Vivere, comprendere e agire la catastrofe

Per un uso pubblico dell’antropologia

Irene Falconieri

Università di Catania

Table of Contents

Introduzione
Agire il disastro. Continuità e mutamento in un comune alluvionato
Conciliare impegno politico ed etnografia: l’esempio di un’insolita consulenza
Conclusioni
Bibliografia

Abstract: Considering the relation between trust, social change and disasters, this paper presents an analysis of political transformations in a small town in the North-Eastern coast of Sicily, hit by a massive flood on October 1, 2009. The interpretation comes from a voluntary work of counseling carried out with anthropological approach as a prosecution of a Phd research (2010-2013). Both the activities of ethnographic research and political counseling, were characterized by a personal involvement into the local dynamics, in order to apply a possible “public use” of anthropology. During the research and the political action, the ethnographer tried to apply the anthropological theoretical tools to the analysis of a post-disaster setting, with the porpouse of “intervening” actively in the observed sociopolitical processes. A constant effort is request to the anthropologist working in the field to maintain an independent voice.

Keywords: Flood, Political counseling, Sicily, Social change

Introduzione

La vittoria di Moschella assume un contorno più importante se si pensa che Giovanni Briguglio si trascina un passato da sindaco di Scaletta ventennale. Il dottore è stato infatti primo cittadino dell’ente jonico dal 1975 al 1994. Si ricandidò nel 1998 ma perse contro Michelangelo Manganaro e poi uscì di scena per lasciare spazio al figlio, Mario Briguglio, che venne eletto sindaco nel 2003 e poi ancora nel 2008. Terminati per lui i due mandati a disposizione, il padre si è nuovamente riproposto agli scalettesi nelle appena trascorse elezioni del 9 e 10 giugno. Ma la “famiglia di sindaci” questa volta non ce l’ha fatta. A pesare sul groppone di Briguglio, le responsabilità presunte del figlio per le conseguenze dell’alluvione del 1 ottobre del 2009 e la stanchezza dei cittadini, i quali stanno ancora scontando i risvolti negativi di quella terribile tragedia. Dopo tutti questi anni di “fiducia” accordata, gli scalettesi hanno detto basta[1].

La citazione menzionata è tratta da un articolo pubblicato su un quotidiano on line il 14 giugno 2013, a commento dei risultati delle elezioni amministrative (9 e 10 giugno) in un piccolo centro della provincia jonica di Messina. Il luogo cui fa riferimento è il comune di Scaletta Zanclea, negli anni precedenti assurto agli onori delle cronache giornalistiche a causa di una violenta alluvione che aveva provocato ingenti perdite per il territorio, sia in termini di vite umane che rispetto ai danni prodotti su infrastrutture e servizi[2]. A partire dal titolo: «Fuori la “famiglia dei sindaci”, Gianfranco Moschella è il vincitore assoluto», la giornalista evoca un aspetto della storia politica del comune che, successivamente, si connetterà agli effetti dell’evento calamitoso, costruendo un breve racconto in cui fiducia, cambiamento politico e disastri appaiono collegati da uno stretto nesso causale. Le riflessioni presentate in questo articolo si propongono di ripensare, approfondendola, la relazione tra disastri e mutamento sociale in un contesto caratterizzato da una forte stabilità politica. Accogliendo le sollecitazioni offerte da Gianluca Ligi (2009: 94-98), la comprensione antropologica dei processi di trasformazione indotti o accelerati dall’evento alluvionale ha tenuto conto di livelli d’analisi distinti e interrelati: su un piano generale i conflitti e il mutamento sono stati considerati come dinamiche fisiologiche delle società; il disastro è stato, inoltre, pensato come «un fattore specifico di mutamento» (ibidem: 96) che innesca o accelera tendenze già presenti nella comunità colpita; infine sono state valutate le azioni politiche e sociali realizzate dagli attori locali e istituzionali, in fase preventiva, per diminuire i livelli di rischio e, nel periodo post-impatto, per contribuire ai processi di assistenza alla popolazione e ricostruzione.

La situazione presa in esame si colloca a conclusione di una ricerca di dottorato condotta a Scaletta Zanclea negli anni 2010-2013, periodo in cui ero stata chiamata a svolgere un lavoro di consulenza informale e gratuita dai futuri componenti dell’attuale amministrazione comunale, che si apprestavano ad affrontare una complessa campagna elettorale. Nello specifico le richieste dei candidati prevedevano l’elaborazione di valutazioni sugli effetti innescati dall’alluvione negli equilibri socio-politici locali, corredate da proposte utili a definire un programma di governo capace di intercettare i processi di cambiamento osservati, trasformandoli in azioni amministrative, e la preparazione di performance elettorali coerenti con il mutato contesto emotivo e con le nuove aspettative degli elettori, e quindi efficaci in termini di ottenimento di consenso.

La scelta di sostenere pubblicamente una lista e di utilizzare le conoscenze acquisite per il raggiungimento di obiettivi politici delimita simbolicamente un importante momento di un percorso personale ed etnografico, che affonda le sue radici nell’immediato post-alluvione e in cui pratiche di ricerca, impegno a fianco delle popolazioni colpite e vita privata si sono contaminate vicendevolmente. L’alluvione non rappresenta esclusivamente un oggetto di studio, ma un avvenimento che prepotentemente ha fatto ingresso nella mia storia, rendendomi vittima e sopravvissuta. L’evento ha prodotto, infatti, i suoi effetti più distruttivi nel quartiere in cui risiedevo e dove tutt’ora abitano e svolgono le loro attività lavorative molti dei miei familiari. Nel tentativo di trasformarmi da vittima in soggetto politico attivo, compiendo quello che retrospettivamente può essere considerato un percorso di “auto-analisi”[3], sono entrata a far parte del direttivo di un nascente comitato cittadino, con il quale continuo ancora oggi a lavorare, seppur con impegno e intensità minori.

A breve distanza dalla sua costituzione ho intrapreso una ricerca etnografica con l’intento, tra gli altri, di evidenziare i modi in cui l’evento disastroso era retoricamente manipolato dai soggetti istituzionali che agivano nell’arena della ricostruzione per veicolare idee politiche e visioni del territorio spesso contrastanti, diventando così segno e simbolo di un’area, quella di Messina, e di una nazione, l’Italia, che attraversavano una fase di grave instabilità politica[4]. Mi interessava comprendere, inoltre, le motivazioni alla base dei processi di attribuzione di responsabilità (Revet 2010) avviati dagli abitanti di Scaletta e i potenziali effetti perturbanti dell’alluvione sul mantenimento della fiducia personale e sistemica, nell’ipotesi che i disastri potessero essere interpretati come eventi totalizzanti (Oliver-Smith 1998) che, distruggendo, creavano al contempo le condizioni per immaginare percorsi differenti, in un costante rapporto dialettico tra continuità e mutamento[5].

Il lavoro con il comitato ha richiesto la messa in campo di pratiche di ricerca e forme di impegno differentemente declinate in base alle specifiche finalità concordate con i suoi iscritti: (1) la critica sociale rivolta al sistema di gestione dell’emergenza, inizialmente orientato alla delocalizzazione delle aree disastrate (Falconieri 2011); (2) il costante lavoro di intermediazione con le istituzioni preposte alla ricostruzione, nel tentativo di elaborare soluzioni condivise ai problemi insorti dopo il disastro e avvertiti come cogenti dagli abitanti dei quartieri alluvionati di Scaletta (advocacy); (3) la condivisione di impegni e obiettivi con gruppi informali di persone e associazioni locali, concretizzata nella realizzazione di attività e manifestazioni socio-culturali non necessariamente connesse al tema del disastro; (4) l’attivismo a sostegno di uno specifico progetto politico[6]. In ognuna delle situazioni indicate, l’approccio antropologico allo studio dei disastri – capace di contestualizzare le dinamiche osservate localmente all’interno di più ampie logiche di potere politico ed economico – si è rivelato un utile strumento per l’elaborazione di strategie di azione sociale, così come numerosi sono stati i casi in cui le responsabilità dettate dal ruolo di rappresentante del comitato hanno determinato i tempi della ricerca e i rapporti con gli attori locali. L’intenso e intimo coinvolgimento ha sollevato problemi metodologici ed etici e richiesto una costante riflessione epistemologica centrata sui condizionamenti esterni al campo scientifico del ricercatore (Bourdieu et al.1976), derivanti dal suo posizionamento nella rete di relazioni locali. L’impossibilità di scindere il ruolo sociale, le vicende personali, inserite in una storia politica e familiare ben definita, e le pratiche di ricerca, è stata determinante nella scelta di un approccio al terreno definibile sia nei termini di “partecipazione osservante” (Soulé 2007; Langumier 2013) che di “auto-etnografia” (Hayano 1979).

Il lavoro di consulenza e, più in generale, le attività sociali da me svolte, sono state pensate come possibili forme di un “uso pubblico” dell’antropologia, concetto che si riferisce soprattutto alla «capacità delle scienze sociali di partecipare alla più ampia “conversazione” che si svolge nella società e nella cultura» e suggerisce «una costante contaminazione tra saperi specialistici e sfera pubblica» (Dei 2007: 6). Esso rappresenta il tentativo di applicare gli strumenti teorici della disciplina all’analisi di un contesto di post-disastro al fine di intervenire fattivamente sulla «delicatissima opera tendente a rifare il mondo» (Ligi 2009: 96), che avevo avuto modo di osservare durante la ricerca. Seguendo le indicazioni di Antonino Colajanni (2014: 31-32), nel primo paragrafo saranno brevemente tratteggiati la grammatica, gli stili di azione e le pratiche di esercizio del potere (Herzfeld 2006: 145-162) delle istituzioni politiche locali, la cui analisi preliminare è stata determinante nella realizzazione di un efficace lavoro di consulenza. A tal riguardo, lo svelamento dei requisiti che definiscono lo statuto di eleggibilità dei candidati alle cariche amministrative, elemento che Marc Abélès ritiene fondamentale per la comprensione delle componenti essenziali del processo politico (1988: 810), sarà utilizzato come esempio attraverso cui illustrare i cambiamenti nella scena politica che il disastro ha indotto o accelerato.

Il secondo paragrafo entra nel merito del lavoro di consulenza svolto durante la campagna elettorale. Ho considerato quest’ultima — così come le prestazioni politiche degli attori locali maggiormente contestate e criticate dagli abitanti di Scaletta — come un insieme di performance, nell’accezione di azioni altamente performative che si basano sempre su elementi morali e culturali peculiari della società osservata (Alexander 2004; 2010). In particolare il concetto di “messa in scena”, utilizzato dal sociologo Bin Xu (2012) nella sua analisi delle variazioni di efficacia delle performance politiche dei leader cinesi in seguito a disastri ed emergenze di massa, mi è servito a pensare possibili strategie discorsive per comunicare efficacemente il disastro a distanza di quasi cinque anni dal suo verificarsi[7]. Le conclusioni presenteranno una breve analisi riflessiva sui personali conflitti derivati dal desiderio di intervenire nei processi politici osservati e l’altrettanto forte esigenza di conservare gli spazi di libertà necessari al lavoro di ricerca. Successivamente, il racconto di un caso etnografico servirà da esempio utile a chiarire le potenzialità dell’antropologia applicata allo spazio pubblico.

Agire il disastro. Continuità e mutamento in un comune alluvionato

Dovete necessariamente confrontarvi con i giovani […]. Il partito in questo momento ha acquistato forza politica alla Regione e sono sicuro che riusciremo a vincere politiche e amministrative, ma abbiamo bisogno di energie giovani, ci deve essere una lista di giovani […]. Però Irene, al di là delle belle parole, quando scegli una persona devi valutare la forza politica, il numero di voti di cui dispone, le famiglie che lo appoggiano. Dobbiamo essere realisti, alle amministrative, soprattutto in un paese come questo, gli ideali sono sempre contati poco[8].

Se per ogni zona scegliamo le persone giuste, ce la possiamo fare. Per questa zona ti metti tu… poi L. Z., è una persona disponibile, è preparato… Da quel lato, prendiamo uno della famiglia G., sono tanti […]. Ci vuole qualcuno della tua famiglia, ti devi decidere. Se non sei tu, dobbiamo trovare un altro. Però è meglio se ti candidi tu[9].

Credimi, io parlo con le persone e, della famiglia P., tu sei l’unica in questo momento che si può candidare. Hai costruito la tua credibilità sul campo, non sei arrogante, sei pulita[10].

Le tre dichiarazioni sono state raccolte nei sei mesi antecedenti l’inizio ufficiale della campagna elettorale che porterà alla sconfitta della “famiglia dei sindaci”, pronunciate da persone diverse per professione e provenienza sociale, ma unite da un medesimo obiettivo: formare una lista competitiva e potenzialmente vincente alle future elezioni amministrative. Esse contengono una prima definizione dei requisiti che conferiscono lo statuto di eleggibilità di un individuo in seno al corpo sociale e chiariscono il posizionamento del ricercatore al suo interno, oggetto dell’esortazione ad una valutazione non idealistica della realtà locale, così come delle richieste di un impegno nella futura competizione politica. Ad accomunarle è il riferimento alla rete di parentela come parametro di valutazione della forza di rappresentanza di un candidato.

Nella sua analisi della vita amministrativa in un cantone rurale francese, Marc Abélès (1988) sostiene che alcune famiglie, in virtù della loro posizione sociale ed economica o della rete di alleanza matrimoniali contratte dai loro membri, riescono ad acquisire una legittimità sociale che le rende competitive nella scena politica locale. Così come osservato dall’antropologo,nel contesto preso in esame i legami familiari costituiscono una componente fondamentale nella costruzione dell’identità politica di un individuo. L’appartenenza ad un gruppo si è qui configurata come un processo altamente conflittuale, inasprito dall’utilizzo di strategie elettorali che intervengono direttamente nelle reti di parentela, individuando i nuclei avversari più rappresentativi al fine di disgregarne la forza: «In quelle elezioni (1994) si sono candidati due cugini di mia moglie, in due liste opposte. Con uno dei due non mi parlo ormai da vent’anni», mi aveva raccontato P. F. durante una lunga intervista[11]. Ipotizzando un ventaglio di possibili futuri candidati alle cariche amministrative, l’uomo, quasi sessantenne, aveva ripercorso, al contempo, la storia politica locale dell’ultimo cinquantennio. I suoi racconti costruiscono una trama di relazioni sociali e parentali caratterizzate da forti divisioni interne ai gruppi familiari e di interesse, che ha trovato riscontro nella composizione delle liste elettorali consultate nell’archivio comunale.

La permanenza di un’unica famiglia alla guida del comune ha contribuito a modellare le categorie con cui è pensato il potere da amministratori e cittadini e ha favorito un processo di personalizzazione della politica basato su logiche oppositive, ancora visibile nella fase post-alluvione. Per gli abitanti di Scaletta schierarsi “pro” o “contro” la “famiglia dei sindaci” può essere considerato il risultato di un processo di incorporazione di pratiche, simboli e strutture che avevano creato un’articolata geografia di tensioni interne al tessuto sociale, della quale anch’io ero entrata a far parte a causa dell’appartenenza ad una rete familiare radicata nel territorio e partecipe ai giochi politici locali già a partire dagli anni Settanta dello scorso secolo[12].

Nello stesso periodo erano diventate più frequenti e visibili le contaminazioni tra campo politico e religioso (Palumbo 2009) ed erano state incentivate economie locali basate, da un lato, sul settore edilizio, divenuto misura della floridità economica di un territorio e della capacità della sua amministrazione di attirare risorse e, dall’altro, sul lavoro terziario all’interno della pubblica amministrazione. Gli elementi descritti avevano intrecciato in un’unica trama procedure amministrative, politiche locali e affari privati, creando i presupposti per accrescere e stabilizzare nel tempo il potere acquisito, la cui resistenza è testimoniata dai risultati delle elezioni del 15 e 16 giugno 2008, immediatamente precedenti a quelle considerate in questa sede.

Già allora il comune era stato interessato da un’alluvione meno distruttiva (25 ottobre 2007), ma che aveva comunque avviato una fase di profonda instabilità economica e ambientale e generato un diffuso malcontento tra gli abitanti, a causa di una gestione considerata inefficace. Dal momento che non era stata alterata la conformazione dei luoghi colpiti e nessun abitante aveva dovuto abbandonare la propria abitazione, l’evento calamitoso non si era, però, trasformato in tragedia, provocando reazioni emotive tanto forti da stravolgere gli equilibri quotidiani e intaccare le fondamenta del consenso politico. Pur dichiarando una generale sfiducia verso le istituzioni, gli abitanti di Scaletta avevano mantenuto intatto il livello di fiducia personale nei confronti del primo cittadino, nuovamente eletto con un’ampia forbice di voti. «Ma chi volevi che vincesse? Solo lui può fare il sindaco. Chi altro c’è?»[13], aveva affermato allora un giovane uomo che, in seguito agli eventi del 2009, diventerà uno dei critici più accaniti nei confronti dell’operato dell’amministrazione.

In un saggio sullo Sri Lanka post-tsunami Mara Benadusi (2010) invita a considerare il clima di effervescenza sociale che può generarsi in situazioni di post-disastro. Così come osservato dall’antropologa in riferimento ad un contesto fortemente mediatizzato, l’esperienza del disastro non rappresenta solo una frattura “dell’ordine mondano” (de Martino 1977) che provoca sgomento e immobilismo, al contrario, essa può incentivare un ripensamento dei modelli consolidati di azione sociale attivando tendenze al cambiamento già presenti nei contesti colpiti. Nel caso da me indagato gli effetti prodotti dall’alluvione del 2009 agiscono direttamente sui processi di acquisizione, mantenimento e contestazione dell’autorità e aprono nuovi spazi di intervento a soggetti che fino a quel momento avevano occupato il “retroscena” della vita politica. In questa prospettiva la richiesta di una mia candidatura può essere considerata come il tentativo di conciliazione tra la necessità di ricreare universi di senso riconoscibili entro i quali articolare strategie considerate efficaci e l’esigenza di trasformare «l’elettrizzante e turbolento sentimento che le cose potrebbero essere diverse» (Benadusi 2010: 247) in effettiva pratica politica. Presentata dai miei interlocutori come la naturale prosecuzione del percorso intrapreso con il comitato, essa rappresenta, al contempo, un giudizio di valore sulle capacità di gestire l’evento dimostrata dai diversi soggetti in competizione sulla scena politica locale.

La mia decisione di non subire il disastro, ma comprenderlo e agire sui suoi effetti nel tentativo di conciliare impegno sociale e ricerca etnografica, avevano avuto come dirette conseguenze la dilatazione del tempo assorbito dalle vicende ad esso legate e una moltiplicazione degli spazi di partecipazione alla vita sociale e istituzionale, che avevano incentivato un confronto quotidiano con gli abitanti dei quartieri alluvionati. Interpretando l’alluvione e i successivi avvenimenti ad essa connessi come opportunità di influire direttamente sui processi decisionali che riguardavano il futuro del territorio comunale, ero riuscita non soltanto a comunicare un sentimento di speranza alle persone con cui mi rapportavo, ma avevo anche instaurato un rapporto empatico fondato sulla condivisione di un’esperienza traumatica. Tale postura aveva, inoltre, facilitato l’instaurarsi di un rapporto di collaborazione con i rappresentanti di alcuni enti preposti alla gestione dell’emergenza, che mi aveva permesso di accedere ad iniziative normalmente riservate ai tecnici, incrementando le occasioni di mediazione tra istanze locali e esigenze istituzionali.

Nel portare avanti l’impegno con il comitato stavo consapevolmente tentando di proporre un modello di pensare e vivere la vita politica diverso da quello osservabile a Scaletta, sottoposto in quel periodo a forti contestazioni e mi ponevo in aperta contraddizione con l’idea espressa dalle retoriche dell’amministrazione comunale e del primo cittadino, che presentavano l’emergenza come un meccanismo coercitivo all’interno del quale le autorità locali perdevano ogni potere decisionale. La personale interpretazione del disastro e le conseguenti strategie adottate per affrontarlo sono state determinanti nella creazione della relazione di fiducia con gli abitanti alluvionati che ha contribuito a rendermi un soggetto eleggibile.A differenza di altri potenziali candidati, nel mio caso la credibilità acquisita era rafforzata dal potere di rappresentanza derivato dall’appartenenza familiare. Entrambi gli elementi testimoniano di una tensione, intesa come «il sistema delle forze costitutive della struttura del campo» (Bourdieu 2003: 64), che ha spostato i confini del campo politico permettendone l’ingresso a soggetti dotati di nuove risorse. La scarsa partecipazione alla vita pubblica, il perseguimento di interessi personalistici, la mancanza di coesione e il forte individualismo che avevano contraddistinto la vita sociale nel comune, non riuscivano più a rappresentare strumenti utili alla risoluzione dei nuovi problemi sollevati dagli eventi alluvionali e richiedevano la messa in campo di competenze e simboli nuovi. Producendo distruzione, il disastro stava al contempo creando quelle condizioni che avrebbero potuto orientare la storia del paese in direzioni diverse da quelle fino a quel momento praticate.

In tal senso, la competizione del 9 e 10 giugno 2013 ha assunto un valore simbolico particolarmente rilevante. Nonostante la disaffezione dichiarata nei confronti della politica e dei suoi rappresentanti, l’ipotesi di una nuova candidatura dell’avvocato Giovanni Briguglio, già sindaco del comune dal 1975 al 1994, era riuscita a suscitare l’interesse dell’intera collettività, riaccendendo forti passioni soprattutto tra quelle persone che rappresentavano lo “zoccolo duro” dell’opposizione. Il mio giudizio estremamente critico rispetto ai potenziali effetti sul tessuto sociale di una nuova vittoria della “famiglia dei sindaci”, unito ad una altrettanto critica valutazione dell’operato istituzionale dell’amministrazione negli anni del post-alluvione sono stati determinanti nella decisione di offrire le mie competenze e la mia immagine a sostegno di una lista, pur avendo scelto di non prendervi parte attivamente.

Conciliare impegno politico ed etnografia: l’esempio di un’insolita consulenza

La collaborazione politica è iniziata alla fine del mese di aprile del 2013, in coincidenza con la discussione della tesi di dottorato, ed è consistita nella partecipazione quotidiana alle attività politiche che hanno scandito la campagna elettorale, durante la quale sono state svolte specifiche attività di consulenza. All’interno di un percorso condiviso con il candidato a sindaco, sei membri della lista e alcuni dei suoi sostenitori, ho contribuito all’elaborazione del programma amministrativo. In questo caso, l’analisi dei dati raccolti nel corso della ricerca etnografica ha permesso di individuare le criticità sociali e ambientali avvertite come più pressanti dalla popolazione e di elaborare le loro possibili soluzioni. In particolare è stato realizzato un censimento degli spazi e degli edifici pubblici e dei siti di interesse storico, architettonico e culturale degradati o inutilizzati, accompagnato da ipotesi progettuali di valorizzazione dei medesimi, da effettuarsi in collaborazione con le associazioni territoriali, con l’obiettivo di restituire alla cittadinanza un patrimonio generalmente considerato un potenziale veicolo di sviluppo turistico-economico. Inoltre, interpretando il bisogno di partecipazione e coinvolgimento emerso nelle conversazioni con gli abitanti dei quartieri alluvionati, si è indicato nella “trasparenza” il principio ispiratore dell’azione politica e stabilito un coinvolgimento diretto dei cittadini ai processi decisionali «attraverso l'istituzione di comitati di quartiere ovvero di quelle formazioni sociali intermedie tra le istituzioni e i cittadini, che avranno funzione propositiva, consultiva e di controllo sullo stato di attuazione del programma»[14].

In un secondo momento mi è stato affidato il compito di perfezionare le conoscenze dei candidati, in alcuni casi sommarie e riferibili esclusivamente al grado di coinvolgimento personale, rispetto agli effetti provocati dal disastro, sia in termini di danni materiali, che di conflitti innescati nel tessuto sociale e con le istituzioni. In questo caso il lavoro si è articolato in momenti di confronto individuali e nell’organizzazione di un incontro comune, pensato come un intensivo corso di aggiornamento sullo stato dell’arte dei lavori di ricostruzione, comprendente un’analisi degli interventi realizzati e di quelli da realizzare, un quadro dettagliato dei diversi enti cui erano stati affidati e la specificazione del grado di interlocuzione stabilito con i loro rappresentanti.

Insieme alle attività sopra elencate, hanno rappresentato un impegno costante l’elaborazione e il progressivo perfezionamento di una strategia di comunicazione del disastro confacente al contesto emotivo osservato e capace di soddisfare le aspettative degli elettori. A tale scopo, l’evento calamitoso è stato da me immaginato come una scena immersa in un contesto emotivo che richiede rappresentazioni coerenti e produce negli osservatori aspettative connesse ai codici culturali e morali (Alexander 2004; Wuthnow 1987) e alle regole cognitive ed emotive (Goffman 1974) di una società. Partendo da tali considerazioni ho utilizzato il concetto di “messa in scena” (Xu 2012) per individuare gli elementi critici dell’azione politica dell’amministrazione uscente e proporre performance che creassero un ponte tra il piano emotivo dettato dalla situazione contingente ed i modelli politici radicati.

L’analisi delle interviste e dei colloqui informali aveva mostrato che inizialmente era stata soprattutto una propensione caratteriale del primo cittadino e l’atteggiamento da essa derivato ad essere avvertiti come incongruenti rispetto al contesto: la mancanza di empatia, la freddezza dimostrati dai gesti e l’incapacità di creare una relazione affettiva con le persone colpite avevano determinato una prima rottura nel rapporto di fiducia tra l’uomo politico ed i suoi elettori, in seguito amplificata dall’interpretazione del disastro proposta negli anni. Nei discorsi pubblici l’alluvione era rappresentata come una rottura radicale a cui i cittadini “dovevano” abituarsi: «dovete mettervi in testa che niente sarà più come prima», era una delle frasi che frequentemente accompagnavano le rimostranze per i disagi subiti dagli alluvionati. Le parole del sindaco invitavano ad accettare i cambiamenti e poco spazio assegnavano all’espressa necessità di direzionarli: «Se decidete di protestare verrò anch’io ma non servirà a niente»[15]. Come testimoniato nell’intervista realizzata con un funzionario del Genio civile di Messina, il disastro è stato interpretato dal politico come un evento che distrugge senza creare: «altri comuni avrebbero provato a sfruttare questa situazione per rilanciare la propria immagine. A Scaletta questo non succede e la tragedia è in parte vissuta, da alcuni abitanti così come dall’amministrazione, con una prospettiva fatalistica»[16].

Le strategie discorsive utilizzate dagli amministratori si contrapponevano alle rappresentazioni e alle pratiche emerse dall’analisi del comportamento di altre istituzioni, in particolare l’istituto scolastico del comune, guidato da una giovane e intraprendente dirigente, e il Genio civile, incaricato della realizzazione dei lavori di mitigazione del rischio. Incorporando la tendenza a trasfigurare l’immagine di “vittima” in quella di “sopravvissuto”, capace di rispondere in maniera autonoma agli stravolgimenti provocati dagli eventi, esplicita in contesti di post-disastro fortemente mediatizzati (Benadusi 2011), i rappresentanti dei due enti avevano incentivato la partecipazione degli alluvionati alle attività istituzionali e tentato di promuovere una risposta resiliente al disastro. Seppur non esenti da critiche, i risultati ottenuti in termini di consenso hanno reso evidente la necessità di ripensare le retoriche e le pratiche su cui si fondava l’azione politica e sono stati usati come ulteriori esempi utili ad interpretare le aspettative degli elettori.

Le considerazioni sopra esplicitate hanno determinato la decisione di coniugare al futuro la comunicazione del disastro, evitando l’utilizzo di un registro patetico fondato sull’evocazione del trauma subito. Laddove si è reso necessario discutere delle criticità ancora presenti, lo si è fatto considerandole il risultato di un processo di lunga durata (Oliver-Smith, Hoffman 1999), sul quale la futura amministrazione avrebbe avuto il dovere di intervenire proponendo soluzioni condivise con gli abitanti. Le strategie adottate, dalla scelta dei luoghi che hanno scandito la campagna elettorale, alla decisone di affidare ai sostenitori l’organizzazione e la gestione delle sedi ufficiali della lista, hanno costruito una scena caratterizzata da una netta discontinuità con quelle proposte dalla passata amministrazione negli anni di ricerca, e dalla lista concorrente nel periodo del lavoro di consulenza.

Durante i comizi, dimostrando la natura polisemica di questo tipo di eventi, l’alluvione è diventata il pretesto per una forte critica sociale e politica che ha consegnato al gruppo politico con cui collaboravo una vittoria prevedibile, ma del tutto inaspettata nei numeri. Il risultato ottenuto su un avversario tanto influente dal nuovo sindaco (72,73% su un totale di 2.165 elettori) – un uomo che, pur essendo nato a Scaletta, non vi risiedeva e non aveva mai preso parte ai conflitti che animavano la vita politica locale – simboleggia lo sgretolamento di un’“economia morale” (Scott 1976) che non è più in grado di garantire quel livello minimo di benessere necessario al mantenimento dell’equilibrio sociale.

Se formalmente il lavoro di consulenza si è concluso con la fine delle elezioni, gli obiettivi impliciti che lo hanno guidato devono ancora essere raggiunti. Da antropologa e persona coinvolta negli eventi e nel contesto ho avvertito l’esigenza etica e politica di intervenire nei processi di cambiamento osservati contribuendo a trasformarli in un progetto a lungo termine, consapevole delle difficoltà e degli attriti che avrei potuto avere in futuro con la stessa amministrazione comunale che avevo sostenuto. Nel momento in cui scrivo, l’azione amministrativa mostra alcune discrepanze con gli intenti dichiarati nel programma elettorale, che rendono lento e conflittuale il processo di cambiamento, rischiando di attenuare l’effervescenza provocata dal disastro.

Conclusioni

Il rifiuto delle proposte di una mia candidatura è il risultato di riflessioni contrastanti in cui convergono motivazioni personali, valutazioni politiche e scelte professionali. Raramente gli antropologi possiedono un potere tale da consentire loro di intervenire nei processi decisionali delle società cui appartengono. Immaginavo che rivestire il ruolo di amministratrice in una realtà che si stava confrontando con una lenta e faticosa ricostruzione post-disastro avrebbe potuto offrirmi la possibilità di applicare competenze e conoscenze antropologiche all’implementazione di policies basate su quelle idee di territorio inteso come bene comune e di politica pensata come pratica partecipata e negoziabile, che precedentemente avevano orientato le attività da me svolte con il comitato. Allo stesso tempo l’intimità concessami dall’appartenenza e dall’etnografia aveva reso evidente la necessità di negoziare le spinte al cambiamento con la permanenza di pratiche consolidate di azione politica nei cui confronti nutrivo, invece, forti resistenze: «alle amministrative, soprattutto in un paese come questo, gli ideali sono sempre contati poco»[17]. La forza di questa affermazione era apparsa chiara nella composizione definitiva della lista che, pur presentandosi all’esterno in netta discontinuità con la tradizione politica locale (età media bassa, elevata presenza femminile), ad uno sguardo interno rispecchiava complesse regole di rappresentanza, che mettevano in relazione i legami parentali del candidato, le sue capacità relazionali e la possibilità di influenzare le intenzioni di voto degli elettori. Se le performance con cui l’alluvione era stata riattualizzata durante i comizi avevano avuto un ruolo determinante negli esiti delle elezioni, era stata al contempo la capacità di conciliare retoriche di cambiamento e modelli e sistemi consolidati di azione politica a consegnare alla lista una vittoria tanto importante in termini numerici, ma che lasciava poco spazio all’immaginazione di percorsi radicalmente innovativi.

In un contesto di post-disastro l’antropologia rappresenta uno strumento euristico capace di apportare importanti contributi ai processi di ricostruzione, non solo nella prospettiva di una valorizzazione dei saperi locali. Ritengo che un approccio antropologico debba far emergere, al contempo, i limiti dell’applicazione di modelli universalmente validi nell’implementazione di interventi di disaster recovery, evidenziando il dinamismo e la complessità frequentemente osservati nelle realtà in cui i disastri sono vissuti e le strategie di contrasto e resistenza al sistema dell’assistenza messe in campo dai soggetti colpiti[18]. Perché ciò avvenga è necessario che la disciplina incentivi una riflessione critica sulle strutture di potere che informano la realtà sociale in cui è chiamata ad intervenire, anche in occasioni in cui, come nel caso analizzato in questa sede, la produzione di conoscenza è il risultato di un rapporto di collaborazione con un committente che possiede specifiche finalità. In questa direzione ho pensato e agito sia il percorso di ricerca e quello con il comitato, sia il lavoro di consulenza per la campagna elettorale.Pur condividendo gli obiettivi dichiarati nel programma elettorale, che io stessa avevo contribuito a definire, ho scelto di mantenere un ruolo al margine dell’ufficialità politica, continuando ad agire negli spazi interstiziali del potere (Graeber 2013), convinta che fosse più urgente rappresentare quegli “ideali” considerati ininfluenti nella determinazione delle strategie elettorali e una voce “contro” qualora l’azione amministrativa avesse intrapreso percorsi diversi da quelli concordati con gli elettori.

Il contributo disinteressato al buon esito della campagna elettorale mi ha conferito un potere contrattuale che continuo ad esercitare, cercando di orientare le scelte politiche verso investimenti volti a migliorarne la qualità della vita in una prospettiva di sostenibilità ambientale e benessere diffuso. Le mie principali occasioni di collaborazione con l’amministrazione, accompagnate spesso da animati scontri, riguardano soprattutto tre ambiti di intervento: la progettazione urbanistica, la programmazione delle attività turistiche e culturali e la rivalutazione degli spazi pubblici.

Citerò in questa sede solo un progetto tra quelli personalmente seguiti la cui realizzazione – non ancora definitiva – ha richiesto l’esercizio di una costante pressione sui rappresentanti istituzionali con cui mi relaziono. Uno dei problemi strutturali di Scaletta, notevolmente aggravato dall’alluvione, riguarda la mancanza di luoghi di incontro da dedicare ad attività comuni e le condizioni di degrado in cui versano quelli esistenti. Nonostante il bisogno di riscoprire una dimensione sociale della vita quotidiana, anche attraverso la rivalutazione degli spazi pubblici fatiscenti, sia ripetutamente emerso durante gli incontri ufficiali nel periodo della campagna elettorale, è apparso chiaro sin dai primi mesi di amministrazione che il problema non rappresentasse una priorità nella scala di interventi da realizzare. Negli anni precedenti avevo, inoltre, riscontrato forti resistenze a destinare a tale scopo una parte dei pochi fondi confluiti nel conto corrente istituito in favore degli alluvionati anche da parte di alcuni iscritti al comitato. Sollecitata dalle iniziative di due cittadini, che privatamente avevano cominciato a dedicare il loro tempo a lavori di giardinaggio nelle poche zone verdi presenti nei quartieri alluvionati, ho aperto una fase di contrattazione con il sindaco e l’assessore al ramo. Durante una lunga riunione[19] sono state presentate e discusse proposte operative potenzialmente in grado di conciliare le esigenze dei cittadini e la situazione finanziaria fortemente debitoria dell’ente. Al contempo, in collaborazione con una giovane mamma e con il presidente di un circolo sportivo culturale, si è cercato di sollevare il problema all’interno del dibattito pubblico locale tramite la promozione di una raccolta fondi che ha coinvolto cittadini ed esercizi commerciali. Se ufficialmente l’iniziativa si proponeva di reperire le risorse per avviare almeno uno dei molti progetti di sistemazione urbana necessari al territorio comunale, l’obiettivo implicito era quello di sensibilizzare amministrazione e comitato mostrando la rilevanza sociale della questione.

Non essendo stato ancora realizzato il progetto proposto, non è ancora possibile presentare una valutazione dell’efficacia delle iniziative precedentemente discusse. Nondimeno è importante sottolineare che l’intermediazione con i membri del comitato e con il suo presidente ha consentito di allentare le riserve precedentemente dimostrate e favorito la decisione di utilizzare parte delle somme ricevute dai donatori alla sistemazione di due aree verdi destinate ai bambini. Tale scelta è servita ad incentivare l’azione amministrativa, in particolare del vice-sindaco, il cui lavoro ha permesso di ottenere un ulteriore piccolo finanziamento grazie al quale potrà essere rivalutata un’altra zona danneggiata dall’alluvione e frequentata soprattutto da persone anziane. L’esempio presentato non può essere descritto come un caso di antropologia applicata, ciononostante la disciplina ha definito l’orizzonte di senso dentro il quale si è dipanata la mia azione sociale. Allo stesso modo, negli anni di ricerca, l’analisi delle rappresentazioni e delle pratiche discorsive attraverso cui era stato costruito il disastro si è rivelata di fondamentale importanza per comprendere «come i processi di cambiamento vengono pensati e vissuti dagli attori coinvolti» (Olivier de Sardan 2008: 36) e le conoscenze acquisite sono servite a dar voce a rivendicazioni poco espresse nei discorsi ufficiali, nel tentativo di mediare tra i diversi attori che si confrontavano nel post-emergenza.

Preoccupazioni e dibattiti riguardanti la complessa relazione tra conoscenza antropologica e pratiche di intervento sociale attraversano il campo disciplinare fin dalla sua fondazione e, nell’ultimo decennio, hanno riscoperto un nuovo vigore anche all’interno del dibattito scientifico nazionale. Potrebbe essere oggi utile ripensare in chiave critica l’eredità disciplinare nazionale, un’«antropologia debole», com’è stata definita da Francesco Faeta, ma «incapsulata […] dentro orizzonti di conoscenza storica, politica, filosofica e filologica complessi e raffinati» (Faeta 2011: 120), un’antropologia animata dalla necessità di coniugare «pratiche della conoscenza» e «pratiche della trasformazione» (Faeta: 115), facendosi così promotrice di cambiamento sociale. Potrebbe esserlo, a maggior ragione, in contesti colpiti da disastri, grazie alla capacità della disciplina di fornire una lettura critico-politica di tali eventi, oggi più che mai necessaria anche nell’ottica della realizzazione di efficaci politiche di prevenzione.

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[1] http://www.tempostretto.it/news/scaletta-zanclea-fuori-famiglia-sindaci-gianfranco-moschella-vincitore-assoluto.html. (Sito internet consultato in data 10/05/2015)

[2] L’alluvione del 1 ottobre 2009 ha colpito la provincia jonica di Messina provocando complessivamente 31 morti, sei dispersi e 1.600 sfollati. A Scaletta, oltre ad abitazioni private e attività commerciali, hanno subito ingenti danni il viadotto autostradale, la strada nazionale e la rete ferroviaria che attraversano il paese.

[3] Nel suo libro postumo, Questa non è un’autobiografia. Elementi per un’autoanalisi, Pierre Bourdieu (2005) ricorda che le occasioni professionali e le scelte personali compiute da ognuno contribuiscono al processo di formazione individuale e ne determinano la storia. Così come indicato dall’autore, ripercorrendo tali scelte e precisando il campo all’interno o contro il quale sono state maturate, è possibile realizzare un’“auto-analisi”, che rappresenta contemporaneamente un’indagine su di sé e sugli altri.

[4] In un artico in corso di pubblicazione (Falconieri 2015) ho sostenuto che nella fase post-alluvione si sia attivato un processo inverso a quello osservato da John Dickie (2008) dopo il terremoto di Messina del 1908. Se allora la produzione giornalistica, il modello di intervento e le rappresentazioni politiche avevano contribuito alla costruzione dell’idea di “nazione”, nel mio caso lo stesso concetto era sottoposto ad una costante opera di decostruzione, attraverso la manipolazione dei simboli che l’avevano contraddistinto.

[5] Secondo molti sociologi che hanno assunto il concetto come strumento analitico utile a spiegare le relazioni politiche e sociali studiate, la fiducia sistemica è basata su aspettative di stabilità e ordine sociale (Garfinkel 1967; Parsons 1975; Luhman 1979). La fiducia personale appare, invece, maggiormente legata ai processi cognitivi ed emotivi alla base del rapporto fiduciario (Torsello 2006: 26), ed è definita da tre variabili principali: l’interazione sociale, l’interesse personale e il carattere di personalità (Mutti 1994: 80-81).

[6] Lavori di recente pubblicazione utilizzano l’espressione engaged anthroplogy (Low, Merry 2010; Beck, Maida 2013) per definire le diversificate pratiche di ricerca antropologica condotte all’interno della sfera pubblica e caratterizzate da un esplicito impegno nei contesti e con gli attori locali. In Italia una ricostruzione delle tendenze applicative che hanno attraversato la storia disciplinare è contenuta nel saggio di Antonino Colajanni, Ricerca “pura” e ricerca “applicata”. Antropologia teoretica e antropologia applicativa a un decennio dall’inizio del terzo millennio (2014). Come ricordato da Melissa Checker (2009), una delle principali sfide della contemporanea antropologia applicata è rappresentata dalla risoluzione dei problemi connessi alle pratiche di disaster recovery in contesti colpiti da calamità naturali o disastri tecnologici.

[7] Il concetto di scena è stato largamente utilizzato nell’elaborazione delle teorie drammaturgiche dell’azione sociale (si vedano, tra i molti esempi possibili Burke 1945; Goffman 1969; Turner 1972). Erving Goffman ritiene, ad esempio, che la vita sociale si realizzi attraverso una costante “messa in scena” caratterizzata da comportamenti, modi di parlare e di esprimersi differenti in base ai diversi interlocutori con cui si interagisce. Nella sua analisi e definizione della scena gli elementi strutturali del contesto svolgono un ruolo meno centrale rispetto ad altri fattori, quali, ad esempio, le tecniche di ambientazione. Al contrario, il concetto di “messa in scena” utilizzato nel presente articolo tenta di far dialogare il livello delle strutture culturali e degli eventi storici con gli elementi fluidi del contesto, per comprendere l’efficacia delle performance politiche osservate.

[8] Riunione del Partito Democratico, 17 novembre 2012.

[9] S.A., conversazione privata, 8 gennaio 2013.

[10] G.M., conversazione privata, 13 dicembre 2012.

[11] 4 dicembre 2012.

[12] Non è possibile elencare in questa sede le cariche amministrative ricoperte nei decenni precedenti dai membri della mia famiglia e le diverse modalità con cui si è espressa la loro partecipazione alla vita politica locale. Solo a titolo esemplificativo, per chiarire la complessità del coinvolgimento, vorrei ricordare che nel 1998 una delle mie numerose cugine era stata eletta nella lista di opposizione al sindaco Briguglio (padre), divenendo la prima donna presidente del consiglio comunale. A dieci anni di distanza, nel periodo del post-alluvione, un’altra giovane parente rivestiva la carica di assessore alla protezione civile, in questo caso all’interno della giunta guidata da Briguglio (figlio).

[13] E. B., 17 giugno 2008.

[14] Il programma amministrativo 2008-2013 della lista Liberamente insieme per Scaletta, da cui è tratta la citazione, è reperibile nel sito http://liberamenteinsiemeperscaletta.jimdo.com/programma/ (Sito internet consultato in data 10/05/2015). In versione cartacea è stato distribuito agli elettori del comune a partire dal 10 maggio 2013. La versione definitiva del programma, in molti punti, non riesce a rispecchiare la complessità dei suoi lavori preparatori. Per esigenze di sintesi i candidati hanno scelto, infatti, di non indicare il percorso di attuazione dei singoli obiettivi previsti, demandando ai comizi elettorali la sua specificazione.

[15] Riunione del comitato Gruppo cittadino per Scaletta, 12 febbraio 2010.

[16] C. S., 26 giugno 2011.

[17] Riunione del Partito Democratico, 17 novembre 2012.

[18] Si vedano al riguardo le dense analisi proposte nel volume curato da Benadusi, Brambilla, Riccio (2011), Disaster, Development and Humanitarian Aid. New Challenge for Anthropology, in particolare i saggi contenuti nella seconda sezione. In riferimento al contesto di Scaletta ho discusso un caso di risposta al sistema dell’assistenza e definibile nei termini di una “pratica di resistenza” in un mio articolo in corso di pubblicazione (Falconieri 2015).

[19] 24 luglio 2014.