Recensione

Giacomo Pozzi, Fuori Casa. Antropologia degli sfratti a Milano, Milano, Ledizioni, 2020

Silvia Stefani

Università degli Studi di Torino

Le analisi afferenti al campo dei Critical Urban Studies e dell’antropologia urbana da anni sottolineano come l’urbano stia diventando uno dei campi privilegiati per l’accumulazione del capitale (Harvey 2012; Rolnik 2015; Madden, Marcuse 2016). Il tradizionale ruolo svolto dalle città come riserva per lo stoccaggio del surplus del capitale assume una dimensione globalizzata nell’epoca del capitalismo finanziario. L’abitare si sta affermando, infatti, come uno dei principali asset finanziari attuali, con declinazioni che spaziano dal mercato dei mutui subprime (Aalbers 2017) alle politiche pubbliche – sempre più diffuse in Sud America – volte a diffondere tra le fasce più povere della popolazione il modello della casa di proprietà ottenuta tramite indebitamento (Rolnik 2015). Queste forme di accumulazione si alimentano di diversi processi di espulsione: dei lavoratori dal mercato del lavoro, dei migranti dai paesi di destinazione, degli abitanti precari dai quartieri in corso di valorizzazione (Sassen 2014). Gli sfratti rappresentano uno dei dispositivi di espulsione più significativi. Eppure, come scrive Matthew Desmond (2012: 88): «evictions is perhaps the most understudied process affecting the lives of the urban poor». Proprio Desmond (2016) ha recentemente contribuito a dare maggiore visibilità al fenomeno con il testo Evicted, che nel 2017 è stato insignito del Premio Pulitzer.

Fuori casa. Antropologia degli sfratti a Milano contribuisce a colmare questa lacuna, in particolare nel panorama dell’antropologia italiana[1]. Quest’opera si basa su un lavoro prolungato di ricerca etnografica condotta da Giacomo Pozzi nella città e nella periferia di Milano, tra il 2015 e il 2018. La ricerca nasce inizialmente in un’occupazione abitativa situata nella periferia nord di Milano, una sorta di trasposizione urbana del “villaggio”, terreno etnografico privilegiato all’esordio dell’antropologia. Ben presto, tuttavia, Pozzi è invitato dagli stessi attori incontrati sul campo a uscire dal “villaggio”, per analizzare quello che lui definisce i “ritmi urbani” della città. A partire, principalmente, dall’agire quotidiano del Sindacato Nazionale Unione Inquilini, Pozzi si addentra nel fenomeno complesso degli sfratti, ne incontra e affianca gli attori principali – sfrattati e “sfrattandi”, ufficiali giudiziari, delegati sindacali, fabbri, proprietari, assessori – adottando posizionamenti diversi su un campo che si distingue come conflittuale. Il testo ci accompagna in quella che Pozzi, con un’espressione deleuziana, definisce “la matassa” dello sfratto, composta da linee di diversa natura intrecciate tra loro. L’autore sceglie di non “sbrogliare” la matassa, ma piuttosto di muovere l’analisi focalizzandosi sui nodi stessi e, così facendo, produce nuovi nodi, legati alla riflessività antropologica che accompagna l’esplorazione etnografica. Fin dall’introduzione emerge un assunto, in parte premessa in parte risultato del percorso di ricerca, che accompagna l’intero libro: contrariamente all’idea diffusa nel senso comune, gli sfratti non rappresentano l’esito finale di processi di impoverimento, ma piuttosto una delle ragioni e dei fattori principali di tali processi. Se Desmond per raccontare gli sfratti nella città di Milwaukee ha scelto di utilizzare in maniera estensiva l’etnografia avvalendosi dell’analisi come matrice organizzatrice del materiale empirico, Pozzi fa invece un impiego misurato dei dati etnografici, evitando in particolare di usare un materiale emotivamente denso – dato il tema di ricerca – al fine di suscitare una risposta emozionale nel lettore. Nei cinque capitoli tematici che strutturano il testo è l’analisi critica dell’autore ad accompagnare la lettura, analisi che è solidamente elaborata a partire dalla ricerca empirica e dal dialogo con una letteratura eterogenea.

Per analizzare il fenomeno degli sfratti, Pozzi adotta la prospettiva teorica della ritmánalise elaborata originariamente dal filosofo portoghese Lucio Alberto Pinheiro dos Santos (1993) e ampiamente ripresa nell’opera di Henry Lefebvre (2004). Assumere uno sguardo “ritmico” permette di comprendere l’interrelazione tra spazio e tempo nello svolgimento della quotidianità, considerandole come dimensioni tra loro imbricate. Nella matassa degli sfratti, l’antropologo analizza l’articolazione tra tre ritmi differenti, che procedono a volte con velocità differenti, separati tra loro, altre si intrecciano negli “eventi” fondanti del processo, come nell’esecuzione di sfratto. Si tratta di ritmo burocratico, ritmo strutturale e ritmo intimo. L’apparato burocratico dello sfratto costituisce una dimensione fondamentale del fenomeno ed è il piano su cui vertono le stesse lotte sindacali, che utilizzano in maniera strategica le procedure e i regolamenti amministrativi. L’analisi di Pozzi restituisce alla burocrazia una densità simbolica e analitica: come già evidenziato da Mary Douglas (1990) ogni società elabora delle “categorie” per pensare, interpretare e intervenire nella realtà sociale. Le categorie rappresentano dunque una sedimentazione di significati condivisi, che, proprio in quanto parte di un orizzonte condiviso di senso, sono oggetto di scontro e disaccordo nel campo conflittuale analizzato dall’antropologo. Il ritmo burocratico che regola il processo di sfratto si innesta sul ritmo strutturale, ovvero il carattere «storico, economico e culturalmente costruito del fenomeno degli sfratti» (Pozzi 2020: 50). Su questo piano, nella rappresentazione collettiva, ha luogola riduzione di questo fatto sociale a problema individuale, privato, che come tale spesso viene vissuto e affrontato da chi lo subisce. Infine, a questi ritmi si aggiunge quello “intimo” che riguarda l’agire e il sentire dei singoli attori coinvolti nel processo, che producono rappresentazioni diverse dei fatti in cui sono coinvolti.

Una volta affrontato l’approccio analitico, il libro si focalizza su quattro elementi diversi che offrono una prospettiva di lettura del fenomeno: la casa, il momento dell’esecuzione di sfratto, il ruolo dell’ufficiale giudiziario, l’azione del Sindacato Inquilini. La casa costituisce il primo “attore” a entrare in scena, infatti «simboli, valori e immaginari legati alla casa, alla proprietà, all’appartenenza vengono costantemente riattivati nel procedimento di sfratto» (Pozzi 2020: 50). Nel campo osservato emergono due diverse prospettive egemoniche sulla casa in opposizione tra loro: la casa come servizio e la casa come diritto. La prospettiva istituzionale immagina la casa come un servizio da governare, qualcosa, dunque, di erogabile in virtù di alcuni criteri selettivi, nonché perdibile nel momento in cui questi non vengano più soddisfatti. Il Sindacato Inquilini, così come diverse persone sfrattate incontrate durante la ricerca, propone invece una rappresentazione della casa come diritto, mediato da un servizio pubblico, pur riconoscendo quanto al momento questa prospettiva sia stata recepita dal modello istituzionale italiano in maniera limitata. I due discorsi ufficiali condividono una radice comune: il modello della casa di proprietà, che riconoscono essere alla base delle politiche abitative italiane e di cui auspicano il superamento. La ricerca etnografica, tuttavia, mette in luce come nella quotidianità dell’agire sociale, queste due prospettive si articolino in maniera frammentaria e incoerente. La casa emerge dunque nel suo carattere ambiguo, che permea di ambivalenze l’agire di tutti gli attori coinvolti nel fenomeno degli sfratti, come emerge dal testo. La difficoltà di fornire una lettura organica e coerente della rappresentazione della casa produce incomprensioni tra le parti coinvolte, anche tra gli stessi delegati sindacali e le persone minacciate di sfratto. Da questi malintesi, che nascono da una mancata comprensione dei significati attribuiti alla casa dall’altro, deriva un paradosso colto dall’occhio critico dell’antropologo: nella stessa azione del Sindacato Inquilini si riproduce una dinamica di “eleggibilità”, analogamente a quanto avviene nel servizio pubblico, in quanto si tende a privilegiare i casi delle persone che adottano comportamenti considerati dai delegati moralmente coerenti con la considerazione della casa come un diritto.

Alla casa fa da contraltare la sua assenza, o meglio il momento di perdita della casa, oggetto di analisi del terzo capitolo. L’esecuzione di sfratto costituisce un momento “denso” di significati simbolici e di azioni, che condensa i diversi ritmi considerati e vede l’azione congiunta dei vari attori presenti nel campo di ricerca. Per analizzarlo, Pozzi adotta la metafora della performance teatrale, rintracciando nel procedimento la presenza di un canovaccio, degli attori principali, delle comparse. La metafora teatrale non è volta a essenzializzare il processo di sfratto, ma vuole piuttosto sottolineare l’azione di riduzione della realtà insita nella processualità burocratica-giuridica. Come evidenzia David Graeber (2013, 2016), la burocrazia si fonda, infatti, sulla semplificazione essenzializzata della complessità del reale. Proseguendo il dialogo con l’opera dell’antropologo statunitense, Pozzi riconosce nell’utilizzo delle forze dell’ordine in diverse esecuzioni di sfratto un’esplicitazione di una seconda caratteristica della burocrazia: una costante minaccia di aggressione fisica a essa sottesa che è fondamento del suo funzionamento. L’analisi dell’autore e le descrizioni etnografiche del momento dello sfratto sgretolano la rappresentazione della burocrazia come un potere impersonale e asettico, mettendone in luce la natura violenta. In contrasto con questa premessa di essenzializzazione violenta del reale, l’etnografia evidenzia, tuttavia, come l’esecuzione di sfratto sia un processo negoziale. Non esiste una causalità immediata tra la volontà istituzionale di sloggiare un inquilino e la sua realizzazione concreta: di fatto l’esecuzione di sfratto è un momento in cui i diversi attori coinvolti si confrontano e negoziano i termini dell’evento a partire dalle diverse rappresentazioni che ne producono.

Tra gli attori che sulla “scena” dell’esecuzione di sfratto hanno un ruolo da protagonisti rientrano sicuramente gli ufficiali giudiziari. Uno dei meriti di questo testo consiste proprio nella scelta metodologica di Pozzi di adottare diversi posizionamenti su un campo contrassegnato da un’estrema conflittualità. In particolare, dopo i primi mesi di ricerca con il sindacato, l’antropologo decide di accompagnare l’attività di un ufficiale giudiziario, non senza dover affrontare una serie di dilemmi etici personali, legati alla solidarietà provata con la causa degli sfrattati e del sindacato e al timore di incontrare sul campo persone conosciute “dall’altro lato delle barricate”. Accompagnando un ufficiale giudiziario, tuttavia, Pozzi mitiga i rischi di quello che Olivier de Sardan definisce “incliccaggio”, ovvero il rischio di diventare “troppo la voce della clique d’adozione” (2009: 54) riportandone i punti di vista, senza la possibilità di esplorare quelli degli altri attori in campo. A fianco dell’ufficiale giudiziario, l’antropologo esplora le rappresentazioni molteplici circolanti in società relative a questa figura e quelle elaborate dallo stesso funzionario, che orientano la sua azione professionale. L’ufficiale protagonista del quarto capitolo considera la questione degli sfratti come un problema sociale più che di ordine pubblico e di conseguenza modula la propria agency sul campo, facendo ricorso a diversi strumenti legislativi non circoscritti al provvedimento di sfratto. Analogamente a quanto avviene all’interno del sindacato, anche l’ufficiale giudiziario può agire dilazionando i tempi del processo – pur senza alterarne l’esito finale – appellandosi a norme che afferiscono ad altri ambiti, quali la tutela dei minori.

All’azione del sindacato è dedicato l’ultimo capitolo del libro. Pozzi definisce il sindacato una “comunità di pratiche” (Grasseni, Ronzon 2004), pratiche che i suoi membri apprendono sul campo e che spaziano tra diversi piani: dall’utilizzo competente di un linguaggio verbale e non verbale, all’abilità relazionale con cui si confrontano con gli utenti del sindacato, ma anche con ufficiali giudiziari e forze dell’ordine, alla capacità di aspirare (Appadurai 2014), ovvero di immaginare e desiderare un futuro migliore. L’azione sindacale agisce ribaltando alcuni nodi centrali del fenomeno degli sfratti, legati all’interazione tra la dimensione privata e quella pubblica. Se la processualità burocratica tende a diluire la responsabilità socio-politica degli sfratti nell’arena sociale (Herzfeld 1992), provocando nei soggetti sentimenti di colpa e vergogna, il sindacato mira invece a socializzare il fenomeno. Le azioni promosse dall’organizzazione, in particolare i picchetti anti-sfratto, sovvertono la divisione tra la dimensione intima e pubblica. I provvedimenti di sloggio trasbordano così dalle mura domestiche e assumono una visibilità che obbliga le istituzioni pubbliche a farsi carico della situazione del nucleo di sfrattati. L’etnografia racconta le sfumature che questa strategia assume nella sua realizzazione concreta: proprietari e avvocati che protestano furiosi, percependo una violazione di una sfera delimitata dalle leggi a tutela della proprietà privata, ma anche inquilini che, pur essendosi rivolti al sindacato, vivono con disagio questa pubblicizzazione della propria intimità e dello spazio domestico. Soprattutto, l’analisi etnografica restituisce una visione sfaccettata delle posizioni dei partecipanti, che riconosco una parte di legittimità nell’azione dei propri antagonisti. L’arena dello sfratto si qualifica dunque anche per i militanti come un ambito in cui dover affrontare quello che Pietro Saitta (2018) ha chiamato “lavorio”, ovvero le tensioni insite in un’azione permeata di una costante ambiguità.

Sebbene nel corso del testo lo scenario milanese con le sue trasformazioni rimanga sullo sfondo per dare maggior visibilità ai protagonisti dei processi di sfratto e alle procedure burocratiche-amministrative, l’autore non tralascia le peculiarità della capitale milanese, oggi capitale degli investimenti di real estate italiano. Pozzi riprende un annuncio di Beppe Sala del 2019, quando il sindaco milanese ha dichiarato che, nei prossimi dieci anni, tredici miliardi di investimenti immobiliari avrebbero raggiunto Milano. Alla luce dell’analisi sviluppata nel testo, tuttavia, questa dichiarazione non può essere una notizia felice: «l’aumento di investimenti è ampiamente coerente con il fenomeno qui indagato: una città neoliberale più ricca è una città necessariamente più escludente» (Pozzi 2020: 160). Esclusioni – ed espulsioni per usare le parole di Sassen (2014) – che vedono negli sfratti uno dei meccanismi chiave. Gli sfratti, ci dice Pozzi, possono essere considerati infatti processi “antropo-poietici” che danno forma all’umano costruendo una specifica categoria inedita, “gli sfrattati”, adatta alla città neoliberale. Il panorama descritto da Pozzi sembra particolarmente cupo, soprattutto alla luce dei numeri che fornisce: solo nel 2018 Milano ha visto un incremento di sfratti del 600%. Tuttavia, proprio lo sguardo etnografico riesce a far emergere l’agency di tutti i partecipanti coinvolti e restituisce una dimensione negoziale – oltre che conflittuale – all’intero fenomeno.

Questo libro ha il merito, quindi, di portare all’attenzione pubblica un fenomeno che, nonostante la sua crescente importanza, rimane circoscritto alla dimensione domestica e intima di chi lo subisce. Coerentemente con la strategia del sindacato, anche Fuori casa mira a socializzare il fenomeno degli sfratti e ne ricostruisce una responsabilità socio-politica allargata. Lo fa con un’acuta capacità di analisi e valorizzando le potenzialità del metodo di ricerca etnografico, tra le quali la capacità di costruire una rappresentazione del fenomeno sfaccettata e polifonica. Questo libro rappresenta dunque un ottimo esempio di “antropologia pubblica”, che affronta un tema di interesse collettivo e che, per questo, è auspicabile che venga letto al di fuori della sola cerchia antropologica, per dialogare con pubblici diversi e confutare la credenza errata che vede lo sfratto come esito finale di un processo di impoverimento. Gli sfratti, ribadisce Pozzi, sono una delle ragioni e dei fattori principali di impoverimento.

Nel corso del libro, di fronte ai vari dilemmi etici incontrati nel percorso di ricerca, l’autore racconta di aver provato a decentrarsi, prendere distanza dal suo senso personale di giustizia all’interno dell’arena a cui stava partecipando. Nonostante questo sforzo, Pozzi racconta come la ricerca lo abbia portato a essere ancora più convinto dell’esistenza di una violenza radicata nella pratica degli sfratti, ma anche della possibilità e necessità politica di produrre strumenti di intervento sociale che supportino le persone coinvolte, senza colpevolizzarle o discriminarle. Alla luce di quanto descritto, ci auguriamo che la lettura di questo testo circoli tra diverse sfere di lettori e sollevi domande e sensibilità analoghe, rendendo sempre di più gli sfratti una questione pubblica.

Bibliografia

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[1] Per altri contributi sul tema si vedano Tosi Cambini (2014), Saitta (2018).