Antropologia pubblica e ricerca visuale

Chiara Scardozzi

Pontificia Università Lateranense

Indice

Il Premio Fotografico della Società italiana di Antropologia Applicata
Ricerca visuale
Bibliografia

La fotografia è il processo attraverso cui l’osservazione

diventa consapevole di sé.

(Berger 2016: 35)

La sovrastimolazione visuale sembra essere una delle caratteristiche più evidenti della contemporaneità. Attraverso la tecnologia digitale, internet, la telefonia mobile e i social network ci stiamo abituando a vivere all’interno di flussi di immagini e contenuti visuali difficili da quantificare per velocità e dimensioni; ne siamo allo stesso tempo sia i fruitori/spettatori che i produttori/creatori. Realizziamo oggi più immagini di sempre[1]; gli smartphone sono divenuti un’estensione corporea e il tempo che intercorre tra scattare una foto e condividerla si è praticamente annullato.

Se la produzione di immagini è diventata più rapida e “democratica” non è detto che sia anche più consapevole. Proprio perché le percepiamo come parte della quotidianità, raramente le immagini si lasciano affrontare criticamente (Pieroni 2006). Come sostiene il fotografo catalano Joan Fontcuberta: «Siamo immersi in un ordine visuale nuovo e differente, che appare marcato soprattutto da tre fattori: l’immaterialità e la trasmissibilità delle immagini; la loro moltiplicazione e disponibilità; e il loro apporto decisivo nel rendere enciclopedici il sapere e la comunicazione» (2016: 7). Oltre a metterci in guardia rispetto a questo surplus, tipico di quello che definisce “capitalismo delle immagini”, Fontcuberta invita però a una riflessione cruciale:

La saturazione visiva ci obbliga, a maggior ragione, a riflettere sulle immagini che mancano. Le immagini che non sono mai esistite, quelle che sono esistite ma non sono più a nostra disposizione, quelle che hanno affrontato ostacoli insormontabili per venire alla luce, quelle che la nostra memoria collettiva non ha conservato, quelle proibite o censurate (Pieroni 2006: 41-42).

Personalmente trovo molto suggestivo pensare a queste “immagini del non ancora”o“del non più”, a queste imprevedibili visioni dall’ignoto, come possibilità di indagine creativa, che adoperi consapevolmente il visuale quale modalità conoscitiva e applicativa, in grado di generare una riflessione attenta rispetto alla cultura visuale odierna, alle possibilità e ai rischi offerti dalla tecnologia e dai nuovi media, ma anche alle sfide legate alle immagini in termini di rappresentazione, interpretazione e autorialità.

Negli ultimi decenni, l’etnografia visuale intesa come pratica accademica di “accompagnamento” e supporto documentale all’inchiesta sul campo, si è spostata sempre più verso l’ambito pubblico e la ricerca applicata (Pink 2007; 2013), divenendo anche una risorsa lavorativa per chi la pratica. Quali modi esistono quindi per trasmettere conoscenza antropologica attraverso la fotografia senza riprodurre gli stereotipi della documentazione descrittiva? Quali percorsi sinergici tra parole e immagini siamo in grado di attivare per raccontare i cambiamenti climatici, i conflitti, la memoria collettiva, i diritti negati, le trasformazioni ambientali, i mutamenti socio-culturali?

La fotografia non duplica la realtà, ma ricostruisce il mondo, sosteneva Vilém Flusser (2006). A partire da una simile sfida conoscitiva e creativa è stata immaginata questa sezione della rivista Antropologia Pubblica intitolata “Pratiche Visuali” e dedicata ai fitti legami teorici e metodologici che intercorrono tra linguaggi visuali e antropologia applicata. L’obiettivo della sezione è dunque molteplice e cerca di coniugare osservazione e azione, conoscenza scientifica e intervento, creatività e rigore metodologico: riflettere teoricamente sulla “visualità”, ma anche creare uno contesto capace di accogliere indagini multimodali che contribuiscano in modo significativo a una riflessione antropologicamente orientata sulla contemporaneità; progetti che costruiscano ponti tra l’antropologia visuale, tradizionalmente intesa come sotto-campo disciplinare accademico, e le pratiche visuali connesse con lo spazio pubblico, l’intervento sociale, le metodologie interdisciplinari, partecipative e collaborative.

Il Premio Fotografico della Società italiana di Antropologia Applicata

Un primo importante passo in questo senso è stato compiuto con la creazione, nel 2019, del Premio Fotografico annuale della Società Italiana di Antropologia Applicata (SIAA), con l’intento di valorizzare la parte visuale delle ricerche in ambito pubblico e applicato. L’idea era quella di attivare una riflessione specifica attorno ai linguaggi visuali e generare consapevolezza rispetto a una forma espressiva che non è testuale ma si serve di codici specifici per narrare il mondo e restituircelo tramite immagini che poco spazio trovano in ambito accademico o nelle rassegne dedicate al visuale (quasi sempre destinate a produzioni filmiche), e mal si adeguano ai criteri di valutazione della ricerca e della produzione scientifica.

Colgo l’occasione per ringraziare Mara Benadusi, allora Presidente della SIAA, che ha fortemente sostenuto la creazione di questo Premio, giunto quest’anno alla terza edizione[2], assegnato tramite una call tematica in consonanza con il concept annuale del convegno SIAA: Rappresentare la città[3], nel 2019, e Fare (in) tempo. Cosa dicono gli antropologi sulla società dell’incertezza, nel 2020.

La call è indirizzata quindi a lavori realizzati da antropologi-fotografi o nati dalla collaborazione tra antropologi e fotografi che presentano un corpus di immagini, quello che in ambito fotografico si è soliti definire una “sequenza”. Non fotografie singole quindi, ma una serie che sviluppa idee attraverso una ricerca antropologicamente orientata che l’autore ci restituisce attraverso una narrazione stilisticamente e narrativamente coerente, composta per mezzo di un’accurata selezione e l’accostamento studiato delle immagini. Attraverso questa operazione, definita editing, si dispiega la ricchezza espressiva e comunicativa del racconto fotografico che può essere “letto”, alla stregua di un testo con caratteristiche proprie e una grammatica specifica[4].

Nel 2019 il lavoro premiato è stato Kabristan. Land of Graves di Simone Mestroni, un reportage sociale sul conflitto nel Kashmir, sviluppato durante la ricerca di campo a Srinagar, nell’ambito del percorso dottorale portato avanti per l’Università degli Studi di Messina. Dal punto di vista antropologico il lavoro è rilevante rispetto agli studi areali e restituisce la complessità della disputa territoriale in atto dal 1947 tra India e Pakistan, e della guerriglia violentemente repressa da parte dell’esercito indiano; dal punto di vista fotografico il progetto si compone di quelle che l’autore definisce “lapidi visive”, «organizzate in una composizione estetica e metaforica che dà l’impressione di una tensione imperante tra passato e futuro, tra dolore e rabbia, introspezione e violenza, utopia politica e cruda realtà, in un’atmosfera mortale e pressurizzante che intreccia paesaggi interni ed esterni», scrive Mestroni nella sinossi che accompagna il lavoro[5].

Il cimitero dei martiri di Eidgah, Srinagar. Nella valle del Kashmir, ogni villaggio o quartiere ha un suo cimitero dedicato alle vittime della repressione indiana. Dalla serie “Kabristan. Land of Graves” di Simone Mestroni.

Truppe della Central Reserve Police Force in attesa dell'inizio degli scontri nella città vecchia di Srinagar. Dalla serie “Kabristan. Land of Graves” di Simone Mestroni.

Un cane randagio si aggira nei pressi di una casa abbandonata di proprietà di una famiglia Pandit. I Pandit kashmiri, una minoranza ad oddi quasi inesistente, sono fuggiti in massa dalla vallata all'inizio degli anni '90, poco dopo l'esplosione dell'insurrezione separatista del 1989. Dalla serie “Kabristan. Land of Graves” di Simone Mestroni

Ragazzi kashmiri si preparano per gli scontri con le forze armate indiane nei pressi della moschea del venerdì. La Kani-jang, battaglia delle pietre, è diventata neglia anni, oltre che una pratica di protesta, un dispositivo ritualizzato attraverso cui gli adolescenti strutturano la loro soggettività politica. Dalla serie “Kabristan Land of Graves” di Simone Mestroni.

Oyoub è stato un tempo un comandate di Hizbul Mujahidin, un gruppo di insurrezione di matrice pro-pakistana. Rimasto cieco ed invalido a causa dell'esplosione di un ordigno che stava preparando, oggi rimane un eroe dimenticato della lotta separatista. Dalla serie “Kabristan. Land of Graves” di Simone Mestroni.

Si dice che ogni fotografo o fotografa vicino al genere del reportage dovrebbe sempre tenere a mente la frase del celebre fotoreporter di guerra Robert Capa (2019): «Se le tue foto non sono abbastanza buone è perché non sei abbastanza vicino!». Potremmo dire allora che se il fotoreporter osserva in modo ravvicinato, l’antropologo osserva “da dentro”, e ciò che colpisce nel lavoro di Mestroni è proprio la prossimità dei soggetti ritratti, l’immersione dell’antropologo-fotografo dentro gli scenari del conflitto, la fisicità dell’atto fotografico che rendono questo lavoro etnograficamente denso ed efficace dal punto di vista narrativo.

L’anno successivo il premio viene assegnato a Gianluca Ceccarini, laureatosi in Antropologia presso la “Sapienza” Università di Roma. Il 2020 è l’anno segnato dagli sconvolgimenti pandemici da Covid-19, in cui affiora la consapevolezza delle interconnessioni degli umani con un ordine antropocentricamente trascurato: l’ordine dell’invisibile, quello che Gregory Bateson avrebbe definito “la struttura che connette” i fenomeni del mondo e l’uomo agli organismi viventi. Ed è proprio questa l’idea ispiratrice alla base del progetto di Ceccarini, intitolato “L’Orchidea e la Primula” e ispirato proprio a Bateson, che in Mente e Natura si domandava: «Quale struttura connette il granchio con l’aragosta, l’orchidea con la primula e tutti e quattro con me? E me con voi?» (Bateson 1984: 21).

Nel concept che accompagna il progetto Ceccarini scrive:

La quarantena innesca modalità del vivere che, nonostante l’obbligata staticità, aprono all’esperienza del mutevole. I giorni uguali agli altri, sospesi e monolitici, la realtà che si fa indecifrabile, la perdita di sicurezza, tutto concorre a farci sentire sulla pelle quanto ogni cosa, nonostante i nostri sforzi, sia incontrollabile e mutevole. Abbiamo imparato che anche un virus può diventare variabile e con esso le nostre paure e visioni distopiche. Abbiamo imparato che qualcosa di invisibile e infinitamente piccolo può fermare il mondo e quanto tutto sia connesso[6].

In questo caso appare evidente la ricerca di un linguaggio personale ed esteticamente suggestivo, capace di tradurre in immagini la dimensione esistenziale alterata dagli scenari pandemici. L’autore si misura con la staticità forzata, aggiusta lo sguardo sulla prossimità e la osserva. A questo punto lo spazio – scrive – diventa “stato mentale” e le dimensioni microscopiche e macroscopiche risultano connesse attraverso una consapevolezza mutata rispetto al posto dell’uomo nel mondo. L’elemento umano è qui una parte (non necessariamente centrale) del tutto.

“L’Orchidea e la Primula”, 2020, di Gianluca Ceccarini.

“L’Orchidea e la Primula”, 2020, di Gianluca Ceccarini.

“L’Orchidea e la Primula”, 2020, di Gianluca Ceccarini.

“L’Orchidea e la Primula”, 2020, di Gianluca Ceccarini.

“L’Orchidea e la Primula”, 2020, di Gianluca Ceccarini.

Quella di Ceccarini è sicuramente una narrazione che si stacca dai cliché della fotografia antropologica a cui siamo abituati, per lo meno da quella che siamo soliti considerare “fotografia etnografica”, intesa come “documentazione” dell’Altro e dell’Altrove. Qui la dimensione interpretativa è preponderante. Si tratta infatti di un racconto intimo del tempo alterato della pandemia, caratteristico della quarantena, all’interno di spazi domestici o paesaggi sospesi.

I lavori di Mestroni e Ceccarini hanno ricevuto numerosi riconoscimenti in ambito fotografico, sia nazionale che internazionale. Confrontandoli ci rendiamo immediatamente conto che sono stilisticamente diversi tra loro, si muovono in spazi distanti e adoperano linguaggi differenti: il primo a colori, legato allo stile reportagistico della fotografia sociale documentaria; il secondo in bianco e nero, basato su una pratica che potremmo definire “diario visuale” o “auto-etnografia visiva”.

In entrambi i casi la fotografia non è né di supporto al testo, né soltanto una “prova veridica” dell’esperienza, come voleva il paradigma positivista/realista legato alla documentazione oggettivante. È invece linguaggio autonomo capace di parlare di situazioni, persone e contesti dinamici con i quali gli autori hanno familiarità.

Di fatto è possibile individuare un comune denominatore tra i due lavori: l’“autorialità”, lo sguardo soggettivo e riconoscibile, che si unisce all’abilità di organizzare consapevolmente le immagini in narrazioni coerenti, coniugando senso estetico e capacità di informare. Come sostenuto da Augusto Pieroni, storico e critico dell’arte contemporanea e delle arti fotografiche, lo spessore di un autore non sta nei suoi soggetti, né nell’universalità dei temi trattati, né nella capacità tecnica: «Quello che distingue un autore dall’altro e li rende unici è esattamente ciò che rende uniche le persone: la loro esperienza di vita» (Pieroni 2016: 21).

Ricerca visuale

È su questo piano che si gioca la partita della ricerca visuale in ambito antropologico: la sensibilità dell’osservazione etnograficamente orientata; la conoscenza della tecnica; la consapevolezza della scelta fotografica; la capacità creativa di “far parlare” le immagini per renderle fruibili. Non solo, quindi, analisi delle immagini prodotte dagli altri attraverso il punto di vista antropologico, ma produzione consapevole di narrazioni visive, capaci di informare e costruire ponti tra mondi spesso distanti e invisibili, come avviene nel caso delle metodologie partecipative che utilizzano la fotografia, quali ad esempio la photo-elicitation o il photo-voice (Wang e Burris, 1997; Shankar 2016), in grado di generare efficaci “controvisualità” (Mirzoeff 2016) che decostruiscano gli stereotipi e le aspettative visuali di coloro che guardano, ma necessarie anche per generare un impatto sulle politiche pubbliche.

A questo proposito vale la pena ricordare il lavoro collaborativo tra l’antropologo Philippe Bourgeois e il fotografo-antropologo Jeff Schonberg[7], uno straordinario esempio di antropologia critica applicata risultante da più di dieci anni di ricerca in cui i due autori conducono un’indagine congiunta sugli eroinomani homeless di San Francisco. I risultati confluiranno nel libro intitolato Righteous dopefind (2009), pubblicato per la prima volta in italiano dalla casa editrice DeriveApprodi con il titolo Reietti e fuorilegge. Antropologia della violenza nella metropoli americana (2011). In questa meravigliosa foto-etnografia il corpus fotografico si combina con i diari di campo, i dialoghi all’analisi teorica, e, senza gerarchie, questi elementi eterogenei riescono a restituirci la complessità della vita quotidiana e le strategie di sopravvivenza di un gruppo umano in condizioni di vulnerabilità e marginalità estrema. Sfogliando questo libro abbiamo l’impressione di partecipare alla ricerca, di entrare negli interstizi urbani di Edgewater, abitati da Sonny, Hank, Max, Nickie, Petey, Tina e gli altri.

Non c’è solo descrizione del contesto o documentazione della cultura materiale caratteristica della precarietà: le fotografie comunicano stati d’animo contrastanti, forti come la vita in strada; esplicitano punti di vista soggettivi e ravvicinati che ci inducono a familiarizzare con i soggetti ritratti. Il relativismo culturale qui non è una prospettiva teorica astratta ma un avvicinamento fisico dello sguardo che comprende e che si manifesta soprattutto attraverso la fotografia. L’atto fotografico è esplicito, i soggetti sono consapevoli. È così che la dimensione estetica e quella politica diventano inscindibili e la fotografia, strumento privilegiato del “guardare gli altri”, ritorna alla comunità nella sua materialità: nelle foto stampate gli homeless di Edgewater si rivedono e questo stabilisce un vincolo umano e un’occasione auto-riflessiva sulle loro condizioni di vita.

Gli autori riflettono consapevolmente sul potere emotivo che la fotografia è in grado di suscitare, ed è qui che risiede la sua forza e la sua problematicità:

La molteplicità dei significati racchiusi in una fotografia rende rischioso, e forse persino irresponsabile affidare immagini crude di marginalizzazione, sofferenza e dipendenza a un pubblico severo. […] Per questa ragione, ribadiamo che senza il testo che le accompagna, gran parte del significato delle fotografie che mostriamo potrebbe andare perduto o essere distorto (32).

In questo passaggio viene chiamato in causa uno degli aspetti più dibattuti in ambito fotografico: la relazione tra testo e immagini in termini di evocazione e informazione, ma c’è di più. La fotografia appare in tutta la sua densità e il lettore è costretto a confrontarsi con due aspetti centrali, che attraversano il libro da cima a fondo: l’etica e l’estetica, la necessità di visibilizzare e il problema della rappresentazione della sofferenza, con le sue ricadute sia morali che politiche. All’interno di questo delicato equilibrio si muovono gli autori, che risolvono l’enigma del cosa dare a vedere – come mostrarlo – perché e a chi, affermando consapevolmente che la peculiarità della fotografia e dell’etnografia è questo loro essere attraversate da tensioni contraddittorie che molto hanno a che vedere con quello che potremmo definire il loro bias coloniale:

In quanto pratiche di rappresentazione, si dibattono tra la reificazione e la restituzione di umanità; lo sfruttamento e il dare voce; la propaganda e la documentazione dell’ingiustizia; lo stigma e l’esposizione; il voyeurismo e la simpatia; lo stereotipo e l’analisi (33).

Si esce da questa impasse soltanto attraverso una responsabile consapevolezza nei confronti della ricerca visuale. Scriveva John Berger (2015: 36) che «una fotografia, pur ricordando ciò che è stato visto, rimanda sempre e per sua natura a ciò che non si vede. Isola, preserva e presenta un istante sottratto a un continuum». Fotografare significa quindi scegliere cosa mostrare, cosa raccontare, cosa “dare a vedere” e in quali modi, attraverso quali strategie rappresentative, secondo quali canoni. È un atto intenzionale in cui la dimensione documentaria, narrativa, creativa e concettuale si mescolano in modi eterogenei ma coerenti, sia dal punto di vista formale che da quello contenutistico.

In questo senso le immagini sono parole da articolare, con una propria grammatica, e la ricerca visuale appare come percorso riflessivo segnato dalla soggettività, dalla creatività e dalla consapevolezza con cui le parole vengono scelte, assemblate e mostrate.

Bibliografia

Barthes, R. 1980. La camera chiara. Nota sulla fotografia. Torino. Einaudi.

Bateson, G. 1984 [1979]. Mente e natura. Un’unità necessaria, Milano. Adelphi.

Berger, J. 2015 [2013]. Capire una fotografia. Roma. Contrasto.

Bourgois, P., Schonberg, J. 2011 [2009]. Reietti e fuorilegge. Antropologia della violenza nella metropoli americana. Roma. DeriveApprodi.

Capa, R., 2019 [1947]. Leggermente fuori fuoco, Roma, Contrasto.

Ceccarini, G. L'orchidea e la Primula, http://www.antropologiaapplicata.com/portfolio/lorchidea-e-la-primula/

Flusser, V. 2006 [1983]. Per una filosofia della fotografia. Milano. Mondadori.

Fontcuberta, J. 2018. La furia delle immagini. Note sulla postfotografia. Torino. Einaudi.

Marra, C. 2006. L’immagine infedele. La falsa rivoluzione della fotografia digitale. Milano. Mondadori.

S. Mestroni, 2019, Kabristan. Land of Graves: http://www.antropologiaapplicata.com/portfolio/kabristan-land-of-graves/

Mirzoeff, N. 2011. The right to look: A Counter-History of Visuality. Durham. Duke University Press.

Pieroni, A. 2006. Leggere la fotografia. Osservazione e analisi delle immagini fotografiche. Roma. EDUP.

Pieroni, A. 2016. Portfolio! Costruzione e lettura delle sequenze fotografiche. Roma. Postcart.

Pink, S. 2013. Doing Visual Ethnography. London. Sage.

Pink., S. (ed.) 2007. Visual Interventions. Applied Visual Anthropology. New York. Berghan.

Shankar, A. 2016. Auteurship and Image-Making: A (Gentle) Critique of the Photovoice Method.Visual Anthropology Review, 32 (2): 157-166.

Wang, C., Burris. M.A. 1997. Photovoice: Concept. Methodology and Use for Participatory Needs Assessment. Helth Education & Behavior, 24 (3): 369-387.



[1] In ambito fotografico esiste un ampio dibattito relativo alla fotografia digitale e sulla sua più appropriata categorizzazione. Le posizioni sono più o meno divise in due: c’è chi considera ancora valida la definizione di “fotografia” e chi ritiene che sia più appropriato parlare di “immagine”. In questo contributo uso i due termini come sinonimi, rifacendomi all’idea dello storico della fotografia Marra (2006) secondo il quale esiste una continuità tra fotografia analogica e digitale soprattutto per quel che riguarda la “funzione indicale” delle stesse.

[2] I progetti pervenuti sono attualmente in fase di valutazione. Il Premio verrà assegnato durante il Convegno del 2021 che si terrà dal 15 al 18 di Dicembre presso l’Università degli Studi di Roma “La Sapienza”.

[3] Call 2019 http://www.antropologiaapplicata.com/2019/05/03/open-call-progetti-fotografici-siaa-2019/

[4] Rispetto al tema della “lettura delle immagini” e dell’editing fotografico si rimanda ai contributi teorico-pratici dello storico e critico delle arti fotografiche Augusto Pieroni (2006; 2016).

[5] I progetti fotografici sono presenti sul sito web della Società Italiana di Antropologia Applicata, nella sezione omonima.

[6] G. Ceccarini, 2020, L’Orchidea e la Primula: http://www.antropologiaapplicata.com/portfolio/lorchidea-e-la-primula/

[7] Philippe Bourgeois è professore di Antropologia e direttore del Centro di medicina sociale dell’Università della California a Los Angeles. Jeff Schonberg ha conseguito un dottorato in Antropologia medica presso l’Università della California.