Antropologia dei disastri. Ricerca, Attivismo, Applicazione

Un’introduzione

Mara Benadusi

Università di Catania

Table of Contents

Gli esordi: radicalismo e implicazione
Assemblaggi globali: echi e dissolvenze
L’impegno pubblico dell’antropologo nei disastri
Vivere il disastro. Sopravvissuti o testimoni?
Enunciare il disastro. Antropologia e Advocacy
Agire il disastro. Attivismo e collaborazione
Bibliografia

Dedicare questo primo numero della nascente rivista Antropologia Pubblica al tema dei disastri non vuole essere un’operazione di taglio squisitamente accademico, motivata dalla volontà di dare spazio a un argomento relativamente nuovo nell’antropologia italiana. Le catastrofi, è vero, sono un terreno ancora emergente nel nostro settore disciplinare, ad attestazione del relativo ritardo accumulato rispetto ad altri contesti internazionali. A ben vedere, però, l’ingresso ritardato di questo campo d’indagine in Italia segnala – prima di ogni altra cosa – una difficile, incompleta sintonizzazione tra il mondo della ricerca (non solo antropologica beninteso) e il novero delle problematiche sociali che affliggono le vite di frazioni sempre più ampie della popolazione sia nazionale che globale. Il fatto denuncia inoltre – non meno gravemente – una relativa incuria intellettuale nel trattare problemi che interessano in maniera pressante il dibattito pubblico contemporaneo. Pensiamo alle carenze istituzionali in tema di prevenzione dei disastri, dovute a un misconoscimento della natura “sociale” più che strettamente “fisica” degli eventi cataclismatici; agli aspetti capziosi della comunicazione del rischio attribuibili a una sottovalutazione delle variabili socio-culturali; oppure alle manovre politiche e ai processi di strumentalizzazione economica che accompagnano le fasi ricostruttive, che meriterebbero una lettura più accurata di quella offerta da molti organi di stampa nazionali. Né può essere elusa la responsabilità di collegare la teoria antropologica alla prassi in tutti quei casi in cui assistiamo inermi alla sofferenza esistenziale, fisica ed emotiva derivata dalla dislocazione forzata d’intere popolazioni dai loro luoghi di residenza a seguito di catastrofi; oppure quando constatiamo quanto gli effetti del cambiamento climatico, della contaminazione industriale e dell’inquinamento colpiscano con più durezza proprio i gruppi in condizioni di maggiore vulnerabilità sociale nel pianeta. È un divario conoscitivo, pubblico e applicativo, ancor prima che accademico quello che ci auspichiamo di colmare, almeno in parte, con questo numero monografico.

L’occasione di mettere insieme gli articoli qui proposti è scaturita dal secondo Convegno Nazionale della Società Italiana di Antropologia Applicata (SIAA), tenutosi a Rimini tra il 12 e il 13 dicembre del 2014. Al panel tematico che ho coordinato sul tema dell’engagement e dell’applicazione nello studio delle catastrofi, hanno partecipato una decina di antropologi, alcuni ancora coinvolti nelle loro ricerche dottorali, altri già in possesso del dottorato di ricerca. È un dato, infatti, che, dopo i primissimi, isolati contributi di Amalia Signorelli (1992) sul tema delle catastrofi naturali, a parte rare eccezioni, a prendersi carico dei disastri tra gli antropologi italiani sia stata soprattutto una generazione di giovani e studenti, impegnati in tesi di laurea, in percorsi di master e dottorato o in ricerche extra-accademiche con un forte taglio pubblico e applicativo. Quando nel 2009 organizzai il primo simposio antropologico sui disastri, con la partecipazione tra gli altri di Anthony Oliver-Smith e Sandrine Revet (Benadusi et al. 2011), in Italia le tesi di laurea in antropologia dedicate al tema delle catastrofi erano appena un paio[1]. Nell’arco di un quinquennio abbiamo assistito a un progressivo accrescimento del campo d’indagine, incoraggiato anche dall’apparizione, nello stesso anno del simposio, del testo manualistico di Gianluca Ligi (2009) sull’antropologia dei disastri.

Fatidicamente, proprio nel 2009 un altro evento, ben più importante per gravità e capacità d’impatto sulla popolazione, contribuiva a segnare l’emergenza di un’antropologia dei disastri in Italia: l’evento sismico che ha colpito la città dell’Aquila nel mese di aprile, causando oltre 300 vittime. Il terremoto dell’Aquila ha scatenato una forte attenzione mediatica sul tema delle catastrofi, acuita dall’interesse internazionale verso il processo contro la Commissione Grandi Rischi (Ciccozzi 2013). A tal punto che non sarebbe improprio sostenere che la polverosa e inconclusa vicenda dell’Aquila abbia determinato una sorta di risveglio delle scienze sociali dei disastri in Italia, di cui si è avuto un primo riflesso nel numero dedicato al post-sisma dalla rivista Meridiana nel 2009. A mio parere, tuttavia, l’effetto più interessante della popolarità assunta dalle vicende aquilane tra gli scienziati sociali è stato l’emergere di nuove forme di attivismo che hanno coinvolto un numero crescente di ricercatori in indagini di taglio applicativo e nella diffusione di contenuti socio-antropologici in canali alternativi a quelli tipicamente accademici. L’esperienza di Sismografie (Carnelli et al. 2012) nasce proprio con un focus specifico sul post-sisma aquilano, per volontà di un gruppo di ricercatori di diversa formazione disciplinare, desiderosi di aprire uno spazio di riflessione che permettesse di posare su circostanze ed eventi oltremodo spettacolarizzati uno sguardo più responsabile, «rallentato» e «compartecipe» di quello proposto sul grande schermo (Ciccarelli 2012: 8). Gli aspetti governamentali legati all’operato della Protezione civile, il ruolo semiotico-culturale delle immagini nella rappresentazione delle vittime, la conformazione dello spazio urbano post-sismico, le relazioni tra potere, scienza e cittadinanza, la natura politica dei processi di memorializzazione della catastrofe hanno così fatto il loro ingresso nel dibattito pubblico nazionale, coinvolgendo anche alcuni antropologi italiani.

La voglia di valorizzare e mettere in connessione queste esperienze attraverso un primo sforzo di sistematizzazione ha animato i lavori della sessione sui disastri a Rimini. Come spiegherò nella seconda parte di questa introduzione, il nucleo di questioni trattate ha l’ambizione di coprire varie modulazioni agentive che possono manifestarsi quando l’antropologo esercita un ruolo pubblico nei disastri: dall’advocacy alla critica culturale, dall’applicazione all’attivismo politico. Da un lato abbiamo gli antropologi che hanno partecipato attivamente, con diversi gradi di implicazione e “internalità”, al movimentismo civico che germina negli scenari post-catastrofe, ponendosi a fianco o alla guida di comitati e associazioni insorti in risposta ai bisogni di auto-determinazione della popolazione colpita; dall’altro gli antropologi che hanno ricoperto invece ruoli più consulenziali nella gestione dei disastri o nella mitigazione del rischio, collaborando con istituzioni, organizzazioni non governative, coalizioni politiche a livello locale. In taluni casi gli antropologi hanno alternato ricerca indipendente, attivismo politico e consulenza. Ad ogni modo gli autori hanno dialogato tra loro e riflettuto criticamente sulle dimensioni epistemologiche e politiche che orientano questi diversi posizionamenti, importanti non solo per l’andamento della ricerca, ma anche per le ricadute teoriche e pratiche che ne derivano. Nel corso del dibattito e poi della stesura dei saggi sono stati presi in considerazione anche i vincoli e le limitazioni derivanti dai molteplici ruoli assunti sul campo; ovvero i vincoli che si pongono all’antropologo quando diventa attore diretto di cambiamento sociale “dal basso e per il basso”, dando voce a bisogni e rivendicazioni dei sopravvissuti, o quando, invece, cerca di ritagliarsi uno spazio da consulente “esperto”, mettendo le proprie conoscenze disciplinari al servizio d’interventi politici e sociali centrati sulla mitigazione del rischio, la prevenzione da future catastrofi o la gestione dell’emergenza.

Nel seguire il taglio appena illustrato, ci siamo confrontati con vari nodi problematici. Abbiamo provato a capire, ad esempio, fino a che punto divenire consulenti riduca gli spazi di autonomia e depotenzi la radicalità dell’impegno applicativo dell’antropologo nei disastri. Oppure se un’antropologia implicata a fianco delle comunità colpite da catastrofi sia compatibile con incarichi ufficiali di prestigio all’interno dei network internazionali che regolano i saperi e le tecnicalità di gestione delle emergenze. Inoltre, abbiamo ragionato su come declinare oggi l’afflato politico-applicativo di un’antropologia critica negli scenari post-catastrofe, considerata la tendenza a utilizzare lo shock collettivo per promuovere politiche di neoliberismo economico altrimenti impopolari; così come abbiamo provato a ripensare il posizionamento da ricercatori indipendenti in una fase storica in cui è in aumento anche l’uso politico della scienza che studia i disastri, ben consapevoli delle insidie legate alla strumentalizzazione dei saperi scientifici, tecnici e consulenziali in questo campo, come il processo alla Commissione Grandi Rischi a l’Aquila mostra bene.

In un paese come l’Italia, ciclicamente destinato a fare esperienza di disastri, il nucleo di questioni trattate in questo volume richiede un’attenzione etnografica prolungata, un impegno teorico maturo e l’esercizio della propria responsabilità intellettuale nel lungo periodo. È per questo motivo che nel riflettere criticamente sulla portata applicativa e sul ruolo pubblico dell’antropologia dei disastri in Italia, abbiamo sempre tenuto il nostro sguardo direzionato “oltre frontiera”, in modo da intercettare le sfide che la comprensione dei disastri e l’intervento attivo nei disastri hanno posto agli antropologi ad altre latitudini del mondo. Lo stesso approccio ha guidato la stesura di questo saggio introduttivo, dove cerco di mettere a confronto le ricerche dei singoli autori nel volume con quelle condotte da altri antropologi a livello internazionale. Per rafforzare questa scelta espositiva, nella prima parte del saggio ripercorrerò brevemente alcuni passaggi cruciali che hanno segnato l’evoluzione degli studi antropologici sui disastri fuori dall’Italia. Due momenti risultano particolarmente salienti: quello degli esordi, tra gli anni Settanta e Ottanta del xx secolo, e la fase successiva, in cui l’antropologia dei disastri si è andata progressivamente internazionalizzando. In questo intervallo temporale il ruolo pubblico degli antropologi impegnati a studiare le catastrofi è mutato gradualmente, da un lato amplificando le opportunità di intervento e visibilità, dall’altro rischiando di limitare la carica critico-applicativa originaria. Un’antropologia italiana interessata ad applicare criticamente i propri saperi in contesti in cui le persone fanno esperienza prolungata dei disastri deve, gioco forza, confrontarsi con questa storia, una storia in cui molto resta da scrivere, e tanto ancora da fare.

Gli esordi: radicalismo e implicazione

Fin dal suo emergere la ricerca antropologica sui disastri è stata caratterizzata da un’evidente inclinazione critico-applicativa. Studiare le cause profonde delle catastrofi e le loro ripercussioni nel lungo periodo era considerato il presupposto essenziale per una ridefinizione incisiva, in direzione più equa e condivisa, dei metodi di gestione e mitigazione usati per sventarle. Dal rapporto prolungato sul campo con popolazioni che risentivano – spesso cronicamente – di calamità ricondotte esclusivamente a cause naturali o tecnologiche, è difatti derivato, tra gli anni Settanta e Ottanta dello scorso secolo, un ripensamento sostanziale della nozione di disastro.

Alcune catastrofi arrivano inaspettate e si abbattono in modo rapido e violento sulle comunità umane, come avviene per i terremoti, i maremoti oppure gli incidenti industriali. Altre s’insinuano alla stregua di «nemici invisibili» (Ligi 2009: 9), lente e silenziose, nella vita quotidiana d’intere popolazioni, come nei periodi di grave siccità, in caso di contaminazioni chimiche oppure per forme croniche d’inquinamento ambientale. Ad ogni modo, le sensibilità metodologiche, teoriche e politiche dei ricercatori che per primi si dedicarono allo studio antropologico delle catastrofi, generarono un bisogno di rinnovamento tanto delle conoscenze quanto delle pratiche di intervento prevalenti nel settore. Una volontà questa che si sorreggeva, prima di ogni altra cosa, sulla consapevolezza che l’esperienza – intensiva, continuata e spesso coercitiva – della catastrofe, lasci segni profondi nell’ambiente di vita e sui corpi dei soggetti che ne sono colpiti. L’alleviamento delle condizioni di sofferenza sociale doveva quindi rappresentare il punto di partenza, lo snodo operativo e il banco di prova di qualsiasi indagine, intervento e politica indirizzati a ridurne cause ed effetti. Basandosi su questo assunto e beneficiando del rapporto di collaborazione con altri scienziati sociali, un gruppo inizialmente esiguo ma via via crescente di antropologi, soprattutto americani ma sempre più anche da altre aree nel nord e nel sud del mondo, ha così gettato le basi, in quegli anni, per un mutamento profondo della ricerca sulle catastrofi, che facesse leva – come vedremo – sul concetto di vulnerabilità.

Antropologi come Anthony Oliver Smith, Susanna Hoffman, Gregory Button, Virginia García-Acosta, così come i geografi Kenneth Hewitt, Allan Lavell, Ben Wisner – solo per citare i nomi più noti – avevano in comune non solo la critica all’approccio fisico-ingegneristico allora predominante nel settore, ma anche l’insoddisfazione rispetto al taglio assunto fino a quel momento dalla ricerca sociale sui disastri. Dopo l’isolato lavoro fondativo di Samuel Henry Prince sui processi di cambiamento sociale generati dall’esplosione di Halifax (Prince 1920), tra gli anni Cinquanta e Settanta del xx secolo le scienze sociali si erano concentrate prevalentemente sugli effetti dei disastri sulla società (Oliver-Smith, Hoffman 1999: 1-2). Alcuni avevano studiato il manifestarsi di sindromi post-traumatiche e di forme repentine di mutamento politico e disgregazione sociale nell’immediato periodo ex-post; altri si erano concentrati sulle percezioni culturali, sui comportamenti e le reazioni psicologiche prodotte non tanto dall’occorrenza di un evento, quanto dal timore di minacce ancora incombenti. Nell’uno e nell’altro caso, tuttavia, la ricerca sociale sui disastri non aveva messo in discussione – almeno non alle sue fondamenta – la visione tecno-centrica dominante in un settore che restava appannaggio quasi esclusivo delle scienze naturali e ingegneristiche (Revet 2012: 43-44). Questa visione vedeva il disastro esclusivamente come un agente fisico prodotto da cause naturali o tecnologiche che potevano sì creare effetti devastanti per l’assetto sociale, ma che restavano comunque, di per sé, forze esterne.

Inoltre, in un periodo governato dal clima d’insicurezza generato dalla Guerra Fredda, gli studi sociali sui disastri avevano finito per rappresentare una sorta di «laboratorio» per valutare i possibili effetti sulla popolazione di un attacco nucleare (Revet 2012: 43)[2]. Sociologi come Charles Fritz o Enrico Quarantelli e gli altri ricercatori presso il Disaster Research Center avevano cominciato i loro studi, negli anni Sessanta del xx secolo, ricevendo fondi dall’Ufficio della Difesa Civile Americana e da altri dipartimenti governativi negli Stati Uniti per analizzare i comportamenti delle persone in caso di crisi determinate da fattori esogeni. I loro studi tendevano ad accentuare l’idea del disastro come rottura dell’ordine sociale, mostrando tanto gli aspetti disgregativi quanto quelli riaggregativi derivanti dalla crisi. Il filone di ricerca socio-antropologica emerso sul finire degli anni Settanta spostò invece il fulcro dell’indagine dal concetto di “crisi” a quello di “vulnerabilità” (Torry 1979; Hewitt 1983). Le catastrofi non erano considerate il semplice prodotto di una forza esterna dirompente capace di interrompere l’ordine normale delle cose, ma il risultato di processi storico-sociali più radicati, che contribuivano a sviluppare vulnerabilità ben prima dell’occorrenza di un evento fisico distruttivo. Le «vere cause» delle catastrofi non andavano ricercate fuori dalla società ma al suo interno; era l’assetto sociale di un contesto storicamente determinato che, lungi dall’essere normale, mostrava il suo grado di anormalità quando rendeva disastroso, specialmente per alcuni luoghi e categorie di persone, l’impatto di un agente distruttivo (Hewitt 1995). Il disastro non andava compreso – unicamente perlomeno – come un brusco collasso dell’ordine sociale, dal quale scaturivano reazioni di segno opposto che, se ben gestite, avrebbero dato luogo a nuove «occasioni di sviluppo» (Quarantelli 1987: 13). Nella maggioranza dei casi, infatti, l’aspetto catastrofico di eventi solo apparentemente circoscritti era il risultato cronicizzato proprio di processi di sviluppo mal direzionati. Questi incrementavano le ineguaglianze e producevano varie forme di vulnerabilità, specialmente tra quanti vivevano in condizioni di sofferenza sociale politicamente e istituzionalmente imposta (Oliver-Smith 1999).

«Spogliare i disastri della loro naturalità» (O’Keefe et al.1976) spinse così un gruppo emergente di antropologi, animati da un forte impegno politico-applicativo, a promuovere una visione alternativa sia all’approccio prevalente nelle scienze geofisiche e ingegneristiche sia a quello allora più in uso tra gli scienziati sociali. In stretta collaborazione con geografi, architetti, storici e politologi, cominciarono a esaminare i modi di sviluppo economico come generatori di vulnerabilità, le relazioni di potere sottese ai contesti colpiti, le interpretazioni culturali della catastrofe e il simbolismo ad esse associato, l’ecologia politica regolante gli interventi umani sull’ambiente, così come la storia coloniale pregressa in certe aree del pianeta. Quest’approccio presupponeva una forte implicazione a fianco di popolazioni considerate particolarmente vulnerabili ai disastri perché soggette a forze politiche dominanti sia nel sud del mondo sia in spaccati sociali in condizioni di estrema precarietà nei paesi più ricchi. Politicizzare le catastrofi e analizzare attentamente non tanto il disastro o il rischio in sé, ma i processi storico-sociali che li determinano assunse il peso di parola d’ordine in questa fase degli studi. La riduzione della vulnerabilità alle catastrofi dipendeva dallo sforzo di comprendere i fattori in grado di determinarla, che andavano ben oltre le caratteristiche fisico-tettoniche o, più genericamente, naturali presenti nelle zone colpite, e non potevano in alcun modo essere appiattiti alle sole risposte sociali scatenate dal disastro o dal paventato pericolo.

Assemblaggi globali: echi e dissolvenze

L’importanza applicativa della ricerca antropologica sulle catastrofi ha ricevuto una chiara attestazione a livello internazionale nel 2013, quando Anthony Oliver-Smith, che ricopre un ruolo pionieristico nel settore, è stato insignito del Bronislaw Malinowski Award. Il premio è un’onorificenza alla carriera conferita annualmente dalla Society for Applied Anthropology (SfAA) a figure che hanno dimostrato di mettere il proprio sapere al servizio dei bisogni della società. Sol Tax, Raymond Firth, Michael Cernea, Ward Goodenough hanno ricevuto, tra gli altri, lo stesso riconoscimento.

L’assegnazione del Malinowski Award a Oliver-Smith ha suggellato l’ingresso dello studio dei disastri tra i settori oggi trainanti della ricerca antropologica applicata, accanto ad ambiti più consolidati quali sviluppo, educazione, diritti umani, migrazioni, salute e minoranze. Il premio è stato consegnato nel corso del meeting annuale della società scientifica a Denver, fornendo l’occasione per un momento di coesione importante agli antropologi impegnati a studiare le catastrofi. Si sono tenute oltre 103 comunicazioni suddivise in 22 sessioni. Se si considera che quelle organizzate nel 1990, quando l’antropologia dei disastri fece il suo primo ingresso all’interno della SfAA, erano 33 presentazioni in tutto (Oliver-Smith 1990), la crescita negli ultimi 25 anni risulta lampante. Lo sviluppo è stato talmente rapido e per certi versi inaspettato che, dopo il meeting di Denver, è stato immediatamente istituito un Topical Interest Group (TIG) intitolato Rischio e Disastri. Lo stesso è accaduto nell’European Association of Social Antropologists (EASA) con la costituzione di DICAN (DIsaster and Crisis Anthropology Network), un raggruppamento che ha raccolto oltre 40 adesioni ancor prima del suo lancio pubblico durante la conferenza biennale tenutasi in Estonia nel 2014.

Si tratta di un segnale evidente della progressiva internazionalizzazione di un settore all’inizio minoritario non solo in seno all’antropologia, ma più in generale nelle cosiddette scienze dei disastri. Durante la lectio magistralis che ha tenuto in occasione della premiazione, Oliver-Smith ha evocato il clima dei suoi primi anni di ricerca, quando la convinzione generale era che le catastrofi rappresentassero accadimenti naturali, al massimo disgrazie, un risultato della cattiva sorte oppure il compimento dell’imperscrutabile volontà di Dio (Oliver-Smith 2013: 276). Poi ha ricordato il suo iniziale e duraturo coinvolgimento all’interno del Network di Studi Sociali nella Prevenzione dei Disastri in Latin America, LA RED, costituitosi nel 1992 per iniziativa di un gruppo di ricercatori abbastanza eterogenei per provenienza disciplinare e professionale, con diramazioni sia interne sia esterne all’accademia. Grazie al ruolo pubblico assunto sul campo «coniugando ricerca, pratica, cooperazione e advocacy politica» (Lavell et al. 2013: 429), negli ultimi vent’anni i promotori di LA RED si sono impegnati a trovare soluzioni concrete per la mitigazione del rischio in situazioni di acuta sofferenza sociale. Lo hanno fatto mostrando l’insostenibilità e le contraddizioni insite nelle relazioni uomo-ambiente e i presupposti discriminatori, intrinsecamente oppressivi dei processi di sviluppo economico promossi in svariati paesi del mondo; hanno inoltre contribuito non solo a un cambiamento paradigmatico nella comprensione dei disastri, ma anche al passaggio da un «management tecnocratico, top-down e centralizzato del rischio a approcci più comunitari, partecipativi e scaturiti dal basso» (Lavell et al. 2013: 429).

Nonostante il taglio critico e i contenuti provocatori della loro ricerca applicata, col tempo le figure trainanti del movimento di LA RED, compreso Anthony Oliver-Smith, si sono ritagliate uno spazio di espressione rilevante non solo tra le comunità e gli organismi, locali e nazionali, con i quali interagivano sul campo, ma anche nel circuito internazionale degli esperti dei disastri[3]. Ne è scaturita, a ogni buon conto, una progressiva depoliticizzazione. La “diluizione” del concetto di vulnerabilità sociale nei luoghi dove sono formulate le politiche globali ha fatto perdere alla nozione la sua valenza inerentemente critica: da condizione sistematicamente indotta è stata gradualmente trasformata in un tratto consustanziale a certi sistemi sociali. «Viene usata sempre più spesso, ma de-storicizzata», ha commentato con amarezza lo stesso Oliver-Smith (2013: 278), finendo per descrivere solo «un set di condizioni date» (Oliver-Smith 2013: 278).

In effetti, il forte afflato politico volto al cambiamento radicale delle cause di vulnerabilità determinanti le catastrofi, che era stato il tratto unificante tra gli anni Settanta e Ottanta del xx secolo, si è andato disperdendo nei decenni successivi. Il trend è iniziato in una fase in cui si sono moltiplicate le occasioni di visibilità e finanziamento per via della Decade Internazionale per la Riduzione del Rischio Disastri nel pianeta, lanciata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite negli anni Novanta. Un’interpretazione abbastanza convincente (Revet 2015) è che a determinare questa perdita di radicalità nello studio antropologico dei disastri – soprattutto di derivazione americana – abbia contribuito innanzitutto la standardizzazione dei saperi resa necessaria dalla sua progressiva incorporazione dentro circuiti più ampi e legittimati di studiosi dei disastri. Gli «assemblaggi globali» (Collier, Ong 2005) e le occasioni di collaborazione che ne sono conseguite hanno difatti permesso, soprattutto ai nomi più autorevoli nel settore, di prestare consulenza per numerose ONG internazionali (Oxfam, Pratical Action) oppure presso istituzioni e organismi quali la Banca Mondiale, UNISDR (United Nations International Strategy for Disaster Reduction), ICSU (International Council for Science) e l’Università delle Nazioni Unite.

Tuttavia, la progressiva istituzionalizzazione dell’antropologia dei disastri e gli interventi di policy che ne sono seguiti hanno suscitato, anche se in maniera intermittente, forti tensioni interne. Dibattiti circa la necessità di conservare uno spazio da ricercatori indipendenti hanno costellato l’intera vicenda e, a tratti, vengono riproposti; soprattutto quando si nota con preoccupazione la popolarità che concetti come quello di vulnerabilità e resilienza stanno assumendo all’interno delle agenzie umanitarie impegnate nei programmi di riduzione del rischio disastri nel mondo; una popolarità che in genere finisce per neutralizzare la portata critica di queste nozioni. In una fase in cui si assiste al dilagare di politiche neoliberiste che cercano di capitalizzare sui disastri (Klein 2007; Gunewardena, Schuller 2008), il discorso sul rischio e i “dispositivi” sociali di cui fa uso (Revet, Langumier 2015) accompagnano politiche e azioni di governo incentrate sulla delega. Buona parte delle responsabilità politico-istituzionali in tema di mitigazione del rischio sono, infatti, demandate a una società civile docilmente sensibilizzata a proteggersi autonomamente in caso di disastro (Benadusi 2014). D’altronde – lo hanno mostrato con forza e incisività Bourgois e Schonberg (2011: 366) in un altro contesto di vulnerabilità estrema – «i dibattiti e gli interventi di policy spesso mistificano i più ampi vettori di potere strutturale, finendo per stigmatizzare nuovamente i soggetti più deboli per i loro fallimenti» e «nonostante le buone intenzioni» intensificano le forze ben radicate che distribuiscono la vulnerabilità in modo ineguale nel mondo. L’insofferenza verso simili derive è riesplosa proprio recentemente nel corso della terza Conferenza Mondiale delle Nazioni Unite sulla Riduzione del Rischio Disastri, organizzata a Sendai, in Giappone, nel marzo 2015. Ben Wisner, uno dei promotori storici dell’approccio critico-applicativo allo studio dei disastri (Blaikie et al. 1994) ha commentato con toni sferzanti il nuovo Framework 2015-2030, ratificato durante la conferenza (UNISDR 2015). «Ci sono vite più vulnerabili di altre. Perché non si fa alcun cenno alle regioni e ai gruppi che affrontano le perdite maggiori?», ha domandato provocatoriamente Wisner (2015) a glossa del primo obiettivo programmatico, che si prefigge una riduzione sostanziale dei tassi di mortalità entro il 2030. «Non c’è niente che incoraggi iniziative che forzino i governi a rispondere di fronte alla comunità se non riescono a controllare gli abusi di risorse economiche e potere che incrementano il rischio legato ai disastri»[4].

I toni polemici di Wisner invitano a una riflessione. Nell’ultimo ventennio gli antropologi hanno visto moltiplicarsi le opportunità di partecipazione a quelle occasioni di «assemblaggio globale» (Collier, Ong 2005: 4-5) in cui si formano le riflessioni etiche e politiche, i saperi, le tecnicalità e i modi di intervenire in caso di catastrofe. Le interazioni che ne sono conseguite hanno stemperato la carica di cambiamento che inizialmente aveva contraddistinto il settore. Eppure, il moltiplicarsi delle possibilità d’incontro a livello internazionale ha anche prodotto occasioni di «frizione» inconsuete (Tsing 2005), capaci di estendere il ruolo pubblico degli antropologi nei disastri. È proprio in questa rinnovata arena pubblica che si ridestano, oggi, le tensioni interne al «piccolo mondo» delle catastrofi (Revet 2013); è qui che insorgono, periodicamente, nuove sfide alle “ecologie dell’expertise” (Ong 2005) che regolano gli attuali regimi di emergenza nel mondo. Paradossalmente l’internazionalizzazione del settore ha creato le premesse sia perché venisse depotenziato il suo radicalismo originario sia per dilatare lo spazio pubblico in cui far echeggiare un indefesso, indisciplinato criticismo.

Nelle pagine che seguono, passando per un confronto tra i saggi qui pubblicati e alcune esperienze significative sul fronte internazionale, illustrerò quelle che considero le tre direttrici principali che regolano oggi l’impegno pubblico dell’antropologo nei disastri: vivere, enunciare e agire la catastrofe.

L’impegno pubblico dell’antropologo nei disastri

Nel 2008 grazie al supporto della Wenner-Gren Foundation è stato realizzato un workshop sul ruolo dell’engagement in antropologiada cui è scaturito un numero tematico della rivista Current Anthropology, curato da Setha Low and Sally Engle Merry (2010). Qui si riflette criticamente sull’ampiezza di modus operandi cui può dar luogo un’antropologia che si definisce “impegnata” e sui dilemmi ancora aperti legati alla rilevanza pubblica della disciplina. Nell’inquadrare lo stesso tema all’interno di una riflessione sull’impegno dell’antropologo nei disastri anche noi abbiamo dato spazio a entrambi gli aspetti: varietà di impegno e comuni dilemmi. I saggi raccolti testimoniano dell’ampio spettro di declinazioni che può assumere oggi l’engagement per chi studia le catastrofi: dall’advocacy all’attivismo politico, dal lavoro di consulenza a fianco di organismi o istituzioni impegnati a mitigare le condizioni di sofferenza sociale indotte dai disastri sino alla collaborazione con comunità locali o movimenti collettivi insorti in fase ricostruttiva. Naturalmente ci sono forme di engagement più radicali di altre, come ha ricordato Pietro Saitta nel suo ruolo di discussant durante il convegno di Rimini; l’advocacy e l’attivismo politico hanno più facilmente un carattere «militante» (Scheper-Hughes 1995) o «partigiano» (Burawoy 2007). Allo stesso modo, è naturale che alcune modalità di coinvolgimento e collaborazione espongano più di altre l’antropologo a confrontarsi con problemi di carattere etico pressanti, specie quando gli interessi economici in campo e i dettami emergenziali dell’azione umanitaria risultano pervasivi (Palmisano 2014). Un approccio inclusivo e direi esplorativo c’è sembrato tuttavia, almeno in questa fase, più convincente della selezione rigida delle sole esperienze con un taglio inderogabilmente pubblico. L’intenzione era di tenerci al riparo (non sempre ci siamo riusciti) dall’opposizione pubblico/applicato, pratiche dal basso/pratiche dall’alto, egemonia/subalternità.

Farò un breve esempio. Quando un antropologo o un’antropologa collabora a un progetto di ricerca applicata, come Gianna Salome spiega nel suo saggio, di solito auspica che lavorando con un governo, un’istituzione o un’agenzia umanitaria si potrà rendere l’operato di queste organizzazioni in qualche modo più umano, più recettivo, capace di accogliere i punti di vista e le preoccupazioni di chi vive in condizioni di sofferenza e vulnerabilità. In fondo si è animati, in questi casi, da un bisogno non dissimile da chi accetta di porsi a fianco di movimenti auto-organizzati che rivendicano una più responsabile gestione dei rischi e degli aiuti. È evidente che in entrambe le circostanze l’antropologo potrebbe perdere il controllo rispetto ai modi d’impiego della sua ricerca, qualora venga manipolata dai soggetti collettivi con i quali collabora per scopi diversi da quelli che aveva inizialmente sperato (Colajanni 2014). A fare la differenza, quindi, tra pubblico e applicato non è tanto l’intenzione o i limiti che condizionano l’impegno sul campo, quanto le cornici di senso al cui interno si iscrivono le due esperienze. Entra qui in gioco una tensione implicita che ciclicamente riemerge nel dibattito antropologico quando si discute del nesso tra “applicazione” e “impegno pubblico”. Il modo di inquadrare i problemi che affliggono le popolazioni soggette al rischio di disastri può restringere lo spettro di soluzioni individuate, riducendo la possibilità di apportare cambiamenti significativi nei contesti di intervento (Borofsky 2011; Low, Merry 2010; Bourgois 2006). È più facile che chi svolga un ruolo come ricercatore applicato dentro organismi istituzionali o agenzie umanitarie si trovi imbrigliato, gioco forza, all’interno di cornici semantiche e dispositivi d’azione già dati, che faticosamente l’antropologo riesce a mettere in discussione. Chi assume un ruolo pubblico a fianco di movimenti e organizzazioni della società civile, invece, è in una posizione che lascia un agio maggiore nello sfidare le cornici di senso che supportano la definizione dei problemi su cui tutti, specialmente nel mondo dei disastri, hanno urgenza di intervenire. Lo svantaggio di partenza, tuttavia, non preclude ai primi la possibilità di erodere il framework semantico che tende a incapsulare il loro stesso operato e di farlo con incisività.

Al di là che i casi qui presentati protendano verso una declinazione pubblica dell’engagement antropologico o viceversa siano più applicativi, gli autori sono animati da alcune convinzioni comuni: qualsiasi forma di partecipazione, orientata beninteso teoricamente, in azioni politiche o interventi sociali volti alla riduzione del rischio disastri dovrebbe soffermarsi sui problemi veramente importanti per quanti fanno esperienza diretta di una catastrofe, piuttosto che approfondire esclusivamente problematiche rilevanti per la disciplina; è inoltre utile adottare quello che Forman (1993) ha definito un «criticismo empiricamente fondato» (Forman 1993: 298) che consenta all’antropologo di sfidare, se necessario, i dispositivi semantici e i metodi di ingegneria sociale su cui si sorregge il governo dei disastri; infine, la portata di qualsiasi azione conoscitiva di taglio critico-applicativo, pur con tutti i limiti del caso, dovrebbe cercare di esprimersi in ambiti più ampi e in modi più fruibili di quelli in uso nel mondo accademico.

Facendo leva su questi denominatori comuni, i saggi qui raccolti si differenziano poi, anche considerevolmente, per campi di studio, modulazioni agentive, livelli di coinvolgimento e posizionamenti (teorici e pratici), a testimonianza della natura tutt’altro che univoca dell’impegno pubblico e applicativo che esprimono gli antropologi nei disastri. D’altronde, recentemente lo hanno ricordato Checker, Davis e Schuller (2014: 409), «il mondo reale sempre più coinvolge gli antropologi in forme di impegno disordinate, dove i ruoli non sono netti e rigidi»: studioso, insegnante, attivista, cittadino, a volte sopravvissuto. Questa moltiplicazione di ruoli e responsabilità richiede continui, difficili slittamenti, che possono essere influenzati da una serie di fattori, non da ultimo il modo peculiare in cui il disastro si iscrive nel percorso biografico e professionale dell’antropologo.

Vivere il disastro. Sopravvissuti o testimoni?

Non è inconsueto che l’incontro dell’antropologo con il disastro avvenga in uno spazio privato, personale. Lo chiarisce Antonello Ciccozzi (2013: 21-34) raccontando la sua esperienza di terremotato all’Aquila: la catastrofe può invadere le «stanze» intime dell’antropologo prima che questi si renda conto di cosa sia successo nelle stanze altrui. Tra le figure che hanno svolto un ruolo pionieristico nell’antropologia dei disastri, alcune hanno vissuto la stessa esperienza di Ciccozzi. Susanna Hoffman, ad esempio, ha cominciato a studiare le catastrofi a seguito dell’incendio che nel 1991 distrusse oltre 3.000 abitazioni e più di 450 appartamenti nelle colline alle spalle di Oakland e Berkeley, in California. Perse tutto nel corso del disastro, casa, automobile, indumenti, ricordi, fotografie, libri, taccuini, «venticinque anni di lavoro sul campo bruciati via in poche ore»[5], mi ha confidato mentre pranzavamo assieme dopo una conferenza. Dolore, angoscia, paura, rabbia, frustrazione e senso d’impotenza accompagnano la particolare, violenta «curvatura dell’esperienza» (Piasere 2002: 28-57) degli antropologi sopravvissuti a un disastro, condizionandone immancabilmente l’esistenza da cittadini, genitori, figli, intellettuali, ancor prima che accademici. Ne parla Irene Falconieri nel suo contributo in questo volume Vivere, comprendere e agire la catastrofe. È la sua personale esperienza di “miracolata” durante l’alluvione di Messina del 2009, quando scampò al gorgo di fango e detriti, a determinare «prepotentemente» (p. 48) un insolito, denso percorso di autoanalisi, impegno civico e ricerca; è il bisogno di trasformarsi da vittima in «soggetto politico attivo»(p. 48) a spingere Falconieri a impegnarsi nel direttivo di un nascente comitato cittadino, a virare la sua tesi di dottorato per studiare quanto stava succedendo, e ancora a offrire una consulenza informale nel corso degli “smottamenti” politico-elettorali seguiti all’alluvione nel suo comune di residenza. Anche nel contributo di Enrico Petrangeli è l’esperienza dell’esondazione del Paglia, nel 2012, a spingere l’antropologo-residente a immaginare un’«etnografia civica» (p. 79) nel disastro, motivandolo a mettersi a capo di un’associazione territoriale, Val di Paglia Bene Comune. Qui, tuttavia, sembra che l’esperienza personale del disastro non sia ancora approdata, almeno non pienamente, in uno sforzo consapevole di ricercare nelle “stanze degli altri” per comprendere attraverso una necessaria presa di distanza etnografica le vicende descritte.

Altre volte l’incontro con il disastro avviene invece in forma indiretta. Non è l’“essere qui” nei propri spazi intimi e famigliari a venire stravolto dalla catastrofe, ma l’“essere là” dell’antropologo sul campo. Oliver-Smith era in procinto di tornare a Yungay, in Perù, per la sua tesi di dottorato sui mercati contadini, quando nel 1970 un terremoto provocò il collasso del versante settentrionale del monte sovrastante la città. Ci sono voluti solo quattro minuti per radere al suolo sotto una valanga di massi e ghiaccio l’intero centro abitato; l’area fu ribattezzata Valle della morte (Oliver-Smith 1986). «Torna subito a Yungay», suggerì a Oliver-Smith il suo supervisor, «è importante studiare cosa sta succedendo» (Oliver-Smith 2013: 276). Anche Edward Simpson aveva già vissuto nel Gujarat negli anni del dottorato, prima che nel 2001 un terremoto e poi un’ondata di aiuti umanitari stravolgessero la vita quotidiana delle persone che aveva conosciuto sul campo, spingendolo a tornare in quei luoghi (Simpson 2013: 1). Nelle giornate del convegno di Rimini un’esperienza simile è stata raccontata da Gregorio Serafino, che si trovava nella regione della Montaña di Guerrero, in Messico, per motivi di ricerca quando, nel 2013, un’ondata di piogge torrenziali seppellì sotto il fango intere comunità, rendendo la regione completamente inaccessibile per settimane. Da qui scaturisce nell’antropologo la determinazione a partecipare attivamente alle operazioni di soccorso e al dibattito pubblico sulle gravi conseguenze del disastro, poi l’idea di indagare le strategie di ordine sociale e religioso messe in atto dai gruppi indigeni costretti a un’emergenza senza precedenti. Non sono pochi gli etnografi che negli anni si sono trovati in circostanze simili, con i loro abituali luoghi di ricerca improvvisamente perturbati da avvenimenti disastrosi, da operazioni di soccorso o dalla macchina internazionale degli aiuti: Gianluca Ligi con i Sami, Michele Gamburd in Sri Lanka, Mark Schuller ad Haiti. Lo suggerisce bene Tommaso Sbriccoli (2014), l’antropologo si trova in queste circostanze a metà strada tra un «osservatore esterno» e, per dirla con il linguaggio di uno psicologo del trauma, una «vittima di secondo livello». Considerata la nostra professione, che ci espone a sviluppare attaccamento e intimità con le comunità studiate, il primo istinto è in questi casi quello di «buttarsi a capofitto dentro la crisi» (Checker et al. 2014: 408).

Naturalmente, per molti di noi l’incontro con la catastrofe è avvenuto in modo meno involontario e accidentale, anche se mediato dal riverbero televisivo che sempre più spesso accompagna gli eventi cataclismatici. Il mio interesse verso il tema dei disastri, ad esempio, è nato sull’onda dello shock e della compassione suscitate dalla notizia dell’imponente onda anomala dell’Oceano Indiano, nel 2004. La sensazione di sentirsi risucchiati nel mezzo degli eventi prodotta dalle immagini televisive è probabilmente il primo, chiaro ricordo che collego a quello che è poi diventato l’argomento di una ricerca prolungata sul campo (Benadusi 2012; 2013; 2015a; 2015b). Anche Gianna Salome nel suo contributo in questo volume spiega come nell’inchiesta etnografica condotta sull’emergenza abitativa post-sisma a Port-au-Prince fosse inizialmente condizionata da un «immaginario di sofferenza, distruzione, insicurezza» (p. 96), dovuto al repertorio massmediatico che aveva accompagnato gli eventi. Poi, chiarisce il suo coinvolgimento prima come testimone, quindi come consulente reclutata da una ONG in loco.

In campi come quelli appena descritti, esposti a forme di violenza cronica e dispostivi d’intervento basati sull’urgenza e il diritto d’ingerenza, una posizione da osservatore indipendente può rivelarsi, alla prova dei fatti, difficilmente praticabile, se non controversa. Lo ha ricapitolato bene George Marcus (2010) commentando un vasto spettro di etnografie contemporanee: negli attuali stati di emergenza, il consulente esperto, il reporter e il testimone sembrano spesso le uniche identità plausibili per un soggetto che s’introduce dall’esterno nel mezzo degli eventi. Secondo Marcus, tra le tre posture a garantire maggiormente la presa etnografica sul campo è stata, negli ultimi vent’anni, quella del testimone. Questa posizione, tuttavia, non è esente da ambiguità, anche se offre all’antropologo l’illusione di conservare uno spazio d’autonomia senza rinunciare al coinvolgimento e al rispetto di sé. L’essere testimoni compartecipi in scenari compromessi dalla violenza spinge l’etnografo a rispondere all’imperativo morale di mantenersi “un passo in là” da chi osserva con il distacco e disinteresse dell’esperto, ma anche un “passo in qua” da chi decide di intervenire con un ruolo proattivo in medias res; non è quindi nell’accezione giudiziaria ma in quella sacrale che la testimonianza è stata più frequentemente assunta dagli antropologi sul campo (Marcus 2010).

Enunciare il disastro. Antropologia e Advocacy

L’etica della testimonianza in situazioni di sofferenza acuta causate dai disastri può dar luogo a scelte più radicali di quelle finora contemplate, specialmente in casi di mancato o ineguale soccorso, quando avviene una dislocazione o rilocazione coatta delle popolazioni colpite, oppure se la distribuzione degli aiuti dà luogo a pratiche discriminatorie o disoneste. Tuttavia, le circostanze che più si prestano all’emergenza di uno schieramento radicale dell’antropologo sul campo sono quelle in cui le misure di risarcimento nei confronti delle vittime sono inadeguate al danno subito, se c’è stata una responsabilità pubblica o privata nella catastrofe. Si entra in questi casi nel dominio dell’advocacy, laddove l’antropologo presta testimonianza diretta in tribunale a difesa di quanti sono sopravvissuti al disastro oppure, senza ricoprire il ruolo di esperto all’interno di un procedimento legale, usa comunque l’antropologia per supportare gruppi che sono coinvolti in battaglie di natura giudiziaria o politica.

Nell’antropologia dei disastri l’esperienza più nota di advocacy anthropology è quella condotta da Kim Fortun (2001) a Bhopal, dopo il terribile incidente occorso allo stabilimento chimico dell’Union Carbide nel 1984, uno dei più gravi disastri industriali del xx Secolo. L’assunto relativista secondo cui per un antropologo nessuna causa può essere in alcun modo “giusta” o “sbagliata” e l’obbligo morale di perorarne una in particolare è sostanzialmente incompatibile con la ricerca etnografica (Hastrupp, Elsass 1990) viene qui vanificato grazie a un sedimentato lavoro di terreno, convincente sia dal punto di vista teorico che metodologico. Senza mai cadere nelle retoriche di una posizione eroica sul campo, l’antropologa analizza l’advocacy (la propria come quella praticata dalla pluralità di attori con cui si confronta) per comprendere i meccanismi che definiscono il riassetto dell’ordine globale in materia di contaminazione e rischio tecnologico. Partendo dalle storie delle vittime e passando per una serie di conversazioni intrattenute, sia in India sia negli Stati Uniti, con attivisti dei movimenti di giustizia ambientale, dirigenti delle corporazioni e multinazionali dell’industria chimica e avvocati assoldati dalle parti coinvolte nel processo, Fortun mette in questione le nozioni convenzionali di responsabilità e condotta etica, rivelando tanto le speranze quanto le frustrazioni del ruolo dell’advocacy in antropologia. Advocay after Bhopal, che molti commentatori annoverano tra le etnografie più potenti del xxi secolo (Fisher in Faubion, Marcus 2009: VII-XIV), riesce così a interconnettere i linguaggi dell’antropologia e quelli dell’advocacy in un’efficace e densa narrazione in cui si spazia dalla pamphlettistica politica alle note di campo, dai responsi giudiziari alle interviste, dalle petizioni legali agli articoli giornalistici, alle lettere rivolte ai ministri, ai report scritti sullo stato di salute delle famiglie. Il disastro di Bhopal diviene così una sorta di «prisma» capace di rendere visibile un ordine mondiale in continuo movimento (Fortun 2001: 10). Le modulazioni e i toni di advocacy nati in risposta alla gestione della catastrofe finiscono, infatti, per condizionare gli sviluppi più attuali dell’ambientalismo globale.

Per analizzare i diversi soggetti collettivi che germinano, si attivano, prendono forma nel contesto post-catastrofe, Fortun usa il concetto di «comunità enunciative», che le permette di superare i limiti analitici di nozioni troppo spesso abusate, come quella di stakeholder. A formare una comunità enunciativa possono essere gruppi di vittime localizzate o disperse, attivisti ambientali che operano su scala regionale, nazionale o transnazionale; in alcuni casi queste comunità riescono a includere al loro interno anche ufficiali governativi e perfino rappresentanti delle corporazioni industriali; spesso ne fanno parte professionisti del mondo legale o medico e perfino antropologi, come nel caso di Fortun. Per quanto sia frequente riscontrare una certa condivisione d’interessi, non necessariamente esiste una reale convergenza semantica nel definirli e neppure un accordo sui modi più utili per perseguire i propri fini. Trattandosi di campi di forze contradditori che si configurano strategicamente in funzione del disastro, Fortun suggerisce che, piuttosto che da valori condivisi o da una stessa cultura d’appartenenza, questi movimenti di carattere enunciativo siano tenuti insieme da una risposta temporanea ai «paradossi» specifici generati dalla catastrofe (Fortun 2001: 11).

Pensiamo per un momento al terremoto dell’Aquila in Italia, che ha creato una situazione talmente contraddittoria da ingenerare quei «doppi legami» che – secondo Fortun – rappresentano la molla per la fondazione di comunità enunciative. All’Aquila la popolazione è rimasta scissa tra l’adesione a una «cultura antropologica locale», che incoraggiava ad adottare misure di sicurezza in caso di scosse sismiche rilevanti, e la fedeltà ai messaggi rassicuranti veicolati dai rappresentati autorevoli della scienza, che suggerivano invece di rimanere nelle proprie abitazioni (Ciccozzi 2013). Gli individui si sono quindi confrontati con obbligazioni «pesate allo stesso modo ma incongruenti» (Fortun 2001: 13), intrappolati nella dinamica del doppio legame. È proprio il carattere paradossale di simili situazioni a fungere da detonatore per la formazione di convergenze tra individui e organizzazioni che, nello sforzo di dar senso al disastro e risolvere i suoi dilemmi, esprimono nell’arena pubblica una ricca modulazione di stili e strategie di advocacy, finendo per allinearsi, sovrapporsi e perfino collidere tra loro. Il genere di advocacy che Fortun analizza non si limita, tuttavia, alla semplice proposizione con cui si difende una causa o si parla in rappresentanza di una parte lesa. Disastri come quello occorso a Bhopal rappresentano, infatti, un’agorà dove i contendenti non litigano solo per affermare la loro particolare visione su cosa è accaduto e come i fatti sarebbero dovuti andare per evitare il precipitare degli eventi, in quel determinato contesto e nelle circostanze date. I paradossi su cui si arrovellano e scontrano le comunità enunciative insorte a seguito della catastrofe sfuggono a qualsiasi tentativo che vorrebbe circoscriverli in tempi e luoghi specifici, come se si trattasse di “incidenti” che non potrebbero in alcun modo verificarsi altrove. Le forze e gli interessi in gioco svelano, infatti, i dislivelli e le asimmetrie di potere che sorreggono l’ordine globale.

La nozione di comunità enunciative ha il merito di sgretolare l’immagine di una società che preesiste statica al disastro, una comunità consensuale e omogenea che cerca di ristabilire il suo assetto organizzativo a seguito della catastrofe. Permette, inoltre, di osservare la formazione di nuovi soggetti collettivi e i riaggiustamenti dinamici di gruppi già esistenti in risposta al disastro, descrivendo le diverse epistemologie, narrazioni e forme di advocacy che questi manifestano o che l’antropologa adotta in prima persona. Approssimarsi alla lettura dei saggi contenuti in questo numero di Antropologia Pubblica avendo la nozione di Fortun bene in mente aiuta a contestualizzare nel modo migliore non solo la concezione di disastro che ispira gli autori dei saggi, ma anche le varie forme di movimentismo civico, gli stili discorsivi e il tono delle rivendicazioni delle comunità studiate: comunità che si auto-enunciano in uno sforzo rigenerativo dopo il disastro, formando allineamenti d’interessi temporanei, disorganici, spesso conflittuali. Irene Falconieri descrive l’insorgere di comitati a seguito dell’alluvione messinese del 2009 e il riassestamento dinamico delle coalizioni politiche a Scaletta Zanclea. Silvia Pitzalis e Rita Ciccaglione delineano i contorni contrastanti dell’attivismo civico nella Bassa emiliana dopo il terremoto del 2012: da un lato le rivendicazioni politiche anti-istituzionali del comitato di terremotati Sisma.12, dall’altro le strategie di revival e rifunzionalizzazione della storicità in termini di consumo messe in atto dai commercianti di Mirandola. Anche nel contributo di Enrico Petrangeli, quando all’indomani della piena del fiume Paglia, in prossimità di Orvieto, la disperazione e la rabbia dei residenti cominciano a decantare in rivendicazioni confuse contro le istituzioni, minacce di querele e assemblaggi di cittadini in protesta, la scena del disastro diventa un luogo di “enunciazioni” epifaniche. L’obiettivo di ottenere risarcimenti dalle amministrazioni o di difendere interessi corporativi e territoriali ingenera nuovi assembramenti politici e forme associative che l’autore ci restituisce nella loro irrisolta eterogeneità: dai comitati più radicali ai gruppi di lotta ambientalista. Perfino nella compromessa scena post-sismica di Port-au-Prince, descritta da Gianna Salome nel suo saggio, dove più invasivo sembra il ruolo assunto dagli attori esterni, vediamo coagularsi e sovrapporsi una pluralità di esperienze aggregative nell’abitare, dalle tendopoli ai campi di sfollati, dagli spazi occupati alle case transitorie, zone d’interconnessione in cui è l’enunciazione di una comune identità, l’esser vittima, a fare da temporaneo collante.

Per quanto ai sopravvissuti di un disastro possa essere negata la possibilità di azione e spesso la propria stessa soggettività, il ruolo dell’advocacy si sta progressivamente allontanando da quello di chi interviene pubblicamente per parlare “a nome di altri”. Come il lavoro più che decennale di Fortun a Bhopal dimostra bene, l’advocacy sta assumendo forme più ibride e traversali di quelle praticate in passato, che prevedono un coinvolgimento attivo da parte delle comunità coinvolte e un ruolo meno paternalistico e più collaborativo dell’antropologo sul campo.

Agire il disastro. Attivismo e collaborazione

Già alla fine degli anni Sessanta del Novecento Dell Hymes (1979) suggeriva che si potesse parlare di antropologia pubblica ogni qual volta un ricercatore prendeva le distanze dal mondo accademico per mettersi a lavorare attivamente con i gruppi studiati, perfino assumendo un ruolo propositivo come membro. Da questo punto di vista, l’attivismo sul campo è in fondo un’«estensione logica dell’impegno alla reciprocità che caratterizza la pratica antropologica» (Sanford, Angel-Ajani 2006: 210). Naturalmente quando in gioco c’è un coinvolgimento, come antropologo ma anche come cittadino che afferma il suo allineamento etico-politico con un gruppo organizzato nelle sue battaglie, si creano due forme di fidelizzazione: verso la propria disciplina e verso la causa del gruppo studiato. Questa duplicità, che nel nostro volume vediamo espressa soprattutto da Irene Falconieri, Enrico Petrangeli e Silvia Pitzalis, comporta sia rischi sia opportunità, che è bene valutare attentamente senza incorrere in idealizzazioni e toni romanzati. I campi in cui più spesso si riscontra un impegno degli etnografi come attivisti sono oggi la guerra, le battaglie di giustizia ambientale, i diritti umani, le situazioni di violenza e sofferenza sociale acuta, spesso ingenerate dai disastri (Beck, Maida 2013). Nell’agire negli scenari del disastro, infatti, si possono sviluppare varie forme di collaborazione tra l’etnografo e le comunità presso cui svolge ricerca; i saggi raccolti in questo volume ce ne danno soltanto una parziale esemplificazione.

Un’analisi comparativa di quanto si è sperimentato su scala internazionale dimostra che in questi casi l’accesso alle conoscenze prodotte grazie all’antropologia, in genere, si amplifica. Il terremoto di Haiti del 2010 e il disastro “a cascata” che ha colpito il Giappone nel 2011 sono stati gli eventi più recenti in cui si è assistito a un forte coinvolgimento pubblico della comunità antropologica nel disastro, e a un allargamento degli spazi di risonanza dell’antropologia. Come già era accaduto a Bhopal, sono stati promossi vari modi di lavorare collaborativamente invece che in modo gerarchico con le comunità colpite, dalla costituzione di archivi digitali per raccogliere le memorie “silentizzate” delle vittime, alla co-produzione di filmati documentari per denunciare le iniquità nella distribuzione degli aiuti, passando per manifestazioni artistico-performative, gruppi di attivismo studentesco e reportage fotografici rivolti al grande pubblico[6]. Molti degli antropologi che si sono spesi in tal senso hanno cercato di tradurre il disastro non solo nei linguaggi dell’antropologia, ma anche in quelli della legge, della scienza, del giornalismo, della burocrazia; si sono sforzati di insegnare e usare le conoscenze derivate dall’etnografia in modo creativo e collaborativo, lavorando a fianco alle comunità nelle loro rivendicazioni in nome della giustizia sociale, della salute pubblica, della sopravvivenza dopo il disastro.

Per quanto il risvolto etico-applicativo di queste forme di attivismo antropologico sia abbastanza chiaro e difficilmente contestabile in simili circostanze, non pochi sono i dilemmi che restano aperti, come ha rimarcato auto-riflessivamente anche chi si è reso protagonista di simili esperienze. Penso al caso di Mark Schuller e al suo impegno nella scena post-sismica haitiana, di cui si legge anche nel contributo di Gianna Salome in questo volume. Schuller aveva già avuto un ruolo da antropologo pubblico a Haiti prima del terremoto, mentre svolgeva il suo dottorato di ricerca; aveva collaborato con una radio locale indipendente nella fase più acuta della crisi politico-economica antecedente alla cancellazione del debito nazionale; svolto un ruolo organizzativo di base in molte azioni di movimentismo civico nate sia dentro che fuori l’accademia; collaborato con gruppi marginalizzati nello sforzo di denunciare i meccanismi di potere che mantenevano in vita le ineguaglianze sociali nel paese. Aveva anche co-diretto e co-prodotto un documentario etnografico, Poto Mitan, che dopo il sisma ha avuto un ampio riscontro presso il pubblico internazionale, in cui gli attivisti locali parlavano con la loro voce dei loro problemi (Schuller 2010).

Schuller ci spiega con estrema efficacia un percorso da attivista a ricercatore applicato fino a un coinvolgimento più “classico” come antropologo universitario. Nel corso di questa traiettoria biografica si rende conto che da accademico poteva offrire una legittimità alle lotte per la giustizia sociale dei suoi interlocutori haitiani maggiore di quanto fosse riuscito a fare da semplice attivista. Nonostante la sua posizione universitaria si prestasse maggiormente alla causa haitiana, Schuller confessa però di essere rimasto comunque un«insider without», una persona che condivide intimamente un dato contesto di vita e le sue problematiche, ma che gode – è importante non scordarlo – di un privilegio ben maggiore delle persone che gli stanno a fianco; e tuttavia, l’influenza che sa di poter esercitare non è sufficiente per fare veramente «la differenza per loro»: l’antropologo non possiede abbastanza potere (Schuller 2014). In fondo, riflette Schuller, «chi ci guadagna di più dal coinvolgimento a fianco delle vittime e dei vulnerabili è soprattutto lui, l’antropologo» (Schuller 2014: 410). «Alla fine – scrive – mi sto trasformando sempre più in una delle ONG che prima criticavo dalla mia torre di avorio, sono il primo beneficiario del mio attivismo» (Schuller 2014: 410).

Dello stesso disagio parla anche l’antropologa americana Melissa Checker (2014) quando decide di assumere un ruolo da attivista dopo la super tempesta Sandy, nell’ottobre del 2012, mettendoci in guardia circa il rischio di pensarci o essere pensati come dei «supereroi», creando attese che non possono essere assolte: «In realtà l’attivismo può essere un modo per collezionare informazioni densamente utili più all’antropologo che alle persone con cui si schiera» (Checker 2014: 418). Sia che il proprio attivismo venga posto al servizio di gruppi con cui si condivide una comune identità in quanto “nativi” (come in questo volume è il caso di Irene Falconieri e Enrico Petrangeli), sia quando lo si fa per supportare gli altri in un processo di empowerment che migliori le loro condizioni di vita e dia maggior potere alla comunità (come nel caso di Silvia Pitzalis), l’interesse personale dell’antropologo sul campo non può in alcun modo essere sottaciuto. Inoltre, se è vero che l’approccio relativista così caro all’antropologia spesso «frena la nostra capacità di scrivere contro l’ingiustizia» (Bourgois 2006: XI), è altrettanto vero che una pratica etnografica tutta rivolta alle classi sociali che vivono in condizioni di estrema vulnerabilità e in posizioni maggiormente esposte alla violenza strutturale, non può esimerci dall’analizzare da vicino anche l’operato del potere istituzionalizzato, proprio come Laura Nader (1979) suggeriva di fare all’antropologo applicato anni addietro.

In tal senso le considerazioni che fa Giovanni Gugg, nel suo saggio, risultano quanto mai utili alla riflessione che vogliamo porre in questo primo numero di Antropologia Pubblica: all’etnografo che opera nei disastri è richiesta «un’ambivalenza, una sorta di ubiquità» – dice Gugg (p. 116) – che, a seconda dei tempi della ricerca e delle circostanze date, possa consentirgli di lavorare su fronti diversi, vuoi per alimentare «una rielaborazione inedita» della pianificazione, della prevenzione del rischio e dei disastri in chiave «partecipativa, dinamica e radicale» nei territori, vuoi per analizzare gli strumenti normativi e tecnico-operativi a livello istituzionale, entrando «nelle stanze in cui gli scenari del futuro condizionano il presente, confidando nella solidità deontologica di ogni singolo antropologo e nella sua capacità di distanziamento professionale» (p. 121)[7]. L’impegno attivo dell’antropologo nei disastri, aggiungerei, rischia di essere cacofonico e doppiamente narcisistico perché, alla resa dei fatti, poco incisivo se non s’ingaggia anche la teoria antropologica in modi che siano rilevanti sia per la disciplina sia le persone che studiamo. Da questo punto di vista, la sfida di un’antropologia pubblica negli attuali scenari della catastrofe è di dare all’etnografia un mordente politico senza rinunciare alla sua profondità teorica e a una postura dimessamente auto-riflessiva. Laddove risulti possibile, l’antropologo dovrebbe tentare di vivere, enunciare e agire nella catastrofe moltiplicando l’uso di linguaggi, posizionamenti, interlocutori e pubblici, nella speranza che questa polimorfia lo aiuti nel mettere a punto saperi e pratiche che siano utili a promuovere non solo esercizi accademici intellettualmente e politicamente soddisfacenti, ma anche interventi sociali capaci veramente di “disfare” le decisioni pubbliche sempre più insensate che vengono prese in nome dei disastri.

Per il loro carattere totalizzante le catastrofi sono oggetti antropologici “buoni da pensare”, investono ogni sfera della vita umana, permettono di osservare continuità e rotture, mettono in connessione il globale e il locale, obbligano a speculare sul passato e a mantenere, allo stesso tempo, uno sguardo proteso verso l’avvenire, e – non meno importante – permettono di intersecare campi d’indagine cruciali per l’antropologia contemporanea: l’umanitario, l’ambiente, il neoliberismo, l’analisi delle istituzioni e del conflitto sociale. Perché si possa parlare di un’antropologia pubblica nei disastri criticamente applicata, tuttavia, bisogna che anche le pratiche degli antropologi in questi scenari siano “abbastanza buone” non solo da pensare ma soprattutto da replicare, specialmente se si vuole scongiurare il rischio che avvenimenti tanto drammatici e al tempo stesso teatrali come le catastrofi tornino a presentarsi due volte; Marx direbbe: «la prima come tragedia, la seconda come farsa» (Marx 1974: 43).

Bibliografia

AA.VV. 2009. L’Aquila 2010: dietro la catastrofe. Numero monografico di Meridiana 65-66.

Beck, S., Maida, C.A. (eds). 2013. Toward Engaged Anthropology. New York, Oxford. Berghahn Books.

Benadusi, M. 2012. «The Politics of Catastrophe: Coping with ‘Humanitarianism’ in Post-Tsunami Sri Lanka», in The Politics and Policies of Relief, Aid and Reconstruction. Contrasting Approaches to Disasters and Emergencies, (ed) F. Attinà. New York. Palgrave Macmillan: 151-172.

Benadusi, M. 2013. The Two-faced Janus of Disaster Management: Still Vulnerable yet Already Resilient. South East Asia Research, special issue Life After Collective Death: Part 2, 21: 419-438.

Benadusi. M. 2014. Pedagogies of the Unknown: Unpacking ‘Culture’ in Disaster Risk Reduction Education. Journal of Contingencies and Crisis Management, 22 (3): 174-183.

Benadusi, M. 2015a. “Cultivating Communities after Disaster: A Whirlwind of Generosity on the Coasts of Sri Lanka”, in Governing Disasters: Beyond Risk Culture, (eds) S. Revet, J. Langumier. London. Palgrave Macmillan: 87-126.

Benadusi, M. 2015b. Evocare il disastro. Regimi di verità e falsificazione a ridosso del maremoto (Sri Lanka 2005-2013). Etnografia e ricerca qualitativa, 2: 235-257 (in corso di pubblicazione).

Benadusi, M., Brambilla, C., Riccio, B. (a cura di) 2011. Disasters, Development and Humanitarian Aid. New Challenges for Anthropology. Rimini. Guaraldi.

Blaikie, P., Cannon, T., Davis, I., Wisner, B. 1994. At Risk: Natural Hazards, Peoples’ Vulnerability and Disasters. London. Routledge.

Borofsky, R. 2011. Defining Public Anthropology: A Personal Perspective. Center for a Public Anthropology. http://www.publicanthropology.org/public-anthropology/ (sito internet consultato in data 22/07/2015).

Bourgois, F. 2006. «Foreword. Anthropology in the Global State of Emergency», in Engaged Observer: Anthropology, Advocacy and Activism, (eds) V. Sanford, A. Angel-Ajani. Rutgers. Rutgers University Press: ix-xii.

Bourgois, F. Schonberg, J. 2011. «Conclusioni. Applicazione critica dell’antropologia pubblica», in Reietti e Fuorilegge. Antropologia della violenza nella metropoli americana, F. Bourgois, J. Schonberg. Roma. Derive Approdi: 366-396.

Burawoy, M. 2007. Per la sociologia pubblica. Sociologica, 1: 1-45.

Carnelli, F., Paris, O., Tommasi, F. a cura di. 2012. Sismografie. Ritornare a L’Aquila mille giorni dopo il sisma. Arcidosso (GR). Edizioni Effigi.

Checker, M. 2014. Anthropological Superheroes and the Consequences of Activist Ethnography. American Anthropologist, 11: 416-419.

Checker, M., Davis, D.A., Schuller, M. 2014. The Conficts of Crisis: Critical Reflections on Femminist Ethnography and Anthropological Activism. American Anthropologist, 11: 408-409.

Ciccarelli, R. 2012. «Prefazione», in Sismografie. Ritornare a L’Aquila mille giorni dopo il sisma, (a cura di) F. Carnelli, O. Paris, F. Tommasi. Arcidosso (GR). Edizioni Effigi: 7-10.

Ciccozzi, A. 2013. Parola di scienza. Il terremoto dell’Aquila e la Commissione Grandi Rischi: un’analisi antropologica. Roma. Derive Approdi.

Colajanni, A. 2014. Ricerca “pura” e ricerca “applicata”. Antropologia teoretica e antropologia applicativa a un decennio dall’inizio del terzo millennio. DADA Rivista di Antropologia post- globale, speciale 2: 25-40.

Collier, S.J., Ong, A. 2005. «Global Assemblages: Anthropological Problems», in Global Assemblages: Technology, Politics, and Ethics as Anthropological Problems, (eds) S.J. Collier, A. Ong. Oxford. Blackwell: 3-21.

Faubion, J.D., Marcus, G.E. (eds). 2009. Fieldwork is Not What it Used to Be: Learning Anthropology’s Method in Time of Transition. Ithaca, N.Y. Cornell University Press.

Forman, S. 1993. Diagnosing America: Anthropology and Public Engagement. Ann Arbor. University of Michigan Press.

Fortun, K. 2001. Advocacy after Bhopal: Environmentalism, Disaster, New Global Order. Chicago. The University of Chicago Press.

Gunewardena, N., Schuller, M. (eds). 2008. Capitalizing on Catastrophe: Neoliberal Strategies in Disaster Reconstruction (Globalization and the Environment). Lanham, Md. AltaMira Press.

Hastrup, K., Elsass, P. 1990. Anthropological Advocacy. A Contradiction in Terms? Current Anthropology, 31(3): 301-311.

Hewitt, K. (ed) 1983. Interpretations of Calamity: From the Viewpoint of Human Ecology.Boston. Allen and Unwin.

Hewitt, K. 1995. Excluded Perspectives in the Social Construction of Disaster. International Journal of Mass Emergencies and Disasters, 13: 317-340.

Hymes, D., (a cura di). 1979 [l969]. Antropologia radicale. Milano. Bompiani.

Klein, N. 2007. Shock economy. L'ascesa del capitalismo dei disastri. Milano. Rizzoli.

Lavell, A., Brenes, A., Girot, P. 2013. «The Role of LA RED in Disaster Risk Management in Latin America», in World Social Science Report 2013: Changing Global Environments, (ed) ISSC/UNESCO. OECD Publishing and UNESCO Publishing: 429-433.

Ligi, G. 2009. Antropologia dei disastri. Roma. Laterza.

Low, S.M., Merry, S.E. (eds). 2010. Engaged Anthropology: Diversity and Dilemmas. Current Anthropology, 51(S2): 1-24.

Marcoré, E. 2005. Abitare a Nocera Umbra dopo il terremoto del 1997. Tesi di Laurea Specialistica in Discipline Etno-Antropologiche. Università di Roma “La Sapienza”.

Marcus, G.E. 2010. «Experts, Reporters, Witnesses: The Making of Anthropologists in States of Emergency», in Contemporary States of Emergency: The Politics of Military and Humanitarian Interventions, (eds) M. Pandolfi, D. Fassin. New York. Zone Books: 357-378.

Marx, K. 1974 [1852]. Il 18 Brumaio di Luigi Bonaparte. Roma. Editori Riuniti.

Nader, L. 1979 [1969]. «Antropologia cambia rotta! Prospettive dello studio di chi sta in alto», in Antropologia radicale, (a cura di) D. Hymes. Milano. Bompiani: 275-299.

O’Keefe, P., Westgate, K, Wisner, B. 1976. Taking the Naturalness Out of Natural Disasters. Nature 260 (5552): 566-567.

Oliver-Smith, A. 1986. The Martyred City: Death and Rebirth in the Andes. Albuquerque. The University of New Mexico Press.

Oliver-Smith, A. 1990. Applied Anthropology and Disaster Research and Management. Disasters, 14 (4): 366-369.

Oliver-Smith. A. 1999. “‘What is a Disaster’? Anthropological Perspectives on a Persistent Question”, in The Angry Earth: Disaster in Anthropological Perspective, (eds) A. Oliver-Smith, S.M. Hoffman. New York. Routledge: 18-34.

Oliver-Smith, A. 2011. Revealing Root Causes: The Disaster Anthropology of Gregory Button. American Anthropologist, 113: 646-648.

Oliver-Smith, A. 2013. 2013 Malinowski Award Lecture.Disaster Risk Reduction and Climate Change Adaptation: The View from Applied Anthropology. Human Organization, 72: 272-285.

Oliver-Smith, A., Hoffman, S.M. (eds). 1999. The Angry Earth: Disaster in Anthropological Perspective. New York. Routledge.

Ong, A. 2005. «Ecologies of Expertise: Assembling Flows, Managing Citizenship», in Global Assemblages: Technology, Politics, and Ethics as Anthropological Problems, (eds) S.J. Collier, A. Ong. Oxford. Blackwell: 337-353.

Palmisano, A. L. 2014. Committed, Engaged e Applied Anthropology. Dada Rivista di Antropologia post-globale, speciale 2: 13-24.

Piasere, L. 2002. L’etnografo imperfetto. Esperienza e cognizione in antropologia. Bari. Laterza.

Prince, S. H. 1920. Catastrophe and Social Change. Based Upon a Sociological Study of the Halifax Disaster. New York. Columbia University.

Quarantelli, E. L. 1987.What Should we Study? Questions and Suggestions for Researchers about the Concept of Disasters. International Journal of Mass Emergencies and Disasters. 5:7-32.

Revet, S. 2012. «Conceptualizing and Confronting Disasters: A Panorama of Social Science Research and International Policies», in The Politics and Policies of Relief, Aid and Reconstruction: Contrasting Approaches to Disasters and Emergencies (ed) F. Attinà. New York. Palgrave Mcmillan: 42-56.

Revet, S. 2013. ‘A Small World’: Ethnography of a Natural Disaster Simulation in Lima, Peru. Social Anthropology, 21: 38-53.

Revet. S. 2015. «Le monde international des catastrophes: des expertises et des cadrages en compétition», in La mondialisation des risques. Une histoire politique et transnationale des risques sanitaires et environnementaux, (dir) S. Boudia, E. Henry. Rennes. Presses Universitaires de Rennes, Coll. Res Publica: 69-81.

Revet, S., Langumier, J. (eds). 2015. Governing Disasters: Beyond Risk Culture, London. Palgrave Macmillan.

Salome, G. 2009. Le Drame: percezione e costruzione sociale di una catastrofe in Martinica. Tesi di Laurea Specialistica in Discipline Etno-Antropologiche. Università degli studi di Roma “La Sapienza”.

Sanford, V., Angel-Ajani, A. (eds). 2006. Engaged Observer: Anthropology, Advocacy and Activism, Rutgers. Rutgers University Press.

Sbriccoli, T. 2014. La biografia politica di un terremoto. Guardare l’Aquila dal Gujarat (e viceversa). Focus “Sismografie”. Il lavoro Culturale, http://www.lavoroculturale.org/biografia-terremoto/ (sito internet consultato in data 22/07/2015).

Scheper-Hughes, N. 1995. The Primacy of the Ethical: Propositions for a Militant Anthropology. Current Anthropology, 36: 409-440.

Schuller, M. 2010. From Activist to Applied Anthropologist to Anthropologist? On the Politics of Collaboration. Practicing Anthropology, 32: 43-47.

Schuller, M. 2014. Being an Insider Without: Activist Anthropological Engagement in Haiti after the Earthquake. American Anthropologist, 116: 409-412.

Signorelli, A. 1992. Cathastrophes Naturelles et résponses culturelles, Terrain. 19: 147-158.

Simpson, E. 2013. The Political Biography of an Earthquake: Aftermath and Amnesia in Gujarat, India. London. Hurst & Co Publishers.

Torry, W. I. 1979. Anthropological Studies in Hazardous Environments: Past Trends and New Horizons. Current Anthropology,20: 517-540.

Tsing, A. L. 2005. Friction: An Ethnography of Global Connections. Princeton. Princeton University Press.

UNISDR. 2015. Sendai Framework for Disaster Risk Reduction 2015-2030. UN World Conference on Disaster Risk Reduction. http://www.wcdrr.org/uploads/Sendai_Framework_for_Disaster_Risk_Reduction_2015-2030.pdf (sito internet consultato in data 22/07/2015).

Wallace, A. 1976. «Some Reflections on the Contributions of Anthropologists to Public Policy», in Anthropology and the Public Interest: Fieldwork and Theory, (ed) P.R. Sanday. New York. Academic Press: 3-14.

Wisner, B. 2015. Lies, Damned Lies, and Statistics, Global Network of Civil Society Organizations for Disasters Reduction, http://www.gndr.org/news/events/wcdrr2015/item/1370-lies-damned-lies-and-statistics.html (sito internet consultato in data 22/07/2015).



[1] Penso in particolare al lavoro di Gianna Salome (2009) sull’incidente aereo occorso in Martinica nel 2005 e all’indagine di Enrico Marcorè (2005) sul terremoto di Nocera Umbra del 1997. Entrambi, Salome e Marcorè, si sono diplomati all’Università di Roma “La Sapienza” dietro la supervisione di Alessandro Simonicca.

[2] Per un’analisi del coinvolgimento di sociologi, psicologi e antropologi, nel periodo della guerra fredda, in attività di ricerca al servizio della Federal Civil Defence e del National Security Council negli Stati Uniti si veda anche quanto ricostruito da Anthony Wallace (1976: 7). Wallace spiega come tra i diversi raggruppamenti di esperti che prestarono servizio per il National Reserach Council’s Commitee on Disaster Studies dopo il secondo conflitto mondiale, ci fosse una divisione chiamata Psicologia e Antropologia (diretta dall’antropologo Wiliam Fenton) che si occupava di analizzare come gli esseri umani rispondono alla minaccia di disastri e ai disastri stessi, in modo da raccogliere dati utili in caso di un attacco atomico: reazioni di panico che precedono il disastro, sindromi di shock post-traumatico, variabili socio culturali e psicologiche legate alla leadership nella fase post-disastro, etc.

[3] La stesura dei primi tre rapporti GAR (Global Assessment Report) ad opera di UNISDR nel 2009, 2011 e 2015 ha ricevuto grossi input dal gruppo dei promotori di LA RED, ad esempio.

[4] http://www.gndr.org/news/events/wcdrr2015/item/1370-lies-damned-lies-and-statistics.html(sito internet consultato in data 22/07/2015).

[5] Comunicazione personale, Pechino, 9 giugno 2014.

[6] Per maggiori approfondimenti sugli usi pubblici dell’antropologia dei disastri a seguito della drammatica catastrofe occorsa in Giappone nel 2011 si veda il numero monografico di Asian Anthropology curato da Gordon Mathews e Sidney Cheung nel 2012 (vol. 11, n. 1). Anche durante il meeting annuale della Japanese Society of Cultural Anthropology organizzato nel 2014 in concomitanza con la conferenza IUAES (International Union of Anthropological Ethnological Sciences), il ruolo pubblico degli antropologi nei disastri è stato oggetto di ampia riflessione. Si veda, a titolo esemplificativo, il panel presieduto da Shinji Yamashita Practicing a public anthropology in communities devastated by the East Japan Disaster. Suggerisco anche la visione dell’archivio digitale per la memoria del disastro promosso dal Reischauer Institute of Japanese Studies dell’Università di Harvard: http://jdarchive.org/en/home.

[7] Una delle figure che in antropologia dei disastri è riuscita maggiormente a intersecare diversi livelli di analisi e stili di impegno pubblico a livello internazionale è Gregory Button. Button ha coniugato giornalismo, ricerca antropologica e consulenza politica per offrire una prospettiva critica su disastri e crisi ambientali. Ha pubblicato per il Washington Post, è stato invitato del National Geographic Channel; ha contribuito come antropologo applicato a diversi processi di policy, ha scritto discorsi e documenti legislativi, testi per le udienze, dichiarazioni pubbliche sulla giustizia ambientale per diverse istituzioni negli Stati Uniti; è stato consulente del senatore Paul Wellstone grazie alla Congressional Fellowship ricevuta dall’American Anthropological Association, affrontando con successo la sfida di presentare analisi antropologiche in profondità in modi che soddisfano le aspettative del grande pubblico (Oliver-Smith 2011).