi quando si passa dalla prima alla seconda fase del programma. Conosco Faith a gennaio del 2018, sarà lei a reperire il mio numero, mi chiamerà e mi chiederà aiuto. Come da prassi la incontro lo stesso giorno e attiviamo un'accoglienza temporanea per avviare la valutazione. La prima impressione su Faith è negativa, molto spigliata e sicura di sé, almeno in apparenza, con una storia poco credibile, mi trascina in un periodo di valutazione lunghissimo, circa un mese. Nel frattempo contatta colleghi di altri territori ripetendo la medesima richiesta d'aiuto. Con la costante paura di inserire in struttura protetta qualcuno che non è vittima, ma carnefice, procediamo con i colloqui e incrociamo le segnalazioni fino a capire meglio la situazione quindi procediamo offrendo l'accoglienza che viene immediatamente accettata. Giunti in struttura si procede al controllo delle valigie e immediatamente vengono trovate due bottiglie di superalcolici in cui erano disciolte delle polveri e messe in infusione delle erbe. Chiediamo spiegazioni e Faith ci racconta che sono un contro-juju, preparato da un native doctor di Piacenza, una cura che stava seguendo da circa un anno, senza però ottenere risultati, per cercare di stare meglio. La magia del juju è stata una costante della storia di Faith: le famiglie dei genitori erano dei credenti del culto nativo, quando i genitori muoiono in un incidente entrambe le famiglie si coalizzano contro di lei e la accusano di essere una strega, accusa che viene confermata da un juju priest, suo zio, che venne interrogato dai parenti. Da lì la fuga disperata in cerca di salvezza, poi la madame, il viaggio verso l'Italia, un ennesimo juju per il debito, la prostituzione. Faith arriva da noi, psicologicamente, fisicamente e moralmente in frantumi. Tutto quello che non riuscivo a comprendere in fase di colloquio era proprio l'enorme dolore che la tormentava e che le impediva di aprirsi in una maniera che avrei potuto leggere come sincera. Al cospetto delle due bottiglie, ci interroghiamo sul da farsi con la responsabile di struttura. Non era pensabile che lei continuasse ad assumere alcool in progetto, soprattutto perché non sapevamo che tipo di sostanze vi fossero disciolte, così, di comune accordo con la ragazza proponiamo un percorso di transizione. Le bottiglie sarebbero state chiuse sotto chiave in ufficio, lei avrebbe provato a fidarsi di noi e a condividere gli stati di malessere che provava ma, comunque, qualora la crisi fosse stata insopportabile potevamo ricorre a quella pozione; pozione che lei stessa, però, bollava come inefficace. Faith intraprese tra mille dubbi il suo percorso d'accoglienza, eravamo sicuri e pronti che avremmo dovuto gestire crisi terribili ma invece, con nostra grande sorpresa Faith stava meglio, ogni giorno di più. La responsabile di casa era diventata per lei, come per quasi tutte, una figura materna e protettiva a cui fare ricorso quando si hanno problemi e dubbi sul proprio futuro. Faith è sorridente, allegra, in una relazione di qualche mese dopo, maggio 2018, scriviamo che Faith:

È sicuramente una presenza molto positiva in casa. Ha dato prova di fidarsi nell'associazione che la segue e nelle persone che si prendono, quotidianamente, cura di lei. Svolge fattivamente quanto le viene chiesto, ha un buon rapporto con le operatrici di riferimento e con le altre ragazze in accoglienza e risulta una figura allegra e piacevole nella vita di tutti i giorni. Le condizioni di Faith sono così rasserenanti che già, ad aprile del 2018, abbiamo ultimato il lavoro sulla memoria e avviato l'iter di regolarizzazione. Le bottiglie, in accordo con la ragazza, vengono eliminate qualche mese dopo l'avvio dell'accoglienza. Poi un rapido e repentino crollo. Faith voleva procedere nel suo percorso verso l'autonomia, forte anche di una padronanza della lingua italiana molto maggiore di tante altre ragazze in accoglienza. Fiduciosi dei suoi progressi e agevolati dall'imminente stagione estiva alle porte acconsentiamo che inizi a cercare un lavoro. Faith svolge in autonomia la ricerca di un impiego, aggiornandoci sulle novità e richiedendo il nostro intervento quando trova qualcuno disposto ad assumerla per definire la parte contrattuale. L'avvio del lavoro e delle prime difficoltà e fatiche ebbero su di lei un impatto terribile, perse quasi immediatamente il lavoro non riuscendo a farsi confermare dopo il periodo di prova e cadde in uno stato emotivo di fortissima fragilità. Già nel mese di agosto scrivevamo:

Il suo comportamento è fortemente altalenante, periodicamente e senza una ragione apparente, passa da momenti di serenità ad una profonda tristezza e spossatezza.

In un colloquio avuto qualche tempo addietro F. arriva a dichiarare di odiare il suo corpo, un corpo che vive come limitante e frustrante, un corpo che agli occhi di tutti sta bene, ma che lei vive e percepisce come malato. Approfondendo con la richiedente, è lei stessa a dichiarare che le operatrici dell'accoglienza hanno fatto il possibile, F. dichiara: - M. mi ha portata ovunque, mi ha fatto vedere un sacco di dottori e per tutti loro sto bene. Le medicine che mi danno non mi fanno niente e io non ce la faccio più a stare tutti i giorni male, ho continui crampi allo stomaco.

A seguito di questa situazione provammo ad avviare, senza successo, una presa in carico individuale da parte di un etnopsicologo. Possibilità che Faith accettò in un primo momento per poi rifiutare di andare alle sedute. Proseguimmo in questa situazione precaria per alcuni mesi fino al suo volontario allontanamento dal progetto d'accoglienza. Continuammo a seguirla per altri mesi mentre viveva in autonomia con una connazionale, anche grazie al coordinamento con i servizi sociali del territorio cui la ragazza aveva fornito il nostro numero. Senza riuscire né a concretizzare una presa in carico né a permettere un ritorno al progetto, Faith sparì. Periodicamente, sempre con numeri diversi, torna a farsi sentire. Prima per comunicarci che è diventata mamma, nel 2020 e poi l’anno successivo da città italiane diverse.

La sofferenza di queste donne, però, può anche manifestarsi in una fase avanzata del progetto d'accoglienza, proprio quando si è giunti in seconda fase o durante la presa in carico territoriale.

Blessing è sempre stata una ragazza con una tempra forte, ha sempre dato prova di avere una buona attitudine al lavoro e il suo percorso procedeva spedito. Dopo aver conseguito il titolo di studio, ha portato avanti un tirocinio con successo cui hanno fatto seguito vari contratti di lavoro fino all'attuale stabilizzazione. Proprio in una fase in cui si iniziava a programmare la fuoriuscita dall'accoglienza e l'avvio della presa in carico territoriale inizia a manifestarsi la sua sofferenza con forme sempre più forti e aggressive. Emicranie, crampi allo stomaco, malesseri diffusi e un atteggiamento sempre più indisponente in struttura.

Pur mantenendo la prossimità del sistema d'accoglienza, le operatrici e la coordinatrice della struttura di seconda fase hanno strutturato un piano educativo molto specifico. In questa fase del progetto si lavora incessantemente verso l'autonomia e si cerca di accompagnare le donne nel miglior modo possibile all'uscita dal programma. Se il fattore tempo nella prima fase del percorso non è prioritario, in questa fase, finalizzato ad uno stimolo e ad una fattività sempre maggiore, viene tenuto in considerazione e gli step del programma vengono costantemente cadenzati per seguire l'ottenimento di obiettivi sempre diversi. Alcune pratiche amministrative banali, le visite di routine dal dottore vengono svolte, quando possibile, in autonomia, inoltre, si inizia a lavorare sulla gestione delle entrate economiche, siano essi stipendi o attività di tirocinio, vengono condivise in un “progetto di risparmio” finalizzato a permettere alle ragazze di avere una base di partenza economica per l'affitto di una casa una volta giunte all'autonomia.

La seconda fase è una periodo di grande fatica per le persone nel programma di tutela. Devono concretizzarsi i sacrifici degli ultimi anni, il ritorno alla vita reale, all'autonomia; è sicuramente un momento bello e atteso da tempo ma è anche un passaggio che le spaventa. Gli stimoli esterni possono, in molti casi, non essere positivi e i primi stipendi, inoltre, attivano dalla famiglia di origine una serie di richieste per le rimesse che creano ansia e difficoltà. Nel caso di Blessing l'équipe di casa dovette attivarsi immediatamente e procedere al supporto necessario per il suo progetto di vita. Fu fatto un tentativo per scoprire le cause fisiologiche del suo malessere e come nel caso appena citato di Faith, il corpo aveva sintomi che i medici non riuscivano a spiegare. L'attivazione e la preoccupazione delle operatrici però, creò quel tramite emotivo con la ragazza che permise di andare a fondo su quel malessere. Blessing stava faticando a ripensare il suo percorso d'autonomia, inoltre, come scoprimmo in seguito, la famiglia aveva iniziato a subissarla di richieste economiche e un intero anno di risparmi era andato in fumo. Fu necessario ripensare immediatamente ai nostri propositi per il suo futuro e procedere a un ascolto delle sue esigenze e delle sue necessità. La responsabile della struttura capì immediatamente che le sue angosce andavano lenite e la sua paura contenuta, ribadì che nulla era andato perso e che si trattava solo di posticipare i progetti che si erano fatti. L'apertura e l'accoglienza da parte della responsabile creò un canale, inoltre, per procedere ad una presa in carico psicologica e Blessing fu seguita all'interno di un setting clinico complementarista a geometria variabile[15] da una psicoterapeuta e un'antropologa.

La risposta che dovevamo dare a Blessing, comunque, doveva comprendere un modo anche di gestione del denaro e di conseguenza delle pressioni della famiglia. Fu strutturato un piano di risparmio con il coinvolgimento della banca che le imponeva, in maniera strutturata, esterna al progetto, l'accantonamento di una somma mensile per ripensare il suo futuro. Se il sintomo erano crampi addominali ed emicranie, la causa era molto complessa e comprendeva sia il suo stare in Italia e il suo futuro, sia le sue responsabilità nei confronti della famiglia. La risposta, come ho brevemente riassunto, fu strutturata su vari livelli organizzati sulle necessità di Blessing. L'ascolto e l'accoglienza da parte del progetto, un modo nuovo di rileggere il suo presente e il suo futuro tramite la psicoterapia e una risposta concreta e operativa nella gestione dei risparmi con il coinvolgimento dell'istituto bancario che dava anche un'ufficialità ai suoi progetti. La guarigione di Blessing fu lenta ma progressiva. Oggi vive in autonomia e continua a lavorare su se stessa e sul suo essere comunque divisa tra un qui ed ora, connesso alle difficoltà della vita quotidiana, alle sue responsabilità di figlia e sorella che in quanto emigrata è investita di responsabilità e aspettative.

Dialogando con l'antropologia e l'etnopsichiatria

Con questa complessità in mente, il 22 marzo 2021 abbiamo interrogato gli strumenti dell'antropologia e della psichiatria per comprendere come il nostro agire di operatori potesse, all'interno dei dettami istituzionali, essere più efficace.

La lezione dell'antropologia parte da un sovvertimento dei paradigmi epistemologici e pone il dubbio che, in realtà, quando parliamo di malattia e guarigione partiamo da una prospettiva limitata. La risposta a cosa sia salute e malattia parte da una relazione, sia quella con l'oggetto di studio che quella con il “malato”. Ogni disciplina presenta delle aree cieche e così, solo dal confronto multidisciplinare, come quello attuato nel webinar, si possono ricercare soluzioni e vie interpretative. Come è ampiamente noto, in antropologia la malattia si svela, riesce ad essere compresa, proprio attraverso la lettura del modo in cui si disvela, in cui diviene visibile. Per questo si ricorre a tre termini della lingua inglese, in italiano tutti traducibili con malattia, che ne incarnano tre livelli differenti. Per disease si intende la malattia oggettivabile dalle pratiche biomediche, la malattia più comunemente intesa. Con il termine illness si rimanda alla rappresentazione individuale della malattia e con sickness alla rappresentazione sociale del disturbo. (Pizza 2006: 83)[16] L'apporto che l'antropologia può dare in questa lettura della malattia e della sofferenza è mettere a sistema questi tre diversi livelli di comprensione e comunicazione, ponendo in dialogo stringente e incessante la prospettiva micro (del singolo) e macro (del contesto). I casi precedentemente esposti raccontano come la illness sia possibile anche senza una disease e come sia complicato, specie per un migrante, ricollocare il suo malessere in un contesto diverso dove mancano le parole per raccontare quello specifico stato di salute (i problemi connessi alla sickness). In questa ottica, quindi, l'antropologia conclude che nessuna malattia è incurabile, poiché ci si può prendere sempre cura, con l'ascolto e la comprensione, della malattia e dalla persona, anche se, non tutte le malattie sono guaribili. (Pizza 2006: 230)

La complessità appena presentata trova una risposta proattiva anche nella psichiatria, che nel nostro gioco dialettico era posta come una pratica di cura biomedica ma che in realtà si presenta con strategie “creative” proprio per venire incontro a questa complessità. Il punto di vista dell'etnopsichiatria, presentata nel webinair, si configura come una pratica flessibile che deve coniugare il funzionamento dei servizi di salute mentale, le esigenze del sapere biomedico più tradizionalmente inteso (la classificazione nosografica della patologia e la relativa terapia farmacologica) con il problema del linguaggio e della comunicazione del malessere attraverso una lente psicologica e antropologica. In questa veste multiforme, l'etnopsichiatra deve farsi concertatore di significati per portare la persona a curarsi o ad accedere a dispositivi diversi di cura (educativi, gruppali, di auto mutuo aiuto) rendendo la patomorfosi “gradita”, accettata e comunicabile. Tuttavia, però, le problematiche della sickness non tardano a presentarsi poiché la forte connotazione culturale di tutti i sistemi di cura può renderli di difficile comprensione e accesso. La barriera linguistica, in questa ottica, oltre ad aprire la spinosa questione della mediazione interculturale, si manifesta nella forma più forte quando è la “parola” il mezzo meno adatto e meno capace per raccontare la sofferenza. Mi torna alla mente, a riguardo, un caso specifico. Kate era in accoglienza in una struttura di religiose, faticava a seguire le regole del programma in cui si trovava da molto tempo, ma aveva ancora necessità di una tutela e un supporto, benché questo dovesse essere declinato nel rispetto del suo specifico momento di vita. Con questa struttura, con cui collaboriamo molto bene da tempo, aveva trovato il suo equilibrio e riusciva a proseguire il suo percorso lavorativo e di autonomia, rimanendo comunque in un contesto ad altissima tutela. Una sera sono stato chiamato perché Kate era in preda ad una crisi incontrollabile, urla, pianti, convulsioni, qualcosa che ai nostri occhi “occidentali” poteva ricordare le immagini di una possessione o uno stato di trance. Il caso volle che proprio in quel momento era in corso una funzione religiosa in quella struttura e la situazione spaventò i presenti. Giunto in struttura, parlando con Kate scopro che la crisi è dovuta alla morte del fidanzato in Nigeria a causa di un incidente, Kate è inconsolabile e incontenibile, io da buon operatore/occidentale mi rivolgo allo strumento della parola per darle conforto ma anche per contenere la cosa perché non era, da un punto di vista istituzionale, tollerabile. Il dolore andava contenuto, “normalizzato”, andava reso socialmente accettabile. Come è comprensibile fallisco su tutti i piani, Kate non trova né conforto nelle mie parole, né la situazione tende a “normalizzarsi”. Poi, sotto i miei occhi accade qualcosa che molto racconta di quanto sia complicato, veramente, comprendere il dolore altrui e capire come averne cura. Le altre donne si stringono intorno a lei e quel movimento convulso per terra le coinvolge, le parole delle altre donne accompagnano le urla di Kate e piano piano le modificano in un canto che in breve tempo si fa preghiera. Quel dolore aveva trovato nelle altre donne un modo per essere compreso, veramente ascoltato; non io, ma le altre donne avevano trovato il modo di prendersi cura di quella sofferenza. Solo poco dopo sono riuscito a mettere in macchina Kate e altre due ragazze e allontanarci da quella situazione perché, comunque, non possiamo mai dimenticarci, che nel crocevia impervio della relazione di cura, per citare Selenia Marabello, dobbiamo coniugare sempre l'ascolto al piano dell'azione istituzionale e, in quel caso, io non potevo solo essere d'ascolto, dovevo agire.

Questo crocevia impervio è vivissimo nelle parole di Maria Nolet quando parla di come la lacerazione individuale, adattatasi possibilmente ad una dimensione accettabile per sopravvivere, spesso mal si configura alla linea dei disturbi post-traumatici[17], secondo le linee guida ministeriali delle categorie vulnerabili. L'operatore psichiatrico deve fare uno sforzo titanico, o come ho detto in precedenza creativo, per ricollocare il disagio anche in un'ottica politica e storica tentando, con il suo operato, di far comunicare la sickness e l'illness e trovando una possibile relazione nel sistema nosologico di riconoscimento del disease. Come poco prima aveva concluso la Marabello, anche la Nolet chiosa confessando di aver perso le speranze sul fatto che la psichiatra guarisca, sicura però che curi. Una cura, come ci tiene a puntualizzare, che è anche frutto di un'alleanza terapeutica tra i vari soggetti sociali in gioco, perché la risposta alle richieste ufficiali, istituzionali non può non tenere conto dell'unicità della sofferenza individuale. La cura diviene così una ricerca, molto spesso condivisa, del senso della malattia, un senso che è di difficile comprensione anche perché non abbiamo geografie corporee con cui interpretare quella sofferenza. Nella ricerca dello stato di benessere, l'individuo sperimenta un'azione creativa, “effervescente” dice Selenia Marabello, in cui il sincretismo magico-religioso plasma il suo modo di percepire il “mondo”, la sua sofferenza, il suo corpo. Ma questa azione antropopoietica che sicuramente coinvolge il contesto socio-culturale in cui l'individuo è inserito, in special modo in un percorso migratorio, è particolarmente veloce e imprevedibile perché proprio nel contesto di migrazione il contesto sociale cambia e si stratifica costantemente.

La lezione già acquisita in antropologia dal pluralismo medico, di cui si è discusso nel webinar, pone l'attenzione proprio su questa visione creativa e sincretica che l'individuo ha nella ricerca della cura e che spesso fornisce risposte discordanti. La sua capacità di combinare aspetti diversi delle pratiche biomediche, delle medicine tradizionali, dello sciamanesimo, della religiosità che emergono come itinerari di cura complessi. La nostra esperienza lo mostra chiaramente quando l'utenza in carico affronta il problema su svariati livelli, seguendo terapie farmacologiche, credenze soprannaturali e magiche e richiedendo preghiere di liberazione e di guarigione al proprio pastore pentecostale. In questa attività di composizione e scomposizione del proprio stato di salute, per gli operatori, è molto complicato entrare, e ancora più complicato è trovare un canale per la comprensione. Gli orizzonti culturali sono diversi, terribilmente lontani, ma allo stesso tempo, l'universo del sovrannaturale ci turba e spesso non si ha il coraggio di entrarvi nel profondo, di chiedere, di provare a capire. Comprendere quanto appena detto e il caso di Esther, che verrà esposto in seguito, non può prescindere da un accenno al concetto di credenza. Come abbiamo detto, l'itinerario terapeutico di una persona, spesso, non comprende una scelta univoca sul sistema di cure cui fare riferimento ma è una stratificazione di sistemi diversi che vengono fatti dialogare in maniera assolutamente peculiare, creativa. Carlo Severi indagando le dinamiche su cui si basa la credenza, pone l'attenzione sul fatto che la credenza non è basata «sulla serenità di una professione di fede» ma si nutre del «dubbio»: la credenza è «l'assenza di certezza che quel tal fenomeno, quel particolare stato di cose dichiarato dalla credenza sia falso» (Severi 2000: 79).

Riteniamo che il caso di Esther, che procediamo a presentare con maggiore organicità, esemplifichi questo aspetto psicologico della credenza. Esther è una giovane ragazza di origine nigeriana vittima di tratta e gravissimo sfruttamento. Il suo percorso in accoglienza è stato sempre travagliato e la sua sofferenza si manifestava, a volte, con crisi molto violente. Per anni ha sofferto di disturbi e di somatizzazione con continui crampi allo stomaco e diarrea. Il suo stato di salute ha messo in crisi il sistema d'accoglienza e con difficoltà siamo riusciti a trovare una collocazione dove lei stesse bene e potesse ultimare il suo percorso. Al momento della scrittura Esther ha ultimato il suo percorso, convive con il suo ragazzo e si mostra serena, rimanendo comunque sempre agganciata a quanti, negli anni, le sono stati accanto. Durante il webinar il suo caso è stato presentato brevemente perché nella sua ricerca di un itinerario terapeutico si possono riscontrare molte delle cose che sono state puntualizzare dalle nostre ospiti. Esther è cristiana, frequenta le chiese pentecostali e partecipa anche alle messe di rito cattolico. Durante un'udienza in un Tribunale Penale, a seguito di una domanda posta, a mio modo di vedere in maniera un po' ingenua, dichiara di non “credere” al juju in quanto cristiana, ma, in realtà, il juju nella vita di Esther era, e credo sia ancora, una presenza quotidiana. Un timore che colonizza tutti i suoi intendimenti, che a volte si manifesta con incubi mostruosi e terrificanti, che ha strascichi anche durante la giornata con una terribile stanchezza e continui problemi intestinali. Il credere al juju, allora, riletto secondo la lezione di Severi, può portare, come in questo caso, ad un fraintendimento dove la professione di fede viene confusa con il “dubbio” di Esther che il juju possa esistere. In Esther, inoltre, emerge chiaramente la sfida che si ha nella relazione terapeutica. Il corpo di Esther parla, ma Esther no, non spiega, devono essere i terapeuti a comprenderla, ad oggettivare il suo dolore che per lei è palese e dovrebbe essere facilmente rilevabile. Il percorso avviato di psicoterapia individuale è stato pressoché fallimentare, dopo poche sedute la ragazza ci ha detto che non voleva più andare e per farci contenti, ha dichiarato «Sono guarita, non preoccupatevi». Nel contempo, però, gli accessi al Pronto Soccorso erano periodici. Il corpo silenzioso di Esther veniva costantemente testato su più livelli dando fondo a tutti i dispositivi diagnostici che il sistema ospedaliero aveva a disposizione. Ma il suo malessere incorporato non trovava una spiegazione, un'oggettivazione che anche Esther cercava. Con gli operatori sanitari, inoltre, Esther non parlava, fingendo di non comprendere né l'italiano né l'inglese. Le risposte, Esther le cercava esponendo solo il suo corpo alla scienza che avrebbe dovuto vedere dentro di lei e darle una spiegazione di tutto quel dolore. L'autorevolezza concessa al personale sanitario, però, si basava su un malinteso di fondo, ovvero sulla forma della relazione terapeutica, una forma che affondava le sue radici nella storia della persona, in un luogo e in una visione del mondo distante dalla nostra, dove, al terapeuta non va detto nulla, sarà lui, forte dei suoi poteri sovrannaturali, a dare le giuste risposte. Credo che anche Esther non sia guarita, quello che si è potuto fare è averne cura ma quella fragilità ed emotività rimase e rimane latente, mitigata solo, a volte, dall'affetto che ha per molti colleghi che con lei hanno condiviso ansie e gioie durante il suo percorso.

In chiusura al webinar l’attenzione si è spostata, se pur brevemente, sul ruolo dell'operatore in questa relazione complessa d'aiuto. Il corpo sociale di cui facciamo parte ci rende detentori di un potere ma allo stesso tempo, come ha dichiarato Maria Nolet, detentori di un'impotenza che ha posto l'attenzione sull'importanza e la difficoltà di saper gestire e mantenere i confini, provando ad evitare quei malintesi tratteggiati più volte in questo testo. I confini sono la porta d'accesso al mondo dell'altro, dobbiamo riconoscerli per non confonderci, per non perderci, ma allo stesso tempo il riconoscimento di questi confini è l'unico modo per trovare la serenità necessaria nel confronto ed incontro con l'altro. Inoltre, come ribadisce Maria Nolet, l'altro mette i propri confini e spesso attua un attaccamento individuale in cui configura l'operatore «come colui che tutto può e se non può è perché non vuole». Le ultime riflessioni delle relatrici, condivise anche con il pubblico, hanno evidenziato come il dibattito era tutt'altro che concluso, eventualmente si potrebbe dire che riflessione sulla complessità fosse appena iniziata.

Un attento lavoro sulla riflessività e sull'etnocentrismo critico sono alla base di una buona comprensione dell'altro e di una fattiva attività di accoglienza e ascolto. La sfida che il sistema d'accoglienza ha è quella di lavorare sull'agency delle persone in accoglienza cercando, però, di non entrare in crisi quando questa agency si manifesta e quando l'Altro prende parola.

Bibliografia

Dei, F. 2006. Antropologia della violenza. Roma. Meltemi.

Destro, A. 2005. Antropologia e religione. Brescia. Morcelliana.

Mauss, M. 1965 [1950]. Teoria generale della magia e altri saggi. Torino. Einaudi.

Mol, A. 2002. The Body Multiple. Durham. Duke University Press.

Patel, R. 2008 [2007]. I padroni del cibo. 2008. Milano. Feltrinelli.

Pizza, G. 2006. Antropologia medica: saperi, pratiche e politiche del corpo. Roma. Carocci Editore.

Quaranta, I. 2006a. «Introduzione» in Sofferenza sociale, anno 6 (8): 5-15.

Quaranta, I. 2006b. Antropologia medica: i testi fondamentali. Milano. Raffaello Cortina.

Quaranta, I. Ricca, M. 2012. Malati fuori luogo. Milano. Raffaello Cortina.

Severi, C. 2000. Proiezioni e credenza. Nuove riflessioni sull'efficacia simbolica. Etnosistemi, 7: 75-85.

Scheper-Hughes, N. 2001 [2000]. Il traffico di organi nel mercato globale. 2001. Verona. Ombre Corte.

Scheper-Hughes, N. 2004 [2002]. Corpi in vendita. Verona. Ombre corte.

Shiva, V. 2010 [2002]. Le guerre dell'acqua. 2010. Milano. Feltrinelli.

Shiva, V. 2011 [2005]. Il bene comune della Terra. 2011. Milano. Feltrinelli.

Taliani, S. 2010. «Nozione di tecnica del corpo» in La ricerca qualitativa in psicologia clinica. Del Corno, F., Rizzi, P. (a cura di). Milano. Raffaello Cortina Editore: 217-240.



[1] In merito a questo specifico progetto d'accoglienza, è proprio il Dipartimento delle Pari Opportunità che sovrintende e finanzia le attività a livello nazionale ad usare il termine “programma”.

[2] Consultabile al seguente link: https://www.facebook.com/watch/live/?extid=SEO----&ref=watch_permalink&v=280155603520546

[3] In merito alla rete regionale “Oltre La Strada”, si faccia riferimento al contributo di Silvia Lolli in questo numero.

[4] Ricercatrice e docente di discipline antropologiche presso l'Università di Bologna e attualmente presso l'Università di Modena e Reggio Emilia.

[5] Psichiatra presso il Dipartimento di Salute Mentale dell'Ausl di Bologna, impegnata anche in progetti multidisciplinare come Start-ER (Salute di richiedenti e titolari di protezione internazionale) e I.C.A.R.E. (Integration and Community Care for Asylum and Refugees in Emergency).

[6] Ho frequentato l'Università di Bologna dove ho conseguito sia la laurea triennale in Scienze Antropologiche che la laurea magistrale in Antropologia culturale ed etnologia.

[7] Nel 2005 sono entrato in un gruppo locale dell'Organizzazione Non Governativa Mani Tese (www.manitese.it) e con il crescente interesse per la migrazione e la tematica dei diritti nel 2009 sono diventato volontario anche dell' Ass. Avvocato di Strada (www.avvocatodistrada.it/) perché ritenevo importante approfondire le tematiche del diritto e della tutela legale.

[8] L’associazione di promozione sociale Centro di Salute Internazionale e Interculturale (CSI) – APS si è costituita nel giugno 2015 per formalizzare la collaborazione, esistente da tempo, tra ricercatori e ricercatrici afferenti al Centro Studi e Ricerche in Salute Internazionale e Interculturale dell’Università di Bologna. (www.csiaps.org).

Ne ho seguito gli incontri per circa due anni.

[9] Diventai uno dei volontari dell'unità di strada e seguì alcuni cicli di formazione (www.vialibera.org)

[10] (www.apg23.org)

[11] Per un'analisi delle attività svolte dal progetto si faccia riferimento ai report editi su www.quadernidellatratta.apg23.org

[12] A tutela della privacy, tutti i nomi usati sono di fantasia.

[13] Il distinguo fatto sul genere è da connettersi principalmente ai differenti target di migranti che accedono al nostro programma e al loro personale percorso di tratta. Le vittime di sfruttamento a fini sessuali e di attività illecite sono le persone che vanno maggiormente tutelate da pericolose ritorsioni da parte dei trafficanti e da chi le ha sfruttate.

Gli uomini che accedono al nostro programma vengono, invece, principalmente dallo sfruttamento lavorativo che non prevede, nella maggior parte dei casi, l'attuazione di programmi volti alla tutela dell'incolumità personale.

[14] Sulle figure coinvolte nella tratta e nello sfruttamento vi è una enorme letteratura tecnica e scientifica. In questa sede si rimanda al lavoro svolto dalla Rete per conto dell'“Osservatorio permanente per la legalità e il contrasto alla criminalità organizzata” del Comune di Bologna. Nel report la Comunità ha curato un contributo in cui si è deciso di raccontare le mafie che gestiscono il traffico internazionale di esseri umani prediligendo solo il punto di vista delle vittime e degli operatori.

http://www.comune.bologna.it/osservatorio-legalita/sfruttamento-prostituzione-documentazione/

[15] Il concetto di setting clinico complementarista è definito da Devereux quando «designava sia l’impossibilità di adottare nello stesso momento un approccio psicoanalitico ed etnologico nell’interpretazione del comportamento di gruppi o di individui, sia la necessità di farvi ricorso in momenti successivi per realizzare una comprensione soddisfacente dei dati della ricerca e del materiale emerso nella clinica, nonché della posizione stessa dell’osservatore/terapeuta» (Taliani 2010: 218).

Per geometria variabile, invece, si faccia riferimento al lavoro di Marie Rose Moro che afferma: «Alcune famiglie non si aspettano assolutamente di instaurare un dialogo, vengono per chiederci qualche cosa e non per stabilire un rapporto psicoterapeutico, quindi cominciamo con il discutere con loro per capire che cosa ciascuno di noi vuole raggiungere e come possiamo riuscirci. Inizialmente si tratta di concordare una strategia di quello che si farà e in seguito di utilizzare i vari strumenti a disposizione: le consultazioni urgenti, individuali, in piccoli gruppi o gruppi più ampi, con uno o più terapeuti. Ci sono appunto problemi che è importante trattare tramite le parole, altri tramite il corpo, il gioco o lo psicodramma. Le terapie, comunque, sono molto diverse tra di loro e noi sentiamo la necessità di adattarci. Per questo parlo di dispositivo a geometria variabile, in quanto non proponiamo a tutte la famiglie la stessa cosa, la stessa soluzione». In https://www.didaweb.net/mediatori/articolo.php?id_vol=850 (consultato in data 06/11/2021).

[16] Sull'argomento si vedano anche, tra gli altri, i lavori di Ivo Quaranta (2006 a, b; 2012) inseriti in bibliografia e l'opera di Annemarie Mol (2002).

[17] La dott.ssa Nolet fece riferimento al Codice ICD9 per le diagnosi e le terapie.