La ricerca antropologica fra immaginari umanitari e capacità di resilienza

Chiara Costa

Ricercatrice indipendente; chiara.costax@gmail.com

Rossella Tisci

Ricercatrice indipendente; rossella.tisci@gmail.com

Table of Contents

 

Il dilemma morale dell’aiuto umanitario
Etica della ricerca e cooperazione allo sviluppo. Il ruolo dell'antropologo
Il ruolo dei metodi partecipativi nella “cassetta degli attrezzi” del ricercatore etico
La prostituta e il bambino. Decostruire i miti di Phoum Thmey
Conclusioni
Bibliografia

Abstract. This research aims at discussing the role of the researcher in dealing with the ethical dilemmas of international cooperation. From one side NGOs promote the building of a society encompassing social justice and human rights; from the other, the strategies implemented by them to get the funds indispensable for keeping their development projects alive not always respect the above-mentioned values. In other words, there is a dissonance between what NGOs advocate about human rights, social justice, equal rights, active involvement and what they endorse in terms of public propaganda. The trend to promote simplified and generalized issues for purposes linked to NGOs economic goals weakened the universal imaginary of human rights and increased the skepticism around international development projects and promotion. This scenario represents a challenge for ethically sensitive researchers – as well as journalists – who have to undertake some specific research strategies and methods to keep fair features in their analyses. In this paper – through the evidences resulting from a fieldwork in a Cambodian slum – it will be claimed that an ethically sensitive research needs a participatory framework. The adoption of participatory research methods – involving people in all the phases of the research process – not only lets the researcher focus the research on people’s real goals, needs and values but it also provides people with awareness about their own opportunities and potentialities.

Keywords:  Ethic; Humanitarianism; Participatory Methods; Human Rights; Cambodia.

Il dilemma morale dell’aiuto umanitario

Quello dei diritti umani è diventato nel tempo uno dei linguaggi più efficaci e diffusi a livello globale, specialmente tra organizzazioni che operano nell’ambito degli aiuti umanitari.

L’idea di universalità[1] che permea sin dalla loro creazione il principio dei diritti umani[2], considerati coestensivi all’umanità stessa indipendentemente dai contesti storici e culturali (Maher 2011; Sorgoni 2011; Gozzi, Sorgoni 2010), è infatti stata largamente sfruttata per far acquisire agli interventi realizzati in paesi a basso e medio reddito[3] maggior autorevolezza e legittimazione. In termini di “spendibilità del discorso”, tale approccio può certamente essere funzionale alle organizzazioni che operano nell’ambito della cooperazione e dello sviluppo. Secondo una prospettiva di realizzazione e gestione pratica dei progetti, l’utilizzo di categorie considerate come moralmente condivise e condivisibili permette una più semplice comprensione dell’intervento ai finanziatori (Mosse 2006; Mosse 2005), che richiedono di sapere in che misura e modalità i loro soldi hanno influito o influiranno sul contesto di partenza. Esso permette inoltre una migliore reiterazione ed esportazione di modelli d’intervento simili in contesti completamente diversi fra loro in termini politici, economici e culturali (Cornwall, Nyamu-Musebi 2004).

Anche prendendo in considerazione la costruzione dell’approvazione esterna che ogni progetto richiede, l’utilizzo del linguaggio dei diritti umani, conosciuto e condiviso dal “grande pubblico”[4], svolge il doppio compito di favorire il consenso e l’interesse nel raggiungimento di obiettivi e intenti condivisi e aumentare contemporaneamente la percezione della presenza di ingiustizie sociali che è necessario diminuire.

In questo senso, l’idea di universalità aiuta a promuovere l’immagine dello sviluppo esportato anche in termini di competenze morali/affettive (spiegare per esempio come vanno educati i propri figli), come un servizio rivolto al prossimo (incapace di parlare per se stesso e situato a una distanza geografica e sociale impercorribile) che risponde alla implementazione dei diritti umani fondamentali (Rist 2008).

Se la pratica di universalizzazione di concetti come i “diritti umani” produce alcuni innegabili vantaggi, è tuttavia difficile da applicare quando ci si confronta con la dimensione sociale, dove disparità politiche ed economiche emergono con forza e le pratiche culturali, tutt’altro che mute e impotenti, differiscono notevolmente le une dalle altre plasmando la realtà in cui le organizzazioni si trovano ad agire.

Per tradurre la complessità sottesa al processo di universalizzazione si può pensare a come, in quanto umanità intera, una porzione significativa delle persone che entrano in contatto con questioni come il cambiamento climatico o l’estinzione delle specie possa sentirsi direttamente responsabile e interessata da tale fenomeno. Tuttavia, nella traduzione di questi apparenti valori globali[5] in politiche, l’universalismo improvvisamente impatta contro culture e pratiche locali: le piccole comunità di pescatori della Groenlandia, ad esempio, hanno duramente sofferto sulla loro pelle la pressione esercitata dalla campagna universalistica di Greenpeace contro la vendita e il consumo di carne di balena (Caulfield 1997).

In altre parole, anche se nella maggior parte dei casi l’universalità è considerata come funzionale a ogni sistema umano – permeato dal bisogno di generalizzare e creare categorie a partire dall’esperienza personale –, i principi universali spesso collidono con peculiarità locali e pratiche quotidiane.

I migliori e i peggiori aspetti dell’approccio dei diritti umani alla dimensione sociale rappresentano in egual misura il tentativo di far convergere tutte le sue diversità in un’unica narrazione (Mosse 2005). Quali criteri dovrebbero avere maggior rilievo – e, se si parla in termini di universalità, essere unici rappresentanti – nell’identificare il sistema più efficiente ed equo di categorizzazione nel mondo? Un intenso e duraturo dibattito, che per ovvie ragioni non possiamo trattare in questa sede, accompagna i diritti umani sin dalla loro nascita. Nel corso di questo articolo, si è piuttosto interessati a riflettere per quanto possibile su intenzioni dichiarate e discorsi egemonici che il sistema umanitario – specificatamente quello italiano – produce e sfrutta e di come le interrelazioni fra rappresentazioni, bisogni logistici e pratiche sul campo si influenzano a vicenda. Per chiarire sin da subito la posizione in merito, si condivide l’idea che il punto centrale di tale relazione giaccia nell’ambivalenza fra globale e locale insita nella pratica dei diritti umani (Goodale, Merry 2007).

A livello di politiche sociali, i diritti umani sono considerati come leggi universali non vincolanti: raccomandazioni organizzate in macro temi (come i Millennium Development Goals [6]) che ogni paese dovrebbe accettare e rispettare, creando una riproduzione a catena che dai diritti umani porti a buone pratiche di governo e sviluppo. Anche i movimenti dal basso che si trasformarono in organizzazioni non governative (ONG) decisero simbolicamente di sostenere i contenuti delle carte dei diritti umani. Ciononostante, nei contesti specifici i diritti umani non supportano realmente i processi locali di sviluppo.

Lo strumento dei diritti umani infatti, anziché facilitare le organizzazioni nel comprendere i bisogni delle comunità che vorrebbero supportare, pone sovente ulteriori barriere fra i soggetti interessati, traducendo i bisogni locali in un linguaggio troppo generale per poter dare un supporto specifico (Goodale 2006). Tale linguaggio definisce infatti spesso gli attori in gioco in opposizione gli uni agli altri, “salvatori” e “da salvare”, trasformando i beneficiari in vittime passive delle proprie difficoltà, incapaci di riflettere sui propri bisogni e di esprimerli. Questa scelta comunicativa produce un doppio effetto di estraneamento: da una parte, le organizzazioni non individuano come principali interlocutori le persone che intendono supportare, reclamando il diritto di divenire loro portavoce; dall’altra, presentando i diretti interessati come incapaci di esprimere le proprie opinioni, posizioni e necessità, rivendicano il diritto di definire i loro interessi e libertà locali (Mosse 2006).

E’ proprio su questa sorta di impegno morale – individuale e collettivo – dell’Occidente per la protezione delle popolazioni dei paesi in via di sviluppo che i diritti umani si sono radicati nella coscienza comune, elevando l’Africa a esempio delle popolazioni bisognose e “ai margini”.

Le campagne di promozione e sensibilizzazione delle organizzazioni implicate negli aiuti umanitari – per guadagnare maggiore visibilità, consenso e fondi – si sono nel tempo sempre più concentrate sul concetto di mancanza[7], focalizzandosi fondamentalmente su ciò che le popolazioni africane non possedevano. La tecnica comunicativa, prettamente evocativa, era di “nutrire” l’immaginario occidentale con rappresentazioni di persone sofferenti – spesso bambini – per “muovere le coscienze” a sostenere economicamente gli interventi umanitari (Cornwall, Nyamu-Musebi 2004). Il discorso predominante che aveva il compito di presentare gli interventi umanitari al “grande pubblico” fu costruito per impressionare progressivamente media e alta borghesia su tematiche sociali senza informarla davvero (Scheper-Hughes 1995). Questo approccio comunicativo ebbe un grande effetto, al punto da divenire parte della quotidianità occidentale. Per quanto riguarda l’Italia, si può pensare a come la definizione di Terzo Mondo sia passata da quella di paesi non allineati durante la Guerra Fredda a “popolazione di terza classe”: incapace di divenire risorsa e costantemente bisognosa di aiuto – come ci ricorda anche il comune quanto evocatorio modo di dire “Finisci quello che hai nel piatto, in Africa i bambini muoiono di fame”. Attraverso questi meccanismi, la sovraesposizione alla sofferenza ha generato nell’immaginario della popolazione occidentale scenari talvolta estremi, esasperando problematiche specifiche di contesti reali in opposizione ai diritti umani per enfatizzare il valore degli interventi umanitari come “soluzioni” in cui investire (Cornwall, Nyamu-Musebi 2004; Mosse 2006). Proprio questa esasperazione dell’alterità in negativo proposta dalle organizzazioni impegnate negli aiuti umanitari ha prodotto nel tempo una distorsione, traducendo il discorso dei diritti umani in modo ambivalente. Esso rivendica i soprusi subiti dai “più deboli” ma allo stesso tempo li sottopone a ulteriori forme di sopruso (Cornwall, Nyamu-Musebi 2004; Goodale, Merry 2007). Questa attitudine mostra un approccio etico contraddittorio: avendo necessità di ampio consenso per far sopravvivere il sistema degli aiuti umanitari, tali organizzazioni si ritrovano a presentare e trattare coloro che dovrebbero beneficiare dell’applicazione dei diritti umani come soggetti statici, passivi, bisognosi, a volte addirittura degradandoli.

Etica della ricerca e cooperazione allo sviluppo. Il ruolo dell'antropologo

Il coinvolgimento dell’antropologia nel campo umanitario ha una storia tanto lunga quanto controversa. Se da una parte questa disciplina non si è tirata indietro di fronte alla comparsa del glocal e alla sfida delle organizzazioni impegnate negli aiuti umanitari, pretendere un ruolo in tali dinamiche significa ritornare ancora una volta a operare nell’ambito dell’interventismo occidentale, affrontando l’eredità storica delle scienze sociali. Furono proprio gli esperti di tali campi che, attraverso analisi antropometriche e studi socio-culturali, validarono e giustificarono gli interventi coloniali, legittimando i fenomeni di espropriazione e sfruttamento delle terre e delle popolazioni “conquistate” (Moore Falk 1994). D’altro canto, l’antropologia nel tempo si è resa nota come disciplina dall’alto livello di sensibilità e relatività culturale, capace di interpretare e cercare di comprendere le comunità locali nelle loro tradizioni, trasformazioni, e modalità di relazionarsi con gli attori esterni.

I ricercatori odierni, forti di questo bagaglio, hanno cercato di impegnarsi nella sfida degli aiuti umanitari con l’obiettivo di evitare il reiterarsi delle pregresse esperienze e mantenendo una visione più cosciente e critica in merito al proprio doppio ruolo – interprete delle relazioni percepite e vissute, specialista degli aspetti sociali delle policy dell’aiuto umanitario (Pearson, Sherman 2005).

Conseguentemente, un antropologo interessato a lavorare nell’ambito degli aiuti umanitari come ricercatore deve prendere in considerazione alcuni aspetti.

In primo luogo, i ricercatori qualitativi sono in prossimità dei soggetti da loro ricercati più di quanto un altro ruolo permetterebbe (Mosse 2006). Anche se raramente le tempistiche permettono un periodo di osservazione partecipata, le persone con cui gli antropologi devono lavorare condividono con loro delle informazioni, portando le loro esperienze come beneficiari dei progetti di aiuto umanitario e mettendo spesso in luce come la relazione di potere tra attori locali e globali (tra cui le organizzazioni stesse) sia spesso asimmetrica (Campbell 2010; Goodale 2006; Mosse 2005).

L’obbligo verso il datore di lavoro è una delle ragioni per cui una parte significativa del panorama accademico non supporta ne gradisce il coinvolgimento della disciplina antropologica nel campo della cooperazione, sottolineando i limiti cui una ricerca in qualche modo spuria e biased deve sottostare, i quali possono precludere la libertà di raccolta dei dati e determinare la diffusione dei risultati, implicando innegabili compromessi da accettare (Campbell 2010; Scheper-Hughes 2009; Mosse 2006; Barnard, Spencer 2004; Fluehr-Lobban 2003).

In secondo luogo, gli obblighi del consulente antropologo verso le organizzazioni che lo hanno assunto si mantengono anche di fronte alle loro esigenze e necessità strutturali, come quelle promozionali.

Viste le ormai vaste dimensioni del humanitarian aid sector, finanziatori pubblici e privati con il proposito di supportare progetti che potrebbero avere un reale impatto nel contesto in cui vengono attivati hanno dovuto trovare un criterio che permettesse di mettere a paragone gli interventi umanitari nonostante le loro peculiarità – subject matter, localizzazione geografica – e che rispondesse meglio alle esigenze del donor knowledge system. Da tale necessità si è accentuata la rilevanza dell’“universale” sul “contestuale”, elevando i diritti universali a cornerstone di ogni proposta di progetto. I progetti, a loro volta, hanno iniziato a essere sempre più orientati verso general predictive models and principles, appiattendo la complessità di contesti e interventi per rendere i contenuti maggiormente sintetici, accattivanti e di impatto immediato.

L’interpretazione antropologica di eventi e relazioni – composta da una pluralità di prospettive – deve quindi giungere a un complesso compromesso: analizzare e dare un’interpretazione ufficiale e autorevole di tali dati per produrre un sapere capace di rafforzare la visione esistente del progetto e rafforzarne la coerenza esterna (Mosse 2006). In uno scenario che favorisce la semplificazione alla semplicità, il lavoro del consulente diventa molto complicato. Talvolta il datore di lavoro non richiede di investigare una questione, ma solo di confermare una tesi, e di produrre dei risultati che aderiscano a un modello preesistente.

Dall’antropologia ci si aspetta che affronti questioni relative alla trasformazione delle comunità locali e ai legami con più ampi processi regionali e globali (Barnard, Spencer 2004: 156). Ma se il lavoro di analisi dei dati è sempre un’interpretazione posizionata, il coinvolgimento porta con sé una riflessione critica, una responsabilità morale e una visione politica. Quando il ricercatore si confronta con determinate problematiche di ordine etico, la scelta può essere il distacco/disimpegno o un posizionamento nel processo: tentare di rispondere alle richieste burocratiche delle agenzie di sviluppo senza perdere rigore intellettuale e consapevolezza critica (Barnard, Spencer 2004; Mosse 2006).

Quando si affrontano delle questioni etiche particolarmente delicate, a volte la strategia migliore è ripensare al proprio approccio e ridefinire il progetto stesso (Campbell 2010) cercando di mettere in luce le specificità e la complessità di un particolare aspetto e fornendo elementi che possano mettere in discussione l’efficacia dell’intervento e la definizione delle priorità. Lo strumento dei metodi di ricerca partecipata, accostato a un’analisi capace di tenere in considerazione in modo diacronico la diversa natura dei dati raccolti, potrebbe reinserire l’argomento specifico in una prospettiva di più ampio respiro, integrando un punto di vista “smarrito”, quello della popolazione locale, e aprendo al dibattito la rilevanza del considerare ogni specifico caso con le sue trasformazioni, aspettate e inaspettate.

Il ruolo dei metodi partecipativi nella “cassetta degli attrezzi” del ricercatore etico

Il dibattito sul rapporto tra etica e ricerca antropologica si inserisce inevitabilmente nel discorso più ampio sull’etica dello sviluppo.

Gasper (2004) sottolinea come il ricercatore etico, dopo aver mosso le dovute considerazioni etiche sulle diverse esperienze di sviluppo, dovrebbe identificare la cornice metodologica più adatta alla loro analisi e valutazione.

In questo paragrafo, si illustreranno le ragioni che inducono ad affermare che i metodi di ricerca partecipata sono quelli che più si prestano a un’analisi di tipo etico. In particolare, ci si concentrerà sull’uso del capability approach (CA) nella valutazione di impatto dei progetti di sviluppo.

Il CA, formulato negli anni Ottanta dall’economista Amartya Sen e impreziosito nel corso del tempo dai contributi di studiosi di varie discipline, tra cui spicca quello della filosofa Martha Nussbaum, ha avuto un ruolo cruciale nel difficile percorso di ridefinizione dello sviluppo.

Laddove le visioni mainstream dello sviluppo si concentravano esclusivamente sulla produzione di ricchezza e sulla massimizzazione del benessere materiale, l’idea di fondo delCAè che lo sviluppo vada considerato come un percorso volto a promuovere la realizzazione integrale della persona, un percorso in cui un ruolo di spicco è ricoperto da quegli aspetti della vita non materiali − quali le relazioni, la libertà di scelta e di agency − solitamente trascurati negli altri approcci allo sviluppo.

I beni e la ricchezza non sono completamente estromessi dalle analisi sullo sviluppo e la qualità della vita ma assumono valore solo nella misura in cui sono strumentali all’espansione delle opportunità reali (capabilities) a cui le persone dovrebbero avere accesso per vivere una vita degna di essere vissuta, una concezione di indubbio sapore aristotelico (Sen 1985, 1999).

In altre parole il CA, considerando l’agency e l’empowerment delle persone come lo zoccolo duro dello sviluppo, riesce a inserire il discorso sull’etica e sulla giustizia sociale all’interno dei dibattiti inerenti le teorie e le politiche dello sviluppo (Crocker 2009; Deneulin 2013; Nussbaum 2011).

Effettuare una valutazione di impatto nell’ambito della cornice etica del CA significa innanzitutto riorientare gli obiettivi stessi della valutazione. Dal momento che il CA abbraccia la visione kantiana dell’uomo come fine – e non come mezzo – dello sviluppo (Sen 1999; Nussbaum 2011), la valutazione, oltre a concentrarsi sui vantaggi – e svantaggi – che il progetto di sviluppo in esame ha apportato nelle vite dei beneficiari, dovrebbe porsi come obiettivo anche quello di guidare i beneficiari verso un processo di riflessione sul proprio ruolo all’interno dello specifico tessuto sociale, economico, culturale e politico in cui essi sono inseriti. In altre parole, una valutazione attenta a considerazioni etiche, ponendo l’accento sui processi per pervenire a determinati risultati più che sui risultati stessi (Mosse 1998), dovrebbe avere come obiettivo finale quello di ampliare l’agency e le capabilities delle persone e renderle consapevoli di questo ampliamento (Biggeri, Karkara 2014; Crocker 2009; Frediani et al. 2014).

Il raggiungimento di questo obiettivo richiede un coinvolgimento attivo dei beneficiari in pianificazione, monitoraggio e valutazione dei progetti di sviluppo (Biggeri, Ferrannini 2014; Crocker 2009; Frediani et al. 2014)

In quest’ottica i beneficiari dei progetti di sviluppo diventano gli attori chiave della ricerca, mentre i ricercatori assumono il ruolo di facilitatori – “spettatori imparziali” per usare le parole di Adam Smith –, vale a dire attori esterni che devono mediare gli effetti delle aspettative adattive, problema abbastanza tipico delle ricerche partecipate (Biggeri, Ferrannini 2014; Crocker 2009; Frediani et al. 2014; Sen 2006).

L’orientamento del CA è molto simile a quello alla base degli approcci partecipativi allo sviluppo – Rapid Rural Appraisal, Participatory Rapid Appraisal, Participatory Action Research – introdotti da Chambers (1983) e sviluppati nel corso degli anni ottanta.

A prescindere dalle dovute differenze, tutti questi approcci condividono alcuni principi chiave per favorire e concretizzare la partecipazione dei soggetti interessati dagli effetti dei progetti di sviluppo nei processi decisionali inerenti i suddetti.

A tal proposito, Egger e Majeres (1998) hanno identificato sette principi chiave:

  1. Inclusione di tutte le persone o perlomeno dei rappresentanti di tutti i gruppi di persone che verranno in qualche modo interessati dai risultati di un progetto di sviluppo;

  2. Collaborazione equa, intesa come il riconoscimento a ciascuna persona del diritto a partecipare ai processi di sviluppo in base alle proprie competenze, abilità e peculiarità a prescindere dal proprio status sociale;

  3. Trasparenza, ovvero l’impegno congiunto dei partecipanti ai processi di sviluppo a creare un ambiente favorevole alla comunicazione e aperto al dialogo;

  4. Potere condiviso cioè la distribuzione equa dell’autorità e del potere tra tutti gli stakeholder (attori coinvolti nei processi di sviluppo);

  5. Responsabilità condivisa, vale a dire la distribuzione uniforme e chiara delle responsabilità decisionali tra tutti gli stakeholder;

  6. Empowerment inteso come la promozione di forme di apprendimento tra pari facilitate dagli attori caratterizzati da particolari abilità di leadership ;

  7. Cooperazione, vale a dire la condivisione dei punti di forza di tutti gli attori dei processi di sviluppo finalizzata alla minimizzazione dei loro punti deboli (Duraiappah et al. 2005 : 7).

Da un punto di vista etico, tre sono i vantaggi di cui un ricercatore può beneficiare coinvolgendo le persone nella sua analisi. Innanzitutto, i dati ottenuti sono più affidabili in quanto in grado di cogliere le dimensioni dello sviluppo che davvero contano per le persone in base ai loro valori, credenze e obiettivi; prova che un’analisi etica è anche più efficiente (Sen 1987). In secondo luogo, l’analisi è attenta al contesto in cui viene svolta e dunque rispettosa delle tradizioni e delle culture locali e non pericolosa per le persone coinvolte. In terzo luogo, l’analisi è in grado di ampliare l’agency delle persone che rappresenta in sé un obiettivo dello sviluppo eticamente apprezzabile.

La prostituta e il bambino. Decostruire i miti di Phoum Thmey

Phoum Thmey è uno slum della cittadina di Sihanoukville, nel sud ovest della Cambogia. É ubicato nel quartiere di Sangkat 3, che contiene il numero più elevato di slum urbani.

Phoum Thmey ospita 693 famiglie composte principalmente da immigrati rurali attratti dalle opprtunità lavorative offerte dalla città di Sihanoukville. La città, infatti, oltre a essere interessata da qualche anno da un notevole slancio nel settore turistico, è anche sede di un importante porto commerciale internazionale, di molti stabilimenti tessili e cartieri e del principale birrificio dell’industria Angkor.

Nonostante il fenomeno dell’urbanizzazione sia associato all’idea di progresso, questo processo spesso alimenta il circolo vizioso della povertà e dell’esclusione sociale. La Cambogia, non a caso, è tra i paesi asiatici con il più alto tasso di povertà urbana (Flower 2012) e Phoum Thmey rappresenta un caso emblematico di questo trend.

L'insediamento di Phoum Thmey è sostanzialmente formato da un insieme di baracche costruite illegalmente su un terreno di proprietà del governo ed è costantemente a rischio di sgombero forzato a causa dei lavori di ampliamento del porto.

Solo il 5% delle abitazioni di Phoum Thmey si colloca nella parte legale dell’insediamento, delimitata dall’unica scuola dello slum, Bore Kamakar.

L’obiettivo generale della ricerca – realizzata nell’arco di sei mesi – era di analizzare il benessere e la qualità della vita delle famiglie coinvolte in un programma di sostegno a distanza gestito da una ONG italiana in partnership con una ONG locale[8]. In particolare, si intendeva decostruire l’ambiente socio-culturale dove i beneficiari del suddetto progetto vivevano, caratterizzato – secondo le ONG partner del progetto – da un significativo fenomeno di violenza domestica che vedeva i bambini abusati o trascurati dai loro genitori o parenti e svariati casi di minori senza dimora – street children.

Questa idea era supportata anche da articoli e documentari di importanti testate giornalistiche italiane che, mediante l’uso di un linguaggio dai toni forti, dipingevano Phoum Thmey come un vero e proprio “inferno” narrando storie a volte oltre il limite del rispetto dei diritti umani e della privacy delle persone coinvolte.

Tali fonti, infatti, descrivevano Phoum Thmey come un villaggio di prostitute dove i bambini venivano forzati ad abbandonare la scuola per essere inseriti nel mercato del lavoro informale e diventare in tal modo un’ulteriore fonte di reddito per le famiglie. Inoltre, le suddette fonti informative asserivano che il progetto fosse rivolto a bambini di strada orfani o figli di prostitute che, a loro volta, rischiavano di essere sfruttati sessualmente.

Il quadro di Phoum Thmey risultante dal lavoro sul campo si è rivelato abbastanza differente da quello presentato dai mass media e dalla cosiddetta letteratura grigia.

Prima di presentare la metodologia utilizzata nella ricerca sul campo, è opportuno illustrare brevemente le caratteristiche principali di un’analisi ispirata al CA.

In primo luogo, la valutazione non potrà che essere olistica, rivolta cioè ai diversi aspetti − materiali e non − determinanti la qualità della vita di una persona.

In secondo luogo, la valutazione non potrà che essere dinamica per cogliere anche eventuali conseguenze non previste dall’intervento, la cui intuizione può rivelarsi vantaggiosa al fine della ottimizzazione e potenziamento dell’intervento stesso (Testi et al. 2011).

Il ricorso a strumenti di ricerca qualitativi, implicanti un certo grado di flessibilità nel processo di definizione delle dimensioni su cui concentrare l’analisi, risulta compatibile con questo obiettivo.

La centralità che il CA attribuisce all’agency delle persone implicherà a seguito un coinvolgimento attivo dei beneficiari sia in sede di selezione delle dimensioni su cui concentrare l’analisi, sia durante la valutazione degli effetti del programma sugli aspetti individuati.

Il lavoro sul campo è stato suddiviso in vari momenti. La parte iniziale, preparatoria al lavoro di indagine effettivo, è stata realizzata durante il primo mese di permanenza al fine di acquisire una conoscenza più approfondita del contesto di ricerca. A tal proposito, è stato analizzato il materiale di archivio messo a disposizione dal direttore di un centro diurno per i bambini di Phoum Thmey (gestito dalle ONG partner del progetto di sostegno a distanza), e sono state realizzate interviste informali con il suddetto direttore e altri operatori del centro.

Nella seconda parte della ricerca, il cuore della ricerca stessa, sono state realizzate interviste con i beneficiari diretti e indiretti del progetto, vale a dire i bambini e le loro caregiver principali (madri, nonne, sorelle maggiori o zie).

Le interviste, semi strutturate in profondità, hanno permesso gli intervistati di mantenere un ampio margine di controllo sullo sviluppo delle stesse[9], favorendo la creazione di uno spazio di riflessione personale e di confronto culturale.

Mentre le interviste con i bambini sono state svolte presso il centro, quelle con le donne sono state realizzate all’interno delle loro abitazioni. L’impiego di questo modus operandi ha consentito una riduzione dello sbilanciamento di potere tra le persone intervistate e le intervistatrici, creando un ambiente di ricerca più confortevole.

L’obiettivo delle interviste era duplice. I quesiti erano mirati da una parte a indagare le condizioni socio-economiche dei soggetti intervistati, dall’altra a identificare le dimensioni del benessere per loro rilevanti. A tale scopo, le interviste con i bambini sono state affiancate da uno strumento di ricerca partecipata di tipo visuale, per la precisione quello del disegno (Hess-Beherens 1974; Stokrocki 2000; Wakefield, Underwager 2006; Prosser 2006).

Nella parte conclusiva della ricerca sono stati intervistati dei testimoni privilegiati della comunità di Phoum Thmey che ci hanno fornito una panoramica dei principali problemi di natura sociale e sanitaria presenti all’interno dell’insediamento, e il direttore del centro HIV/AIDS di Sihanoukville che fornisce un supporto medico e sociale ad alcuni familiari dei bambini coinvolti nel progetto analizzato, affetti da questa malattia.

Dall’analisi è emerso che poche madri o sorelle dei bambini coinvolti nel progetto lavorano come prostitute. Inoltre, nessun bambino è vittima di sfruttamento minorile (né a livello lavorativo né a livello sessuale) o senza dimora. Al contrario, tutti i bambini intervistati vanno a scuola, sono liberi di giocare e divertirsi e possono contare su un ambiente familiare premuroso – per quanto possibile in relazione alle problematiche contingenti. Questo aspetto è evidente dai dati ottenuti mediante le interviste e i disegni. I bambini, sia nelle parti di ricerca inerenti le dimensioni del benessere che in quelle relative alla vita quotidiana, non hanno mai menzionato categorie o disegnato elementi riconducibili alla vita di strada, al lavoro minorile e allo sfruttamento lavorativo[10] (il lavoro è percepito come una dimensione dell’esistenza molto importante ma solo per il futuro) e sessuale. Le dimensioni del benessere identificate dai bambini sono state: 1) Vita e salute fisica; 2) Amore e Cura; 3) Istruzione; 4) Casa e ambiente; 5) Gioco e tempo libero; 6) Rispetto[11].

Per quanto concerne la vita quotidiana dei bambini, possiamo affermare che essa trascorre essenzialmente fra attività di studio, gioco e faccende domestiche ripartite fra scuola, al centro diurno e a casa.

Molti bambini intervistati trascorrono la maggior parte del loro tempo libero in strada per ragioni legate alla mancanza di spazio per giocare e al problema del caldo che si produce all’interno delle abitazioni, fatte di lamiera e spesso sprovviste di ventilatori. Tuttavia, gli spazi di gioco sono vicini alle abitazioni e i bambini giocano sempre sotto la supervisione di un adulto.

Anche dalle interviste alle donne è emerso che i bambini non sono trascurati dalle proprie famiglie. Al contrario, le scelte di vita quotidiana degli adulti sono fortemente orientate dai bisogni e dalle esigenze dei bambini. Le famiglie lavorano duramente per garantire ai bambini un’esistenza dignitosa e un futuro migliore, investendo la maggior parte del loro denaro nella cura e nell’istruzione dei figli. Anche i risparmi sono destinati a voci di spesa che influenzano direttamente il benessere dei bambini, come la salute e l’abitazione. Nonostante ciò, poche famiglie sono in grado di risparmiare a causa dei bassi salari percepiti, del sovraindebitamento, e della mancanza di servizi di risparmio adeguati ai bisogni specifici della popolazione di Phoum Thmey.

Le problematiche interne all’insediamento di Phoum Thmey segnalate dalle donne e dai bambini intervistati sono state: l’alcolismo – prevalente fra la popolazione maschile – e i problemi che ne derivano, come la violenza fisica e verbale; la mancanza di rispetto nei confronti dei vicini di casa; gli incidenti stradali dovuti alla presenza di strade fatiscenti; l’abuso di sostanze stupefacenti (soprattutto anfetamina) e le rapine svolte per acquistare tali sostanze; il gioco d’azzardo, riconducibile alla disoccupazione e alla povertà; l’analfabetismo e l’insalubrità ambientale.

Molte donne e alcuni bambini hanno dichiarato anche di essere fortemente preoccupati per il rischio di sgombero forzato che grava sul loro insediamento. Questo problema rappresenta una grave minaccia per gli abitanti di Phoum Thmey ma nessuno, nemmeno il direttore di Phoum Thmey, se ne sta interessando seriamente ed è stato impossibile ottenere informazioni dettagliate sulla questione.

La maggior parte delle donne intervistate sono indebitate; alcune di esse sono sovra-indebitate a causa del ricorso al sistema dei prestiti multipli, vale a dire il richiedere in prestito dei soldi per ripagare altri debiti, generato anche dal facile accesso al microcredito che, in Cambogia, è ampiamente commercializzato (Bateman, Chang 2012).

In conclusione, si ritiene che attraverso l’utilizzo di metodi di ricerca partecipata sia stato possibile comprendere potenzialità e problematiche degli abitanti di Phoum Thmey. Le questioni più urgenti da affrontare per le ONG che lavorano nello slum non sono il fenomeno dei bambini di strada, dello sfruttamento e dell’abuso minorile – come molte fonti tendono a sottolineare – ma piuttosto il rischio di sgombero forzato, l’analfabetismo degli adulti, il sovraindebitamento e l’inaccessibilità ai meccanismi di risparmio, tutti elementi capaci di creare una pressione economica e psicologica sui gruppi familiari che si ripercuote anche sui minori di Phoum Thmey.

È indubbio che la sofferenza, soprattutto se di minori, sia capace di catalizzare meglio l’attenzione del pubblico e le risorse dei finanziatori. Tuttavia lo stesso sensazionalismo, sviluppando un senso di pena verso il quale l’uomo si sente tendenzialmente impotente, innesca dei processi di deresponsabilizzazione sia nei donatori che nei beneficiari. I primi si sentono infatti legittimati a delegare la soluzione dei problemi alle ONG, limitandosi a finanziarne l’operato; i secondi perdono progressivamente la capacità di resilienza necessaria a intraprendere azioni per intervenire nelle questioni da loro identificate come problematiche all’interno comunità di appartenenza (Boltanski 1999; Fassin 2012).

Per evitare questa condizione di impasse, il ricercatore etico dovrebbe tenere sempre bene a mente che l’obiettivo principale delle ricerche commissionate dalle ONG non è quello di certificarne l’accountability agli occhi dei donatori, ma di migliorare la qualità della vita dei beneficiari dei progetti.

Conclusioni

L’obiettivo della ricerca era quello di analizzare come il ricercatore impegnato nella cooperazione internazionale possa affrontare al meglio i dilemmi di natura etica.

Da una parte le ONG promuovono l’idea di una società basata sulla giustizia sociale e i diritti umani; dall’altra, le strategie da esse implementate per ottenere i fondi indispensabili alla sopravvivenza degli stessi progetti di sviluppo non sempre rispettano i sopra menzionati valori.

In altre parole, è presente una dissonanza fra ciò che le ONG proclamano in relazione a equità di diritti e coinvolgimento attivo e ciò che promuovono de facto in termini di propaganda verso il grande pubblico.

La tendenza a promuovere tematiche semplificate e generalizzate per scopi legati agli obiettivi economici delle ONG – dai quali spesso dipende la loro stessa sopravvivenza – indebolisce l’immaginario condiviso dei diritti umani e aumenta lo scetticismo generale in relazione alla promozione e ai progetti di sviluppo internazionale.

Tale scenario rappresenta una sfida per i ricercatori eticamente accorti che – al pari dei giornalisti – devono intraprendere specifiche strategie e metodi di ricerca per mantenere uno sguardo attento al rispetto di tutti gli attori coinvolti.

In questo lavoro – attraverso i materiali raccolti durante una ricerca sul campo in uno slum cambogiano – si è sostenuta la necessità dell’utilizzo di approcci partecipativi nel rivendicare le responsabilità etiche dei ricercatori. Nello specifico, la ricerca è stata orientata partendo dal capability approach.

L’adozione di metodi di ricerca partecipata – coinvolgendo tutti i soggetti interessati[12] in ogni fase del processo – permette non solo di focalizzarsi su problematiche, bisogni e valori che i beneficiari del progetto effettivamente identificano come tali, ma anche di riflettere sulle loro opportunità e potenzialità. L’approccio partecipato diventa in questi casi un potente strumento di analisi capace di collocarsi in specifici contesti storici, politici, economici e culturali, grazie alla predisposizione a riconoscere le capacità resilienti di soggetti che vivono in un ambiente caratterizzato da condizioni di marginalità e vulnerabilità.

Per esempio, nello svolgimento della ricerca è emerso come fosse esasperata l’enfasi posta da ONG e mass media su temi come il fenomeno dei bambini di strada, del lavoro minorile e dell’abuso e dell’abbandono infantile – fenomeni quasi totalmente assenti fra le famiglie interessate dal progetto, e comunque presenti in maniera diversa da come presentati. Al contrario, alcuna attenzione era posta su problemi comunitari che influiscono in maniera grave sulla condizione di vita – sociale, psicologica ed economica – delle famiglie di Phoum Thmey, quali il costante rischio di demolizione delle abitazioni, il sovraindebitamento, impossibilità di accedere a progetti di microcredito e un diffuso analfabetismo – con importanti ricadute sulla loro possibilità di intervenire attivamente nei processi delle altre problematiche.

Quando il personale delle ONG è disponibile a riconoscere che i contesti sociali possono variare in una prospettiva diacronica e sincronica, e che alcune azioni possono effettivamente essere reindirizzate, il metodo partecipativo può diventare un valido strumento etico di cooperazione.

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[1] Con universalismo/universalità si intende qui l’approccio alla base della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani e tutte le seguenti Carte che hanno esteso il valore di questi principi all’umanità intera, o le azioni messe in atto da Organizzazioni Internazionali (OI) e ONG in nome di “bisogni universali” (ad esempio, sicurezza alimentare).

[2] Per umanitario si intende l’approccio dell’aiuto umanitario utilizzato dalle ONG.

[3] Metodo di classificazione dei Paesi calcolato in base al reddito pro capite di ogni Paese (data.worldbank.org/about/country-and-lending-groups#Low_income. Sito internet consultato in data 03/04/2016).

[4] Intervento come prodotto da promuovere e sul quale creare un immaginario positivo in modo da poter attrarre ulteriori finanziatori.

[5] Ci dimentichiamo spesso che anche se con l’era del digitale la qualità di presa di coscienza di determinati fenomeni è sensibilmente cambiata, continua ad esserci una parte non trascurabile di umanità che non si sente rappresentata o interessata da determinate questioni che spesso vengono elette a “problematiche dell’umanità”.

[6] Gli Obiettivi di Sviluppo del Millennio (OSM) – 1. Dimezzare povertà e fame; 2. Istruzione primaria universale; 3. Pari opportunità ed empowerment femminile; 4. Ridurre la mortalità infantile; 5. Migliorare la salute materna; 6. Combattere HIV/AIDS, malaria e altre malattie; 7. Assicurare la sostenibilità ambientale; 8. Una partnership globale per lo sviluppo – che le Nazioni Unite hanno approvato nel settembre 2000 e si sono impegnate a raggiungere entro il 2015 (UNDP 2015).

[7] Si utilizza qui il concetto di mancanza in riferimento al tradizionale approccio che definisce il concetto di povertà in riferimento alla variabile economica. Sostanzialmente, la povertà è tradotta come mancanza di benessere economico e misurata attraverso l’analisi del gap fra il potere di consumo del soggetto e uno standard predefinito. Tale interpretazione è in opposizione con la più recente e condivisa idea che la povertà sia un fenomeno complesso e multidimensionale composto da vari fattori – genere, età, cultura, etc. (Alkire 2007; Sen 2008).

[8] Per ragioni logistiche e di tempo, non è stato possibile estendere l’analisi alle famiglie non coinvolte nel programma di sostegno a distanza che avrebbero costituito un interessante campione di controllo per la ricerca.

[9] In questo caso, l’intervista è uno strumento di partecipazione leggera. Si vedano a tal proposito i livelli di partecipazione (Hart 1992: 8).

[10] Per sfruttamento lavorativo minorile (child labour), l’UNICEF intende l’insieme delle attività lavorative dannose per la salute e per lo sviluppo socio-educativo dei bambini. La partecipazione dei minori ad attività lavorative non dannose prende invece il nome di lavoro minorile (child work) (www.ilo.org/ipec/facts/lang--en/index.htm; sito internet consultato in data 04/04/2016).

[11] Nella nostra ricerca, abbiamo usato la lista di capabilities identificata da Anich et al. (2011) come lista di controllo.

[12] Inclusa la committenza.