Il gesto antropologico come fonte della riflessione etica

Note introduttive

Ferdinando Fava

Università degli Studi di Padova.

Table of Contents

 

Epistemologia ed etica: il principio relazione
I "beni interni" del gesto antropologico
Conclusioni
Bibliografia

Abstract. The author analyzes the relationship between epistemology and ethics of the practice of anthropological research through the process of his professional institutionalization started recently in Italy, and in particular the elaboration of the Code of Conduct. The definition of the contents of anthropological expertise to legitimate its social recognition and authorize a specific professional ethics require to rethink the fieldwork relationships and their pertinence in the process of knowledge production. The author proposes to overcome the conception of the relationship as methodical instrument and the ethics of obligation strictly related to it, both external to the act of anthropological understanding and insufficient to distinguish its originality, with a more comprehensive understanding of the fieldwork relationship as emergent social bond throughout the anthropologist implication (her/his social construction). Drawing on his research experiences and on the notion of the practice’s internal good as suggested by the moral theory of Alasdair MacIntyre, finally, the author points out a way to recognize in the anthropological endeavor itself its original contribution to public knowledge as the very source of its professional ethics and its theoretical import to the public discussion about the common good in general

Keywords: Epistemology; Ethics; Fieldwork; Internal Good; MacIntyre; Emergent Social Bonds.

In queste pagine intendo riportare in primo piano il rapporto tra l’epistemologia e l’etica della pratica della ricerca antropologica. Se attorno all’epistemologia di quest’ultima si è venuto ad attestare nella comunità disciplinare un consenso minimo sulle risposte da dare alle domande centrali che essa stessa pone – Come conosciamo in antropologia? Che cosa conosciamo o intendiamo conoscere? – fermo restando che la riposta standard, il lavoro di campo come milieu di questa produzione di conoscenze, risuona oramai come uno slogan e rimanda a sua volta, in realtà, a un dibattito disciplinare interno, sempre incompiuto, su come tematizzare questo lavoro e come debba essere svolto – resta ancora un nodo non risolto e aperto alla riflessione cosa sia invece da intendersi per etica, a quali domande voglia rispondere quando desideriamo pensarla in relazione alla pratica della ricerca antropologica.

Il mio accesso a questo rapporto non avverrà ripercorrendo la storia dell’antropologia che evidenzia, le situazioni sono legione, quanto la consapevolezza seppur incoativa della portata etica del posizionamento personale e della potenzialità politica del sapere prodotto sia sempre stata più o meno contemporanea della consapevolezza del processo della sua produzione. Che sia “sul campo” o “fuori dal campo”, l’affacciarsi nell’esperienza dell’antropologo delle tensioni che rinviano a questo rapporto non è per nulla una novità. Non sarà nemmeno a introdurmi alla relazione tra etica ed epistemologia, il sussulto di riflessività etica rintracciabile negli ultimi anni all’interno delle tradizioni antropologiche, principalmente anglofona e francofona e nemmeno come la moralità sia diventata essa stessa oggetto a diverse riprese, con domande distinte ed esiti alterni, della ricerca sul campo sin dagli inizi del Novecento (cfr. prima parte del contributo Colaianni in questo numero).

Intendo, invece, entrare nel rapporto tra epistemologia ed etica in relazione alla nostra pratica di ricerca, attraverso le domande che a esse, direttamente e indirettamente, pone il processo di professionalizzazione di questa stessa pratica, avviato di recente in Italia. Queste domande mi sembrano forzare la comunità antropologica italiana a ri-pensare i propri gesti di ricerca e il loro rapporto a un contesto più ampio non più solo accademico ma sociale e politico-istituzionale. L’istituzionalizzazione professionale della pratica della ricerca antropologica, al pari delle altre professioni (quelle chiamate liberali come quelle non, le hard e le soft secondo la distinzione introdotta negli anni ’80 [Schön 1993]) e ben oltre il quadro accademico dove invece questa è stata riconosciuta, comporta, infatti, in primis (ma non solo) l’identificazione di quella che chiamerei la sua necessità sociale e della sua possibile articolazione con l’architettura giuridica che ordina e governa le professioni e del suo rapporto con il mercato di queste ultime.

In questa prospettiva è legittimo chiedersi allora, anche se questa domanda può apparire molto riduttiva, per quali ragioni la pratica della ricerca antropologica e le conoscenze che essa produce dovrebbero essere riconosciute come necessarie alla società civile. Più banalmente la comunità degli antropologi è invitata a sapere identificare in modo sintetico e convincente la finalità sociale della loro presunta expertise antropologica al pari delle altre professioni, anche qui semplificando all’estremo, similmente a quella dell’architetto e dell’ingegnere (la costruzione di opere pubbliche), del medico (la salute fisica), dello psicologo (il benessere psichico), dell’avvocato e del notaio (l’azione nel sistema giuridico – amministrativo) ecc. In secondo luogo, una volta asserita la sua necessità sociale, l’istituzionalizzazione professionale richiede al nascente corpo professionale (tra l’altro) anche la formulazione di un codice di condotta che consenta, come carta di autocontrollo e di autogoverno, di offrire garanzie sulla modalità e la qualità dell’expertise offerta ai committenti, ai clienti e alle istituzioni o agenzie con cui i professionisti stabiliranno rapporti di consulenza ecc. La formulazione del codice di condotta esige a sua volta che sia chiarito in precedenza il contenuto stesso dell’expertise che esso intende regolare, sempre tenendo sullo sfondo la sua riconosciuta necessita sociale: di quale pratica, di quale expertise, infatti, codice di condotta deve occuparsi? Il processo collettivo della sua formulazione non si esaurisce però, e questo è la mia porta d’entrata, nell’identificazione avvertita di una pratica (ritornerò a breve su questo punto) ma domanda anche una riflessione critica sull’etica che lo ispira e che a sua volta questo codice di condotta intende promuovere. Detto diversamente e più sinteticamente cosa vogliamo intendere per l’etica professionale dell’antropologo?

Il processo di professionalizzazione già avviato, in definitiva, può essere un’opportunità feconda per interrogarci di nuovo e più in profondità sulla dimensione epistemologica ed etica nel nostro procedere antropologico, mantenendo sullo sfondo certo la storia di questo rapporto e i contributi recenti di riflessione critica su di esso (quel sussulto cui accennavo in precedenza) come la storia della pertinenza sociale della disciplina.

La formulazione del codice di condotta ci offre la possibilità insomma di ripensare “da dentro” il rapporto tra l’epistemologia della nostra pratica di ricerca e la domanda etica che in essa si dispiega e di farlo nella sfera pubblica. La novità mi sembra e vorrei rilevarlo, è proprio anche nella cornice in cui questa conversazione oggi intende svilupparsi. Pur essendo una conversazione ad intra, è presente con maggiore consapevolezza, grazie proprio alle istanze di professionalizzazione, il riferimento a un terzo esterno, per cui la conversazione stessa, avviene, in the open, in un contesto i cui limiti superano il perimetro dell’identità disciplinare, sull’agora. Questa parola evoca quella dimensione pubblica (e nobile!) a cui l’istituzionalizzazione mobilita congiuntamente a tutti i suoi diversi effetti (tra i tanti lo sforzo di un linguaggio udibile ai non iniziati che è uno dei caratteri fondanti lo stesso progetto editoriale di questa rivista Antropologia Pubblica) e difficoltà (indicanti che anche i rapporti di advocacy per promuoverla all’esternodella comunità degli antropologi sono essi stessi luogo di scelta di una etica pubblica non disgiungibili da quella inscrivibile nel codice di condotta).

Nel mio intervento cercherò di mostrare in primo luogo gli elementi in gioco nello sforzo di pensare l’originalità epistemologica del gesto antropologico e di identificarla proponendo dei tratti distintivi attingendo anche alla riflessione maturata nella mia esperienza di questa pratica. In tale originalità cosí declinata mi pare sia possibile, infatti, riconoscere con maggior chiarezza sia il contributo della pratica di ricerca alla società civile come anche una dimensione etica costitutiva già presente nel processo stesso di produzione delle conoscenze, e caratteristica di quest’ultimo. In un secondo momento cercherò poi di rendere comprensibile questa dimensione etica strettamente connessa alla pratica cosí compresa e al tipo di etica cui orienta. Lo farò inspirandomi alla architettura della teoria etica di Alasdair MacIntyre che presenterò per brevissimi cenni. La sua riflessione infatti conduce a ritrovare all’interno della pratica di ricerca la fonte stessa dell’etica professionale che la ispirerà: è la nozione di bene interno e del processo della sua realizzazione. Quale o quali sarebbero i beni interni della pratica di ricerca antropologica? Infine, in guisa di conclusione, cercherò di indicare la portata di una tale ritrovata originalità e della sua costitutiva dimensione etica circa le problematiche aperte dal processo di istituzionalizzazione e l’etica professionale che in questo modo è possibile auspicare.

Epistemologia ed etica: il principio relazione

La dimensione etica è sovente convocata nel processo di costruzione del sapere antropologico perché quest’ultimo ha comportato e comporta, a partire dalla sua formalizzazione malinowskiana, l’ineludibilità di una relazione interindividuale; insomma esso richiede di trattare l’esperienza di altri e con altri, benché in modi diversi secondo i diversi paradigmi di volta in volta adottati (positivista vs ermeneutico).

La relazione, elemento strutturale di questo metodo, in quanto modalità di “conoscere altri attraverso altri”(Liosephides 2015: 10) richiede allora una assunzione di responsabilità da parte dell’antropologo nei confronti di questi altri (Non produrre danno…, Contribuire al benessere…, Acquisire il consenso informato…, etc.). L’etica della ricerca insomma sarebbe inerente alla ricerca antropologica principalmente perché questa è stata costruita sulla necessità metodica di relazioni interpersonali (lascio sullo sfondo le relazioni del ricercatore con i suoi pari e le istituzioni che pur interrogano la dimensione etica ma che non sono connessi sensu stricto alla pratica di ricerca). L’imperativo kantiano, in questo caso (spesso non onorato), secondo cui l’uomo è un fine e non un mezzo, è invocato sovente per dirimere le scelte di procedure da adottare e definire le obbligazioni nei confronti dei soggetti su cui e con cui si fa ricerca. In tale prospettiva le obbligazioni cui è vincolato l’antropologo non sembrerebbero diverse da quella rispetto alla quale sarebbe vincolato un medico, un’assistente sociale, uno psicoterapista o un giornalista-reporter. Questo concezione non è assolutamente falsa, ma mi sembra incompleta e non ancora espressiva della originalità di cui sopra, sia della epistemologia che della etica in essa contenuta. In effetti, confinare la pertinenza dell’etica per la ricerca antropologica alla sola gestione delle relazioni pensate come strumento (cioè comprese, nella teorizzazione o nella semplice narrazione del metodo, come mezzo, obtorto collo, per la raccolta di informazioni da altri e su altri) comporta di fatto lasciarla “fuori” dall’atto del comprendere del momento conoscitivo, e condannarsi nello stallo di una aporia irrisolvibile insita nella distanza costitutiva che dovrebbe mantenersi tra metodo di ricerca e conoscenze generate da quest’ultimo come tra soggetto ricercante e strumenti della ricerca. Questa aporia bifronte, in realtà, è il regalo avvelenato dell’adozione inconfessata di una postura scientista che non considera gli esiti del dibattito recente su cosa sia e cosa debba essere una relazione di campo in ordine alla costruzione di un sapere antropologico critico. La stessa terminologia di informazioni e informatori per indicare i nostri interlocutori ancora dominante nel linguaggio corrente interno alle nostre pratiche per rendere conto delle conoscenze raccolte (e che spinge ad assimilare il dispositivo etico che governerebbe la nostra pratica di ricerca a quello del cosiddetto consenso informato trasversale alle pratiche delle professioni mediche, psicologiche, sociali...), tradisce una postura ideologica riduttiva circa la complessità della pratica, del conoscere da lei generato e in ultima istanza delle relazioni che l’antropologo pone in essere sul campo. In gioco e alla radice vi è la domanda, mai risolta, su cosa siano queste relazioni, come pensarle perché siano epistemologicamente rilevanti e come trattarle operativamente perché generino delle conoscenze critiche degli universi sociali oggetto di analisi e in cui siamo coinvolti.

La domanda che possiamo porci sul contenuto e le caratteristiche della expertise antropologica mantenendo sullo sfondo sempre l’orizzonte regolativo disegnato dalla sua necessità sociale, inerisce proprio alla natura delle relazioni poste in essere dal suo dispositivo di conoscenza. Questo è caratterizzato, a dirla con George Marcus, da quel direct engagement with subjects e quella conversation or interview situation, che lui stesso giunge a definire il primo come l’hallmark stessodel lavoro di campo e la seconda la sua Ur-modality (Marcus 2012: XIV). Il diretto impegno responsabile con i nostri interlocutori e la situazione di scambio dialogico come pratica originale e originaria mi sembrano proprio definire il perimetro entro cui identificare l’expertise antropologica (non separando il modo di procedere da quanto esso genera pur pensandoli ovviamente distinti). Lo sforzo sarà di comprenderli “da dentro”, a partire dalla pratica vissuta e incorporata dei nostri gesti di ricerca, e di provare a pensarli evitando di ricondurli sotto la logica dello strumento utile all’ottenimento d’informazioni, ma anche di non appiattirli sulle categorie dell’empatia psicologica, della proiezione psicanalitica, dell’interesse del giornalismo investigativo, della negoziazione semiotico-testuale di significati. Insomma ci chiediamo se sia possibile in positivo identificare nella nostra esperienza di ricerca una modalità relazionale che sia unica a questa pratica e allo stesso tempo strettamente connessa alla processualità della sua produzione di conoscenze (in modo tale da non richiuderla nella logica della pura strumentalità). Le promesse alla fine di questo sforzo di riflessione sono molteplici: non solo il riconoscimento dell’originalità, se tale, di questo gesto (cioè di una pratica conoscitiva e sociale che non è omologabile ad altre) e l’identificazione delle caratteristiche distintive delle conoscenze cosí prodotte con esso e attraverso di esso (inerenti ad una necessita sociale reale ma non ancora pubblicamente riconosciuta ed esplicitata) ma anche la possibilità di ripensare un’etica non più solo della ricerca ma nella ricerca stessa, generata nella pratica stessa, in eccesso e a fondamento di quell’etica dell’obbligazione, necessaria ma non sufficiente, che è oggi divenuta la volgata che regge la maggior parte dei codici di condotta professionali.

Il compito non si presenta facile, condiviso oramai da più parti che l’antropologo nel suo dispositivo di ricerca non vi dimora più come un attore esterno, e che il suo direct engagement con i soggetti similmente non è più un medium trasparente. In effetti, se guardiamo sinteticamente lo sviluppo recente del dibattito interno alla disciplina al riguardo, la relazione sul campo e le interazioni che in essa si sviluppano, che questo rapporto sia stato pensato come solo strumento per ottenere informazioni su un mondo altro o come pretesto per la negoziazione di narrazioni di una realtà irraggiungibile, questa “relazione” sul campo con altri in quanto relazione sociale, è rimasta e resta sempre “raffica di vento” (Geertz 1998: 384), invisibile al positivismo della raccolta dei dati, irraggiungibile oltre le sue tracce non solo linguistiche o scomparsa nella narrazione ipertrofica della soggettività del ricercatore a cui la riconquistata visibilità nella relazione paradossalmente conferisce ormai pieno riconoscimento. L’engagement diretto con i nostri interlocutori non è assolutamente una “raffica di vento”, ma ha lo spessore dei tempi storici e degli spazi vissuti cosí come l’oggetto del desiderio della conversazione non è riducibile alla ricerca di sole informazioni. L’antropologo, insomma per parafrasare in modo contrastivo lo slogan geertziano, non solo “scrive”, ma prima, durante e dopo il gesto di scrittura saluta, promette, visita, ascolta, rifiuta, disobbedisce[1]. La pratica di ricerca sul campo, fattadi direct engagement e di conversation, è allora costituita da azioni che sono a ben vedere un insieme coordinato di gesti (una pratica[2]) che pongono in essere atti sociali, cioè atti in cui una reciproca intenzionalità e agentività viene riconosciuta in ordine a un progetto di conoscenza. Questo riconoscimento, sottointeso e tacito, dà origine, se non si esaurisce in un singolo contatto sociale (l’intervista puntuale, lo scambio occasionale) può dare origini a dei legami che chiamo emergenti, legami nuovi non omologabili, per natura, modalità e durata, a quelli esistenti nella vita dei nostri interlocutori ma che hanno la caratteristica proprio di sorgere da questi ultimi, rinviare a ad essi e di mobilizzarli. In questo riconoscimento reciproco e implicito di intenzionalità, i gesti della ricerca (l’accadere dell’engagement stesso, l’atto della intervista, etc…) non cadono nel vuoto, ma nello spazio-tempo vissuto degli altri e per tanto da questi ultimi viene attribuito loro un significato che sfugge al controllo dell’antropologo. Chiamo implicazione questa attribuzione di significato, nella tradizione aperta da Gerard Althabe (Althabe 2001).

La funzione di questo significato e la sua pragmatica non sono accessori: essi a ben vedere costituiscono la condizione di possibilità della conversazione stessa e del suo sviluppo, diventando la cornice, mutevole certo, del processo di scambio dialogico e della indagine stessa. L’antropologo insomma non cerca informazioni (o solo) ma stabilisce legami emergenti, apre uno spazio di comunicazione extraterritoriale (Selim 2009: 470), la situazione di conversazione come Ur-modality di cui sopra, in cui apprende in esso, figura visibile di quel legame, la modalità di edificarli, di mantenerli, di rappresentarli nell’universo sociale oggetto di analisi e con cui egli stesso interagisce.

La costituzione del legame emergente è così strettamente connessa alla possibilità di sviluppo di questa implicazione: l’uno non avviene senza l’operatività dell’altra. È nel riconoscimento, non immediato ma processuale nella durata dell’indagine, del significato attribuito a questa relazione e alla modalità con cui gli interlocutori permettono l’accesso dell’antropologo alla loro rete di relazioni da loro stessi intrecciata e mantenuta, che una conoscenza critica di questo universo viene progressivamente costruita. È all’interno di questo legame, non presente e talora nemmeno pensabile prima all’incontro con l’antropologo nelle relazioni sociali dell’universo oggetto di studio che la conversazione ha luogo e prende forma.

Queste due caratteristiche strutturano il dispositivo del campo e delle interpretazioni in esso generate. Esse possono contribuire a definire la originalità del gesto identificando ad un tempo la natura della relazione, quella di essere certo un legame sociale ma emergente (non omologabile ai legami preesistenti ma da essi dipendente e che esso stesso permette di manifestare, i tratti distintivi propri alla sua emergenza) e le caratteristiche, se possiamo cosí definire, del sapere critico e delle conoscenze in essa prodotte, cioè le interpretazioni degli eventi dell’inchiesta (osservazioni, dialoghi ecc.) che non restituiscono mere informazioni ma una comprensione critica, articolata e dinamica e spesso dialettica di un universo sociale e dei rapporti sociali che lo caratterizzano come delle rappresentazioni e delle pratiche che lo mantengono. Se l’implicazione e il legame emergente caratterizzano l’originalità del gesto antropologico differenziandolo da altre pratiche conoscitive, allora questo comporta che essi non sono altrimenti attivabili e conseguibili se non attraverso questa pratica e del suo modo di procedere. E cosí possono definire quella che poco sopra abbiamo definito l’expertise antropologica.

Questo punto è centrale: se siamo riusciti[3] ad identificarne i tratti distintivi, allora in questa sua originalità è possibile riconoscere sia il contenuto con cui essa risponde alla necessita sociale (la domanda pubblica di un sapere critico sugli universi sociali e della sua applicazione nei molteplici contesti) come anche, passaggio chiave, riconoscere in essa una istanza etica sollevata proprio a partire proprio da questa sua particolarità. E quanto ci promettiamo di illustrare nel paragrafo seguente.

I "beni interni" del gesto antropologico

La mia analisi intende qui rileggere la nostra pratica di ricerca con categorie che permettano di riconoscerla come fondamento di una pratica professionale distinta e di una etica non esterna al suo dispiegarsi. Per fare questo riprenderò le nozioni di bene interno (internal good) e di pratica definiti nei lavori di Alasdair MacIntyre, principalmente nel suo libro Dopo la virtù. Sono nozioni che sorgono nella riflessione di questo filosofo morale, grazie ad una rilettura critica di Aristotele e nell’intento di riabilitare, dopo la sua destituzione nella modernità - il titolo del testo lo annuncia- l’etica delle virtù, in cui sicuramente la sua prospettiva può essere, con semplicismo espressivo, collocata. Non si tratta in questa sede di esporre tutta la architettura della sua teoria morale e nemmeno di presentarla unitamente ai rilievi critici che essa ha sollevato dopo la sua pubblicazione negli anni ottanta del Novecento. Questa architettura resterà ovviamente in filigrana alla mia riflessione; utilizzerò, infatti, solamente un tassello della sua complessa impalcatura nello scopo di suggerire la direzione di una riflessione che ho intrapreso e continuo ad esplorare e che porta i tratti di un lavoro in fieri piuttosto che presentarsi come una formulazione compiuta.

L’interesse della riflessione etica di MacIntyre per la mia argomentazione consiste da una parte nella sua idea che è nell’incontro dei praticanti prima di tutto col bene interno specifico alla loro pratica che l’interrogazione etica si sviluppa, giungendo ad originare nel tempo distinti universi etici e dall’altra nella correlazione che egli stabilisce tra le pratiche, i beni conseguiti all’interno di esse (insieme all’apparato dei criteri della loro valutazione da parte dei praticanti) e il contributo che queste pratiche danno alla società più ampia sia nelle diverse forme della loro produzione come nel loro contributo ad estendere la comprensione del bene collettivo, ampliando, nella società, ciò che merita essere da lei conseguito e difeso. La pratica allora non è solo un contesto di gesti coordinati, governati, migliorati nel tempo e discussi da una comunità di practitioner ma anche un contesto morale originario perché solo apprendendo a perseguire ciò che è bene in quanto praticanti dice MacIntyre (e cioè se medici da medici, se danzatori da danzatori, se diplomatici da diplomatici, se pescatori da pescatori, l’esempio spesso ripreso da MacIntyre e aggiungo io se antropologi da antropologi) che noi acquisiamo una conoscenza etica concreta e storicamente situata per poter iniziare a riflettere sul bene in quanto tale e sul dovere di conseguirlo. Le pratiche autentiche contribuiscono ad ampliare la comprensione di ciò che è considerato bene comune proprio a partire dai beni che esse perseguono in quanto pratiche specifiche distinte.

Per MacIntyre, i beni (goods) che ci forniscono le ragione per agire (MacIntyre 1999: 64), non esistono infatti come oggetti astratti e generali: noi li incontriamo, per cosí dire, e possiamo riconoscerli e riconoscerne il significato solo all’interno di campi concreti e diversi di esperienza, primi fra tutti le pratiche (e poi anche nelle traiettorie biografiche e nelle tradizioni morali, ma di questi medium non sarà questione in queste pagine). Nella idea di pratica egli include molto: quelle performative e quelle produttive, quelle legate al mondo del lavoro come quelle che non lo sono. La sua definizione è dunque inclusiva; arti, scienze, giochi, la politica in senso aristotelico, la costruzione della vita domestica, cadono tutti sotto questo concetto. Dare un calcio al pallone, dice, è una abilità, il gioco del calcio invece è una pratica. La ricerca scientifica, che sia quella della fisica, della chimica o della storia, è una pratica. Riporto qui di seguito la sua definizione in cui le correlazioni cui accennavo precedentemente sono poste in modo sintetico (riporto anche la versione originale inglese in quanto alcune parole scelte per la traduzione italiana, valori per good,modelli per standards, facoltà per human powers mi sembrano riduttive):

Per ‘pratica’ intenderò qualsiasi forma coerente e complessa di attività umana cooperativa socialmente stabilita, mediante la quale valori insiti in tale forma di attività vengono realizzati nel corso del tentativo di raggiungere quei modelli che pertengono ad essa e parzialmente la definiscono. Il risultato è un’estensione sistematica delle facoltà umane di raggiungere l'eccellenza e delle concezioni umane dei fini e dei valori impliciti (MacIntyre 2009:234).

By a ‘practice’ I am going to mean any coherent and complex form of socially established cooperative human activity through which goods internal to practices are realized in the course of trying to achieve those standards of excellence which are appropriate to, and partially definitive of, that form of activity, with the result that human powers to achieve excellence, and human conceptions of the ends and goods involved, are systematically extended (MacIntyre 2007: 187).

Ogni genuina pratica diventa la sede generativa di beni distinti e di comprensioni differenti del bene comune arricchendole: anzi sono le pratiche che contribuiscono a generare e a estendere storicamente le concezioni delle finalità ultime. Su di esse si appoggiano i gruppi sociali per conseguire i beni comuni a loro necessari (MacIntyre 2009: 234), beni che sono parzialmente strutturati come beni interni a particolari pratiche e che mai possono essere compresi indipendentemente da esse (MacIntyre 1994: 288). Certo i practitioner all’interno delle pratiche e solo loro, perché da lungo iniziati in esse, riconoscono ciò che possibile e eccellente da conseguire; ma gli human powers e le human conceptions della definizione non sono solo quelli dei practitioner ma di tutti gli uomini, sono human appunto. Una pratica è dunque autentica proprio perché non emerge e si mantiene insulare nella società in cui è stabilita ma comunica fruttuosamente con essa e ha il potere cosí di indicarle qualcosa di nuovo, anche delle forme di eccellenza, che meriti di essere conseguito e per cui valga la pena lottare. Le pratiche sono insomma il terreno fecondo in cui sorgono nuove finalità, dove queste sono riviste, talvolta dismesse come sono anche il contesto in cui sono ideati, valutati e modificati i modi di procedere per raggiungerle. In ogni pratica vi è sempre una visione distinta di cosa sia utile realizzare e di come questo debba tendere ad essere un prodotto finale perfetto, ideale che opera come obiettivo condiviso nella comunità dei praticanti. Questa perfezione è declinata con gli standard di eccellenza che vengono spesso espressi con un linguaggio valutativo ricco e inerente a ogni singola pratica: ciascuna ha il suo modo di parlare del meglio e del peggio e di indicare l’ottimo. E di cambiare i criteri per valutarli nel tempo. Questa caratteristica è importante perché permette di articolare attraverso il riconoscimento della eccellenza del prodotto della pratica la stessa istanza del dovere. È la seconda correlazione cui facevo riferimento; prima di ritornarvi mi sembra necessario esplicitare però il presupposto alla base di questa paragrafo.

Il presupposto che governa la mia analisi, il lettore lo avrà certo già capito, è che la pratica della ricerca antropologica possa essere pienamente compresa come una pratica nel senso indicato da MacIntyre. Molti elementi infatti convergono ad un primo sguardo: la sua dimensione cooperativa emersa storicamente nel tempo, la modalità della sua trasmissione (la progressiva istituzionalizzazione della sua formazione), la continua rivisitazione dei suoi fini e delle modalità di raggiungerli, un set di criteri, storicamente variabili, con cui poterla valutare, e valutare l’eccellenza delle sue performance, il suo contributo nel promuovere con i suoi beni interni (in prima approssimazione la sua pratica della relazione e il sapere critico degli universi sociali che essa genera) il riconoscimento di un bene comune (l’uguaglianza delle culture, il rispetto delle differenze, il dialogo comprensivo, ecc.) non prima pensabile e non più concepibile senza il suo costituirsi, ecc.. Queste sono solo alcuni dei tratti e per di più solo accennati (meriterebbero un più lungo sviluppo che rinvio a una prossima pubblicazione), con cui possiamo pensare la pratica della ricerca antropologica con le categorie del filosofo scozzese.

Se così è, allora la nozione di bene interno, che ci forza a ritrovare la differenza di questa pratica di ricerca rispetto a pratiche simili, permette di ampliare quella visione riduttiva della dimensione etica come il solo timone necessario ed esterno di una relazionalità strumentale (metodica). Questa visione dice, infatti a lei sola, poco o nulla, sia della complessità di questo gesto conoscitivo sia della natura delle conoscenze che genera e finisce, da ultimo, per occultare una istanza interna, di contro, etica. Quale è il bene o quali sono i beni interni della pratica di ricerca antropologica? Possono essere ridotti a delle sole informazioni? Il modo di costruire il suo conoscere e conseguirlo, la processualità del suo costituirsi nella relazione non appartiene pure ai suoi beni interni, ai suoi telos, che solo chi la pratica può riconoscerli e chi è navigato da più tempo ne sa valutarne la bontà? Di fronte a questa prospettiva, quella logica di un’etica delle obbligazioni, sganciata ed esterna alla pratica, di cui sollevavo nel primo paragrafo l’incompletezza e l'insufficienza, si rivela anche povera e riduttiva se non addirittura cieca della ricchezza di una pratica che una tradizione recente ci consegna e di cui noi siamo oggi responsabili.

Il bene interno di una pratica, infatti, per MacIntyre non è solo la sua finalità, il telos ma anche il processo che comporta il suo conseguimento e la sua valutazione. Implica la messa in gioco di criteri di stima della sua bontà e degli indicatori di eccellenza che solo i praticanti di lunga data, ripeto, sanno apprezzare. Se assumiamo come caratteristiche delle relazioni sul campo i tratti indicanti nel paragrafo precedente, il legame emergente e l’implicazione, entrambe sembrano allora costituirsi come strutturanti i bene interni di cui è portatrice la pratica della ricerca antropologica, un sapere complesso e articolato che essa può offrire a una società civile o a un corpo sociale (corpo che conosce i prodotti di questa expertise, ma cui sfugge la complessità e la fatica del realizzarli). L’implicazione è un carattere del suo bene interno perché non può essere conseguita e riconosciuta se non dall’esercizio stesso della pratica; esprime un bene epistemologico perché è un elemento che concorre in modo unico a elaborare una conoscenza critica, una delle condizioni di possibilità di questa ultima; è un “bene relazionale” se consideriamo il rapporto concreto con gli uomini e le donne con cui interloquiamo, perché il legame emergente che la pratica autorizza è un legame a misura dell’agentività individuale, del riconoscimento sociale reciproco che esso fonda, manifesta e che difende come tale salvaguardandolo dalla sua riduzione alla sola strumentalità.

Allora se pensiamo diversamente ciò che facciamo sul campo, e riconosciamo il legame emergente e l’implicazione come caratteristiche di questa pratica, la dimensione etica è già tutta incoativa in questo processo di venire a comprensione nel dialogo. In modo più specifico, se scegliamo di riconoscerle come beni interni della nostra pratica di campo, ci sottomettiamo alla loro identificazione e cosí, allora, ci sottomettiamo anche implicitamente al dovere regolatore di conseguirli. Ciò che s’impone a noi come buono da ricercare, questo s’impone a noi anche come un obbligo vincolante da realizzare.

Conclusioni

Alla luce di tutto quanto illustrato in precedenza, le domande epistemologiche con cui ho introdotto queste pagine – come conosciamo in antropologia? Che cosa conosciamo o intendiamo conoscere? – risuonano come domande in realtà anche inerenti ai beni interni alla pratica della ricerca antropologica, ciò che costituisce la risposta alla sua necessita sociale e suggeriscono le obbligazioni che regola l’orizzonte di eccellenza per conseguire il bene interno. La domanda successiva che occorre porsi è in che modo allora il riconoscimento di questi beni interni dell’expertise antropologica possa e debba ispirare la scrittura di un codice di condotta che la governi e animi. La risposta a questa domanda non può che essere frutto di un lavoro e impegno cooperativo che va ben oltre la portata di queste pagine e di un singolo. Vorrei solo indicare brevemente per concludere le implicazioni della prospettiva qui sopra abbozzata.

L’istanza etica del gesto antropologico è ben anteriore al presentarsi del dilemma (in cui l’interrogazione etica certamente si manifesta senza però in questo esaurirsi), indipendente dal suo oggetto (per cui non esisterebbero oggetti etici – a scapito di altri non-etici – che renderebbero ipso facto etico il conoscere antropologico), non determinata dall’onestà e dall’integrità dell’antropologo (caratteristiche di base necessarie ma non sufficienti per connotare la dimensione etica specifica del gesto) o dalla sua personale militanza politicamente corretta (“correttezza” per definizione variabile secondo l’esprit du temps). L’etica del gesto antropologico, è quanto mi sono proposto di illustrare in queste poche pagine, è un’etica iscritta prima di tutto nella sua processualità, rapidamente disegnata qui sopra, che diventa la fonte primaria del discernere etico, necessaria proprio quando si presenta il dilemma, che, paradossalmente, nessun codice di condotta deontologica, potrà risolvere interamente. È la ricerca del bene interno cosí compreso che viene in aiuto alla decisione etica in situazione. E’ un’etica allora “nella” ricerca prima ancora di un’etica “della ricerca”. Il legame emergente, l’implicazione, il sapere critico maturato nel dispositivo sono un “bene interno”, fanno bene al corpo sociale e sono il luogo d’incontro personale, tutti noi ce lo auspichiamo, del bene per l’antropologo. Tutti questi elementi possono cosí concorrere per costruire un’etica professionale centrata sulla “ricerca della vita buona, con altri e per altri in istituzioni giuste” (Ricœur 1985).

Bibliografia

Althabe, G. 2001. Pour une ethnologie du présent. Ethnologies 2: 11-23.

Fava, F. 2015. Qui suis-je pour mes interlocuteurs ? L’anthropologue, les terrains et les liens émergents. Paris. L’Harmattan.

Geertz, C. 1998 [1973]. Interpretazione di cultura. Bologna. Il Mulino.

Josephides, L. (ed). 2015. Knowledge and Ethics in Anthropology. London. Bloomsbury Academics.

MacIntyre, A. 1999. Dependent Rational Animals: Why Human Beings Need the Virtues. Chicago. Open Court.

Macintyre, A. 2007 [1981]. After Virtue: A Study in Moral Theory. South Bend. University of Notre Dame Press.

MacIntyre, A. 2009 [1981]. Dopo la virtù. Saggio di filosofia morale. Roma. Armando Editore.

Marcus, G. 2012. «Foreword» in Ethnography and Virtual Worlds. A Handbook of Method, Boellstorf, T. (ed). Princeton. Princeton University Press: XIII-XX.

Ricœur, P. 1990. Soi-même comme un autre. Paris. Editions du Seuil.

Schön, D.A. 2010 [1984]. Il professionista riflessivo. Per una nuova epistemologia della pratica professionale. Bari. Edizioni Dedalo.

Selim M. 2009. La ‘folie’ du terrain. Quelles médiations analytiques ? Journal des anthropologues 116-117: 467-490.



[1] Per una trattazione piú estesa di questo punto mi permetto di rinviare il lettore a Fava 2015.

[2] La nozione di pratica centrale nelle scienze sociali a partire dalla meta degli anni 80 del secolo scorso è qui compresa nella prospettiva di Alasdair MacIntyre che illustrerò nel paragrafo seguente.

[3] Quanto precedentemente illustrato è solo una delle modalità possibili per esplicitare il contenuto dell’expertise anche se le domande poste mi sembrano fissare una direzione in ogni caso da percorrere.