Recensione

Aurora Massa, Intrecci di Frontiera. Percorsi, speranza e incertezze nelle migrazioni tra Eritrea ed Etiopia, Roma, CISU, 2021

Giuseppe Grimaldi

University of Trieste

In Etiopia è in atto quello che nel discorso pubblico internazionale si va definendo come un possibile genocidio[1]. Le forze governative etiopi, insieme a quelle eritree e a milizie regionali dell’altopiano etiope dall’autunno 2020 stanno devastando il Tigray, regione di frontiera tra Etiopia ed Eritrea. Il Tigray dai primi anni ‘90 e fino alla fine del decennio scorso, aveva espresso la classe di potere egemone nel paese. Decenni contrassegnati da grandi squilibri sociali e conflitti interni alla regione del Corno d’Africa ma anche da una crescita economica tangibile. Oggi il nuovo corso politico nel paese, sfruttando la convergenza di interessi etno-regionali, nazionali e transnazionali, sta portando non solo il Tigray, ma il paese intero[2], a una catastrofe sociale e umanitaria le cui proporzioni ed effetti sono senza precedenti[3].

Questo preambolo geopolitico è fondamentale per comprendere la rilevanza pubblica del testo Intrecci di Frontiera di Aurora Massa. La sua ricerca di campo si svolge interamente in Tigray e precisamente a Mekelle, ai tempi della ricerca fiore all’occhiello del paradigma sviluppista etiope e oggi bombardata dalle truppe del governo centrale etiope e rastrellata da quelle eritree.

In quel contesto produce un’analisi sul significato sociale della frontiera etio-eritrea lavorando con i rifugiati eritrei che la attraversano per fuggire dal regime di Isias Afwerki e i rimpatriati etiopi espulsi o ritornati in Etiopia dopo aver vissuto per generazioni in Eritrea a seguito dell’inasprimento delle relazioni tra i due contesti. Soggetti che tra desideri, speranze e incertezze orientano la loro vita attorno al binomio “mobilità-immobilità”. Questo libro, insomma, si occupa di migranti, di soggetti che vorrebbero migrare, di chi vive attorno alle migrazioni. Ma soprattutto dei mondi di possibilità che da quello spazio di frontiera scaturiscono.

Una frontiera, quella etio-eritrea, che sin dal periodo coloniale ha assunto forme e funzioni anche diametralmente opposte e che, come mostra la cronaca di quest’ultimo periodo, continua a produrre nuovi significati. Ma una frontiera densa di contenuti sociali e culturali sedimentati, che viene vissuta e riprodotta quotidianamente da molteplici soggettività (i cittadini, i rifugiati eritrei, i rimpatriati etiopi dall’Eritrea) che si confrontano con gli apparati nazionali e sovranazionali volti a controllare e gestire le mobilità che da quel contesto si attivano. Di questo spazio fluido, viscoso e denso si occupa il lavoro di Massa attraverso una minuziosa e profonda attività di ricerca di campo capace di tenere insieme modelli sociali di natura micro, meso e macro la cui interazione, integrazione e scontro determinano l’attuale assetto sociale dell’area.

Intrecci di Frontiera si compone di tre fuochi d’attenzione principale che vengono presi in considerazione in forma interdipendente. Fuochi d’attenzione il cui approfondimento si pone come un punto di partenza necessario per comprendere la regione, le dinamiche che da quel contesto si innescano e gli effetti che producono a livello globale.

Il primo fuoco di indagine è ovviamente quello della frontiera che in tutto il lavoro viene articolata e disarticolata in quanto spazio sociale e analitico. Il concetto di frontiera a dire il vero è in questo testo l’asse teoretico su cui si orienta l’etnografia: la frontiera, il margine, si pone quindi come un punto di vista privilegiato, un osservatorio per analizzare le pratiche e i mondi sociali che si costruiscono attorno ai soggetti attratti in quello spazio da mobilità desiderate, immaginate, imposte.

Il secondo fuoco d’attenzione si costruisce attorno al frame del binomio mobilità/immobilità: lungo tutto il testo Aurora Massa mette al centro della scena le possibilità e le costrizioni che si snodano attorno al tema della mobilità realizzata, mancata o desiderata. Il suo lavoro opera una vera e propria destrutturazione del rapporto dicotomico tra migrante economico e migrante forzato su cui si orientano le politiche sulle migrazioni mettendo invece in campo i molteplici e sovrapposti livelli che entrano nella costruzione dei percorsi di mobilità. Ne viene fuori un quadro composito e un’analisi precisa di una cultura della mobilità costruita dal basso.

Il terzo fuoco d’attenzione ingloba i due precedenti e ne determina le possibilità analitiche. Intrecci di Frontiera è infatti un testo necessario per chiunque voglia approcciarsi al Corno d’Africa e in modo specifico alla regione dell’altopiano etio-eritreo. Massa mette in gioco nel testo le questioni storiche, politiche e culturali che determinano l’attuale configurazione dell’area e le fa emergere etnograficamente. Le biografie e le narrazioni dei soggetti della ricerca raccontano infatti processi che trascendono dalle categorie nazionali e sovranazionali, che aprono a forme di costruzione della “storia” locali e che permettono di comprendere le molteplici frontiere che costruiscono il posizionamento, le speranze e le scelte di vita dei soggetti della ricerca.

Il primo capitolo del libro in questo senso è dedicato proprio al farsi nel tempo di questa frontiera tra Etiopia ed Eritrea. In questo capitolo viene preso in considerazione un secolo di rivolgimenti politici e sociali nell’area mostrandone gli effetti in entrambe le configurazioni statali senza cadere in riduzionismi o facili semplificazioni. Viene inoltre messo molto bene in luce il continuo slittamento e la sovrapposizione tra dimensione nazionale ed etnica nel farsi e nel disfarsi della frontiera etio-eritrea. Questo capitolo inoltre entra nell’attuale dibattito pubblico sull’eredità del colonialismo italiano e mostra ancora una volta l’interdipendenza tra i processi di dominio coloniale e le attuali configurazioni etno-nazionali nel Sud del mondo. Un punto di vista fondamentale soprattutto considerato che nell’ultimo decennio le migrazioni dal Corno d’Africa e in particolare dall’Eritrea hanno avuto un ruolo di primo piano nella cosiddetta rotta Mediterranea.

Nel secondo capitolo entrano in gioco i “protagonisti” del libro, i rifugiati eritrei e i rimpatriati etiopi a Mekelle. Dividendo il capitolo in due sezioni distinte per ciascuno dei due gruppi di riferimento emergono i discorsi e le pratiche attraverso cui tra questi due gruppi, entrambi provenienti dall’Eritrea, entrambi in percorsi di mobilità ed entrambi visti come “altri” rispetto allo spazio locale, mettono in campo confini materiali e simbolici per la costruzione del sé e dell’altro.

In questo capitolo da un lato è l’incertezza a configurarsi come paradigma esistenziale per soggetti, i rimpatriati etiopi, costretti a ridefinire il concetto stesso di casa. Dall’altro lato, viene messa in gioco quella che Massa definisce come “cultura della fuga”, un modo per sottrarsi al “divenire niente” che contraddistingue la vita dei giovani eritrei segnati dalla coscrizione obbligatoria e permanente e dall’impossibilità di autorealizzazione che contraddistingue il regime eritreo.

In questo capitolo le motivazioni “dal basso” si intrecciano, ancora una volta, con le strutture legislative, sociali, simboliche entro cui si orientano i regimi della mobilità a livello tanto locale quanto transnazionale. Questo capitolo in questo senso diventa un’ottima lettura per rifuggire tanto facili retoriche umanitariste quanto l’adesione acritica ai paradigmi internazionali (e ai corpus legislativi nazionali) che determinano la possibilità di muoversi.

Difatti nel terzo capitolo assistiamo a quella che si potrebbe definire come una vera e propria guerra di confine: una guerra dove da un lato ci sono le categorie istituzionali e sociali che determinano status giuridici, possibilità di mobilità o immobilità, accesso a strutture umanitarie, possibilità di altrove e forme di quotidianità e costrizioni. Dall’altro ci sono i confini simbolici, le forme di riposizionamento che attengono alle biografie degli attori sociali in gioco, ai loro vissuti, alle reti parentali, alle alleanze.

L’autrice mette in gioco questa continua interazione, che definisce “gioco” sul confine.

I paradigmi su cui si costruiscono le “categorie” di riferimento delle migrazioni vengono così smontati, rilavorati, e reinstallati in una quotidianità fatta di opportunità, costrizioni e tanta fluidità. Ad esempio un rifugiato eritreo a Mekelle può accedere a programmi di resettlement ma non può pernottare in un albergo etiope.

Questo “gioco” sul confine è sicuramente un gioco pericoloso e se da un lato produce possibilità e opportunità, dall’altro si fonda sull’ “incertezza” e sulla “diffidenza”, due categorie che si dimostrano essere pregnanti anche in questo capitolo.

Un gioco che infatti, come si mostra nel quarto capitolo tocca i nervi scoperti dei processi di costruzione del sé e dell’altro nella frontiera, con uno sguardo profondo sulle semantiche della mobilità forzata. Il capitolo che analizza la relazione tra mobilità e immobilità degli eritrei che popolano la frontiera mette in gioco uno spazio liminale: non più “casa”, non ancora “siddet” (ossia diaspora), lo spazio sociale che si potrebbe identificare con il “Nord globale” - ma che come mostra Milena Belloni (2020) ha al suo interno forti stratificazioni - verso cui tendono i progetti di mobilità dei rifugiati eritrei. Uno spazio liminale che, come tale, si configura quale campo di possibilità. In questo senso rifacendosi al concetto di “agency in waiting” di Brun (2015), Massa analizza le opportunità che si possono creare nell’attesa: dagli studi, al lavoro, fino al mettere su famiglia. Se la migrazione rappresenta una forma di evitamento della “morte sociale”, la frontiera non è una sala d’aspetto: il suo carattere fluido e denso e la sua articolazione tra possibilità, desideri, incertezze è capace di generare percorsi biografici molteplici.

Il quinto capitolo mette in gioco proprio questo nel rapporto con i rimpatriati. La frontiera diventa l’emblema di una vita per soggetti che rompono con la loro presenza quella metafisica sedentarista che associa a un popolo un determinato spazio. I rimpatriati sfidano l’isomorfismo tra identità e nazione: per loro il concetto di “straniero” emerge nella sua forma totale, svincolata dalla territorialità e dall’appartenenza e diventa forma di costruzione del sé e del rapporto con lo spazio che abitano (Camus, 1942).

I rimpatriati, parafrasando Rastello (2010), portano la “frontiera addosso”: infatti meccanismi di irrigidimento della frontiera nazionale etio-eritrea si riverberano pesantemente nelle pratiche e nelle rappresentazioni dei rimpatriati. La frontiera diventa così una modalità per leggere i comportamenti, le scelte di vita, la relazione con gli stanziali e i rimpatriati stessi, così come l’idea di qui e altrove. Si costruisce in questo capitolo un’idea di spazio e identità che mette al centro la frontiera nel suo essere costitutivamente uno spazio trasformativo. D’altronde come afferma un rimpatriato: «Per cambiare la propria vita, gli Etiopici dall’Eritrea hanno cambiato Mekelle» (Massa, 2021, p.123).

Ed è nell’ultimo capitolo che questo intreccio di frontiera viene analizzato nei suoi effetti più prevedibili ossia l’analisi delle famiglie bi-nazionali. In questo senso Massa mostra come la frontiera entri anche in casa. L’analisi delle relazioni di parentela così come delle pratiche messe in atto per riprodurla mostra quanto questo istituto sociale diventi una forma di demarcazione e allo stesso tempo di disarticolazione della frontiera. In questo capitolo la parentela asserisce e mette in discussione i tracciati geografici, politici e ideologici dello stato nazione.

La pregnanza del capitolo si dà, così come negli altri, nella sua parte etnografica. L’autrice mettendo al centro le traiettorie biografiche dei soggetti appartenenti a famiglie bi-nazionali mostra come la parentela si configuri come uno spazio di interpolazione tra questioni locali etniche e politiche. La frontiera in questo senso diventa spazio di possibilità e costrizione per fare famiglia. E comunque un polo da considerare, da attraversare o da rompere per la riproduzione stessa dei legami familiari.

Mentre nella pressoché totale indifferenza dell’opinione pubblica nazionale il Tigray viene distrutto e stanno cambiando irrimediabilmente le dinamiche dell’intera regione del Corno d’Africa, Intrecci di frontiera pone l’attenzione sulla salienza di quello spazio, sulle vite che lo attraversano, ma soprattutto su cosa sia capace di generare. Un testo che è un invito a accendere una luce su un mondo sociale che ci riguarda molto di più di quanto crediamo.

Bibliografia

Belloni, M. 2029. The Big Gamble: The Migration of Eritreans to Europe, Berkeley, University of California Press.

Brun, C. 2015. Active waiting and changing hopes: Toward a time perspective on protracted displacement. Social Analysis, 59 (1): 19-37.

Camus, A. 1987 [1942]. Lo Straniero, Milano, Bompiani.

Rastello, L. 2010. La Frontiera Addosso: Così si deportano i diritti umani, Roma-Bari, Laterza.



[1] Alex de Waal, Ethiopia Tigray crisis: Warnings of genocide and famines, bbc.com, shorturl.at/adpyE (ultima consultazione in data: 19.10.2021).

[2] La situazione in Etiopia è in continuo aggiornamento e ad oggi l’intero paese è in rivolgimento con la controffensiva tigrina che si trova, al momento della scrittura di questo articolo, a poche centinaia di chilometri da Addis Abeba. Vedi Michele Farina, Etiopia, i ribelli del Tigray avanzano Abiy: «Li seppelliremo nel sangue», Corriere.it, shorturl.at/uBEQ1, (ultima consultazione 09.11.2021)

[3] La situazione umanitaria nella regione del Tigray viene monitorata dall’organismo delle Nazioni Unite OCHA (Office for the coordination of the humanitarian affairs) con update settimanali che riferiscono di carestie, di uno stato d’assedio permanente e di centinaia di migliaia di sfollati interni. Vedi Ethiopia - Northern Ethiopia Humanitarian Update, shorturl.at/lJKT9 (ultima consultazione in data: 19.10.2021).