La catastrofe come occasione

Etnografie dal sisma emiliano tra engagement e possibile consulenza

Rita Ciccaglione

Università di Roma “La Sapienza”

Silvia Pitzalis

Università di Roma “La Sapienza”

Table of Contents

Introduzione
Sisma.12, “pratiche dal basso” e spazi del politico
Commercianti e centro storico: forme di “consumo” del passato
Conclusioni: tra riflessività e applicazione come impegno etico-politico
Bibliografia

Abstract: This essay is the result of two studies conducted in the Bassa Emiliana, where an earthquake occurred in May 2012. Specific interlocutors are the members of the committee Sisma.12 and the storekeepers of Mirandola’s old town. Considering the bottom-up practices observed and the international disaster management as complementary and interacting frames, these two ethnographies show the dual rhetoric of “opportunity” and the ways in which local people interact with it, accepting it but manipulating its meanings towards their aims and life expectations. If in the former case the notion of opportunity is declined into practices of “critical” resilience that aim to increase political participation, in the latter the meaning assumed reveals the incorporation of the “capitalism of disasters”. These two cases disclose the interactive dynamics generated by local reactions to public intervention, considering the position of social actors towards management apparatus. Thus, the political commitment and the public role that the anthropologist assumes in the environment of disaster has to clarify the politicization processes visible during these situations, emphasizing choices and decisions that derive from and determine the contextual practices. The emerging diversity of actions and points of view shows to the anthropologist some possible positions towards actors, contextual complexity and applications. Over the course of the first ethnography, a militant praxis is assumed as a prevalent methodology; in the latter case, ethnography is viewed as a form of counseling for lay actors. Finally, both the studies wish for the ethnographic encounter to involve the subjects in a game of mutual reflexivity as it can constitute the key of an intrinsically political engagement in the practice of this branch of knowledge.

Keywords: 2012 Emilia Earthquake, Bottom-up practices, Capitalism of disasters, Reflexivity.

Introduzione

Questo contributo[1] nasce dal connubio di due ricerche svolte nella Bassa emiliana colpita da sisma nel 2012. Trattandosi di un lavoro scritto a quattro mani, una particolare scelta espositiva ha guidato la sua stesura. Si è preferito utilizzare uno stile impersonale per la parte introduttiva e quella conclusiva, in cui si tenta di mettere in relazione i risultati delle due ricerche per la produzione di un discorso comune, mentre i singoli capitoli a base etnografica sono scritti mantenendo la prima persona. Questa scelta riveste anche una valenza epistemologica dal momento che contribuisce ad evidenziare l’aspetto relazionale della pratica etnografica.

Le maggiori scosse si abbattono sul territorio della Pianura padana il 20 e il 29 maggio, interessando maggiormente le provincie di Modena, Ferrara, Mantova, Reggio-Emilia, Bologna e Rovigo. Esse provocano 27 morti, circa 15.000 sfollati[2] e ingenti danni al patrimonio storico-culturale (con il crollo di palazzi, castelli, chiese e campanili), e al tessuto economico-produttivo, danneggiando aziende agricole e industrie (nell’ambito della produzione casearia e del biomedicale). Il tessuto sociale colpito risulta estremamente vario e la popolazione implicata in maniera trasversale: dal panettiere al grande imprenditore, tutti hanno subito danni dal terremoto. Esso può essere considerato un livellatore sociale, che nel suo manifestarsi abbatte inizialmente le differenze socio-economiche, le quali riemergono più potenti nella fase post-disastro.

In questo contesto, la prima ricerca è stata realizzata tra ottobre 2012 e novembre 2014, prediligendo una micro-area del cratere, la provincia modenese tra i comuni di Mirandola, Cavezzo, San Possidonio e Concordia sul Secchia. Interlocutori specifici sono i membri del comitato di terremotati “Sisma.12”,produttori di politiche “dal basso” proposte come alternative alla gestione del post-sisma operata dalle istituzioni e analizzate come risposte socio-culturali alla catastrofe[3]. La seconda si concentra a Mirandola nel periodo dell’immediata emergenza post-terremoto, per poi continuare con un ulteriore periodo di campo a ridosso del primo anniversario. Qui le modalità di gestione post-disastro e la rappresentazione sociale (Moscovici 2005) riguardante il patrimonio storico-artistico locale, gravemente colpito, mostrano una particolare relazione d’intreccio nelle pratiche e nelle retoriche prodotte dai commercianti del centro storico cittadino.

Sebbene gli attori sociali appartengano a gruppi con interessi differenti, è possibile rintracciare alcuni elementi comuni che permettono di confrontare i risultati delle ricerche per un’analisi della complessità contestuale. Innanzitutto, entrambi i gruppi sociali operano attraverso una serie di azioni definibili “pratiche dal basso”, di cui si propone una lettura che fa uso del concetto di “tattiche” di De Certeau. Secondo l’autore, «esse sono fasi imprevedibili in un luogo ordinato dalle tecniche organizzatrici dei sistemi. […] Queste “traverse” rimangono eterogenee rispetto ai sistemi che intersecano e dentro i quali si insinuano astuzie di interessi e desideri differenti» (De Certeau 2010: 70). Le pratiche degli attori a cui ci si riferisce possono, dunque, essere individuate in quelle «procedure comunemente diffuse […] adottate per eludere i meccanismi della disciplina conformandovisi, ma solo per aggirarli» (De Certeau 2010: 9). Tale posizionamento teorico consente di considerare l’analisi di suddette pratiche in un’antropologia dei disastri che si dedica all’indagine dei dispositivi di gestione delle catastrofi, ma «si propone al contempo di andare al di là della contestazione della potenza di tali dispositivi e di prestare attenzione agli interstizi e alle falle, a ciò che resta delle pratiche ordinarie e delle possibilità di critica durante la catastrofe» (Revet, Langumier 2013: 14).

In tale cornice interpretativa, il primo caso di ricerca osserva le modalità, rivendicate tramite traiettorie socio-politiche, attraverso cui Sisma.12 si propone come soggetto alternativo alle istituzioni, in relazione al processo di ricostruzione e al potere decisionale. Il secondo caso si riferisce invece alle pratiche autopromosse e messe in atto dai commercianti mirandolesi, nel comune obiettivo di ricollocarsi dentro o fuori il centro storico danneggiato dal sisma.

Considerando la catastrofe come disarticolazione del sistema di significati locali si osserva come, in determinati casi, possa emergere la necessità di ripristinare un nuovo equilibrio, la cui portata dipenderà da esigenze e scelte dei diversi attori sociali. Questi sono posti nella condizione di ripensare il proprio sistema di appartenenza e di compiere uno sforzo culturale per ri-organizzare efficacemente l’ambiente (non solo ecologico, ma anche socio-culturale e politico) in cui vivono, adattando quest’ultimo a un’idea collettivamente condivisa di “società efficace” (Ligi 2009). In questa fase, i soggetti operano una profonda e accurata riedificazione del proprio essere soggetti “politici”, ripensando la catastrofe in maniera propositiva, mossi dalla volontà di ripensare il territorio come proprio patrimonio socio-culturale, di essere artefici del suo riassetto e di autocostruirsi un futuro migliore.

I soggetti delle due ricerche si rifanno a un comune denominatore per il ripensamento dell’evento catastrofico e delle sue conseguenze: entrambi rappresentano e agiscono il terremoto in quanto occasione. Richiamando l’attuale antropologia dei disastri, si può evidenziare come tale retorica sia parte di un più ampio e recente paradigma. Dagli anni Cinquanta-Sessanta un “mondo delle catastrofi naturali” (Revet 2013) si costituisce progressivamente tramite processi di istituzionalizzazione e internazionalizzazione basati su discorsi e prospettive autolegittimanti (Revet 2011). Esso fonda e costruisce il dibattito sulle catastrofi modellando e fornendo concetti e categorie. Nello specifico, nella Hyogo Framework for Action 2005-2015 è individuabile un passaggio da una “cultura del rischio” a una “della sicurezza e della resilienza” (Benadusi 2014). Tale categoria acquista un ruolo preminente rispetto a quella della vulnerabilità, sua complementare, alimentando una retorica della catastrofe come “occasione” di sviluppo di capacità adattive positive. Affinché tale resilienza potenziale sia attivata, particolari procedure, alternative a modelli di intervento top-down, sono sviluppate nelle logiche internazionali di gestione. Il Community-based Disaster Risk Management (Benadusi 2013) diviene particolarmente popolare, trasformando la catastrofe e la ricostruzione in una “finestra di possibilità”, occasione per la ridefinizione di rapporti di potere e livelli di governance (circolazione d’informazione e conoscenza, partecipazione alle decisioni pubbliche, equità nell’accesso alle risorse, riduzione delle marginalità). Tuttavia, se in questo frame politico-istituzionale si può considerare la resilienza come «un’attitudine trasformativa capace di promuovere il cambiamento e di modificare le disparità politiche e sociali esistenti, o in altre parole, di cambiare i fattori che riproducono l’ineguaglianza nel contesto locale» (Benadusi 2014: 180), essa può anche denotare un orientamento conservativo. Questa ambiguità di fondo rende tale categoria funzionale a un uso politico ed economico: rappresentando il cambiamento come un prodotto della catastrofe, il cosiddetto capitalismo dei disastri trova modo di operare per ripristinare un “ordine” perduto. Entrambe le categorie, infatti, presuppongono una metafora legittimante, quella della “frattura”: la catastrofe è descritta come modificazione violenta e improvvisa e il ripristino dell’ordine diviene imperativo motivante l’intervento, in risposta ai bisogni delle popolazioni colpite. La retorica dell’occasione è, allora, attivata attraverso «l’uso strumentale della catastrofe da parte di istituzioni governative nazionali e transnazionali (sia per i cosiddetti disastri naturali sia per quelli mediati dall’azione umana) per promuovere e autorizzare una serie di interessi capitalistici privati e neoliberali» (Schuller 2008: 20), spesso favorendo il mantenimento dello status quo se non l’incremento delle vulnerabilità.

A partire dalla considerazione di un impianto discorsivo e operativo, istituzionalizzato e internazionalizzato, proponente la rappresentazione della catastrofe come occasione, le due ricerche tentano di restituire sul piano etnografico l’ambivalenza di tale retorica, i modi con cui i soggetti sul piano locale interagiscono con essa adottandola ma al tempo stesso manipolandone i significati in relazione ai propri interessi, intenzionalità e prospettive di vita. La diversità di visioni e pratiche che ne scaturisce indica all’antropologo varie possibilità di posizionamento di fronte agli attori, in rapporto alla complessità del contesto e in termini applicativi per la propria disciplina.

Nel primo caso, indagando le reazioni al sisma elaborate dai membri del Comitato, emerge come esso sia stato un’occasione, un momento di apertura al mutamento e di consapevolezza della propria condizione. Si evidenzia, dunque, come gli attori abbiano attivato un’idea di resilienza, nel senso di trasformazione migliorativa presente nel discorso internazionale, ma siano anche stati in grado di farne emergere le ambiguità, nel tentativo di superarle. Rivendicando politicamente la propria volontà di cambiamento e potenzialità di soggetti, essi si schierano contro quelle forme di gestione che attenterebbero a un diritto comune di ricostruzione del territorio e tentano di opporsi a meccanismi decisionali volti al prevalere di interessi privatistici o oligarchici. La condivisione dell’ideologia e della visione politica degli attori permette alla ricercatrice di partecipare attivamente e consapevolmente a queste pratiche. Ponendo la comprensione antropologica al servizio dei fini perseguiti dai soggetti ed essendo l’etnografa portatrice di strumenti analitici in grado di operare una riflessione “differente”, può contribuire all’elaborazione di traiettorie di rinnovamento pensate sulla base dei punti di forza e delle criticità rivelate dal suo studio.

Nel secondo caso, è apparso come per i commercianti mirandolesi il terremoto sia stato un’occasione per ampliare i circuiti di vendita in concorrenza alla grande distribuzione. Tale forma di capitalismo dei disastri si inserisce nella configurazione culturale locale, interagendovi. La forma di gestione applicata limita l’accesso al centro cittadino dichiarandolo in toto “zona rossa” tramite una retorica della sicurezza indistinta. Tuttavia, i commercianti rielaborano tale spazio ridefinendolo attraverso le retoriche e pratiche dell’heritage e del patrimonio e manipolano il significato simbolico del centro “storico” in funzione di un suo “consumo” e dell’esclusione di specifici gruppi dalla sua fruizione. La mancata adesione a tali scelte culturali comporta per l’antropologa una continua oscillazione tra lo sforzo di trasmettere nelle relazioni negoziali del campo le criticità rilevate e la necessità di una distanza analitica di fronte alle motivazioni dei commercianti. Sebbene non si sia ricoperto alcun ruolo attivo al loro fianco, si è intravista in questa particolare relazione una possibile “consulenza” per tali pratiche dal basso, nel tentativo di rendere i soggetti consapevoli delle costruzioni culturali da loro stessi attivate e dei loro esiti concreti.

Pur sottolineando le differenze tra le modalità applicative, si segnala un anello di congiunzione che non ne permette una lettura dicotomica: esse sono legate da un condiviso obiettivo e da una medesima idea di antropologia che, come sapere critico di frontiera (Fabietti 1999), è volta alla creazione di discorsi negoziati e tende ad armonizzare le esperienze (Piasere 2002) in maniera dialogica. Il ricercatore si impegnerà, pertanto, per la realizzazione collettiva di un senso comune critico, elaborando possibilità analitiche e descrittive della realtà. Considerando l’antropologia un sapere riflessivo, è possibile trasmettere tale conoscenza, acquisita con una volontaria curvatura dell’esperienza (Piasere 2002), ai soggetti che conosciamo. Tramite una negoziazione sempre attiva di significati, si può rendere l’“Altro” consapevole della natura costruttiva e costruita della cultura come modo di stare nel mondo. Pertanto, nel recuperare la specificità epistemologica e metodologica della disciplina, il campo diventa terreno di conoscenza e di pratiche e l’intento politico-applicativo una fusione di teoria e prassi sociale, con risultati e riscontri diversi.

Sisma.12, “pratiche dal basso” e spazi del politico

Intendendo la catastrofe come scombinamento sociale conseguente all’impatto di un agente distruttivo su un gruppo (McLuckie 1975), il terremoto è analizzato come sgretolamento della struttura sociale e del sistema di significati che innesca una loro profonda trasformazione. Ciò pone i soggetti coinvolti nella necessità di ri-pensare se stessi e il mondo e di ri-organizzare lo spazio vissuto, conformandolo a un ideale collettivo di società (Ligi 2009). L’evento è utilizzato dai membri di Sisma.12 come punto dal quale criticare la situazione dei livelli di governance e il rapporto di potere tra istituzioni e terremotati per modificare la propria condizione. Così mi riferisce Giulio, membro del Comitato:

Il terremoto ha messo in evidenza la capacità delle istituzioni di rispondere alle problematiche che si creano. E ci si rende conto, guardando come vengono affrontati i problemi, che son sempre dei gruppi ristretti che si sobbarcano, aumentando il loro tempo sulla dedicazione della cosa pubblica, invece di un coinvolgimento ed un allargamento delle problematiche. Permane un’esclusione delle risorse mentali che vivono in quel territorio e c’è sempre più l’affrontare i problemi utilizzando i canali tradizionali che sono in crisi, sono sfittici! I coinvolgimenti sono stati più assemblee che testimoniavano quello già scelto, perciò è prevalso l’uso dell’assemblea come momento di sostegno alle scelte già effettuate. Di conseguenza si è accentuata la crisi delle istituzioni. Le ordinanze fanno vedere che essendoci un minor coinvolgimento delle risorse mentali del territorio, perciò dei pensieri, si demanda a queste associazioni e all’apparato dirigenziale. Sono emerse queste contraddizioni perché è stato visto il problema di come motivare, rispetto a regole dello Stato e della Comunità Europea, scelte e fondi da assegnare, che non invece l’oggettiva condizione in cui vivono i cittadini[4].

La gestione del post-sisma emiliano da parte del Partito Democratico, rappresentato da Vasco Errani e la sua Giunta, è amministrata fin nei particolari a livello legislativo, creando un apparato burocratico che stabilisce i valori utili per definire lo stato delle abitazioni, i diversi gradi di inagibilità, le zone rosse, gli accampamenti legali e non, i tempi degli aiuti, quelli della ricostruzione e le sue modalità, esercitando un controllo meno riconoscibile ma altrettanto coercitivo. Le istituzioni, concepite dai soggetti secondo il paradigma dello stato-nazione, appaiono relegate alla funzione di appoggio all’attività di attori non rappresentativi, i cui interessi ed obiettivi, sotto l’influenza del neoliberismo e del capitalismo, sono sempre più di natura privata.

Sisma.12 sorge intorno all’estate del 2012, dall’insoddisfazione degli “abitanti” dei campi autogestiti venutisi a creare per iniziativa di alcuni terremotati e in alternativa a quelli della Protezione Civile. Costituitosi come associazione nell’ottobre del 2012, esso conta sulla carta circa tremila tesserati ed è provvisto di un presidente e di uno statuto, nel quale si definisce come un comitato “territoriale, apartitico e trasversale”. I soggetti costantemente attivi al suo interno sono circa una quindicina e ne costituiscono il direttivo. Incontrandosi settimanalmente, comunicano tramite una mailing-list, oltre che grazie a rapporti personali. Le decisioni e le proposte vengono concordate “a maggioranza”, e successivamente sottoposte all’assemblea pubblica bisettimanale. Le rivendicazioni, quali il diritto alla casa e al lavoro, l’avere parte attiva nel processo di ricostruzione e la salvaguardia del proprio territorio, sono promosse tramite manifestazioni, cortei, presidi, incontri con le istituzioni, conferenze stampa, partecipazione a trasmissioni radiofoniche e televisive.

Nelle volontà di Sisma.12sono evidenziabili due aspetti principali:

1) Il rifiuto della ricostruzione messa in atto dalle istituzioni e imposta ai terremotati senza un loro coinvolgimento nel percorso decisionale. Ciò avviene tramite l’elaborazione di un apparato legislativo regolato da una forte burocratizzazione (sono oltre 300 le ordinanze emanate) che sclerotizza la ricostruzione anziché facilitarla.

2) Il desiderio di superare questa situazione tramite le proprie energie rigenerative, realizzando nuovi percorsi basati sulle loro esperienze, costruendo specifiche pratiche “dal basso” come l’auto-costruzione, l’autogestione, modalità di economia informali, pratiche di mutuo soccorso e di solidarietà, la creazione di forti legami sociali basati sulla condivisione. Esse nascono da una specifica modalità di pensare il mondo e il proprio essere soggetti politici, proponendo un processo di governance locale del territorio, una forma di ri-edificazione collaborativa e partecipata che, oltre alle case, ricostruisca anche il tessuto sociale, facendo riemergere il senso comune. Così si esprime Manuel, un altro membro del Comitato:

Il terremoto non ha distrutto solo le nostre case, il terremoto per chi ha avuto la sfortuna di viverlo, in un primo momento amplifica la voglia di socialità e comunione; successivamente avviene una separazione netta tra l’individuo eil territorio, una lacerazione a livello di comunicazioni, socialità che va al di là del mattone. Quello che manca adesso nelle aree del cratere sono centri e organismi dove le persone possano rivivere questa socialità, anche e soprattutto in senso propositivo. Si ha la voglia di partecipare in maniera attiva, di riappropriarsi del proprio destino, ma manca un percorso comune per arrivare alla realizzazione di quest’obiettivo. Manca una presenza di istanze diverse da quelle che passa il sistema, costruendo percorsi alternativi partecipati, puntando sull’autorganizzazione dei terremotati[5].

Investigando le pratiche “alterpolitiche” elaborate dai membri di Sisma.12 come modalità propositive e attive di reazione all’evento emerge il fatto che per essi il terremoto sia un’occasione, un momento a partire dal quale, raggiunta la consapevolezza della propria condizione, prende forma una forte volontà/necessità di mutamento; essa si origina dalla condivisione di un immaginario prodotto collettivamente e proteso alla creazione di un avvenire migliore. Così riferisce Valerio durante un’assemblea del Comitato:

Il difficile viene ora, durante la ricostruzione, periodo nel corso del quale si sta vivendo un processo di espropriazione non solo della propria casa ma anche della capacità decisionale riguardo al futuro individuale e collettivo. In questo momento importante è necessario un intervento forte e costante, che faccia emergere la possibilità di essere, di esistere, di pensare un terreno condiviso, comprendente tutte quelle realtà che si muovono all’esterno degli organi decisionali istituzionali, per aprire delle “officine”, dei “laboratori” dove l’uomo è al centro, per ricreare le coscienze e dare la possibilità di un futuro attraverso l’autodeterminazione[6].

Partendo dall’argomentazione di Abélès (2001), secondo il quale è importante che l’antropologia oggi si interessi a luoghi del politico non considerati convenzionalmente tali, Sisma.12 è interpretato come uno “spazio del politico”, fucina creativa di pratiche alterpoliticheche propongono precise modalità di gestione del post-disastro, in contrasto con quelle istituzionali. Queste sono modi di agire nel post-terremoto nate in riferimento alla percezione di uno squilibrio nelle relazioni socio-politiche, che denuncia la limitatezza imposta alle potenzialità dei soggetti.

Secondo il “capitalismo dei disastri” l’evento spesso viene strumentalmente utilizzato dall’egemonia per ribadire e rafforzare il potere coercitivo sui soggetti e per accrescere forme di governance informate dal capitalismo e dal neoliberismo. Se da un lato l’evento fisico può essere pensato come un livellatore sociale, dall’altro, nel contesto attuale, il disastro si manifesta come un’occasione capitalistica che, soprattutto nella fase dell’emergenza e della ricostruzione, acuisce le differenze. Le pratiche esposte possono allora essere intese come forme di “ri-esistenza” a questa tipologia di potere, costituente una prassi emancipatoria tesa alla riappropriazione, risignificazione e cura del proprio essere nel mondo in momenti o spazi caratterizzati da un sentimento di tensione e/o minaccia.

Per studiare questo contesto, passo i primi due mesi di investigazione lasciandomi perduttivamente guidare dal campo. Una volta individuato un punto di vista originale dal quale analizzare la dinamica, quello appunto di Sisma.12, decido di seguirne le attività sia al suo interno, partecipando alle assemblee, sia negli incontri con l’esterno, tentando di coglierne il rapporto con le soggettività “altre” implicate nel processo (istituzioni, media, terremotati non facenti parte del Comitato).

Il percorso di lotta veicolato dal Comitato è intrapreso da alcuni terremotati tra i 35 e i 65 anni, portatori di principi ed esperienze soprattutto di sinistra, estrema sinistra e di gruppi extraparlamentari: il contesto di ricerca risulta fortemente politicizzato. Mi relaziono con questa peculiarità rendendomi conto che l’acquisizione della conoscenza etnografica è un processo all’interno del quale il ricercatore, mentre opera la sua osservazione e la sua interpretazione dell’altro, è egli stesso oggetto di interpretazione e acquisizione di senso. In quanto portatrice di un’ideologia politica afferente ad una certa “sinistra storica” condivisa dai membri di Sisma.12, vengo “adottata” (questo è il termine utilizzato dagli interlocutori) come parte integrante del “gruppo”. Considerata come una voce da un lato interna – data la mia lunga partecipazione ai loro percorsi – dall’altro esterna – perché non implicata personalmente negli eventi – il mio parere, ritenuto alla stregua di quello degli altri membri, presenta il valore aggiunto, secondo gli interlocutori, di creare degli scorci di possibilità altri, un punto diverso da cui osservarsi, l’occasione per trasformarsi e, se necessario, migliorarsi.

La consapevolezza della natura contrattuale della relazione con i soggetti, dell’eventualità di essere utilizzata dagli attori per promuovere una particolare visione della dinamica e il fatto che il campo sia sempre frutto di collaborazione, mimesi, rottura o simpatia (Mahon 2000), è motivo di auto-critica e dubbi sulla validità del mio lavoro. Se, però, praticare la riflessività significa anche scegliere la propria metodologia in riferimento al contesto e alle relazioni che si producono sul campo (Koensler-Rossi 2012), la partecipazione attiva che decido di praticare come metodo e il credo politico-morale che intendo far emergere, è la chiave che mi fornisce l’accesso al campo.

Emergono a riguardo alcune questioni metodologiche sul ruolo del ricercatore e sul valore della sua restituzione, soprattutto per quanto concerne lo sguardo distaccato dell’analisi scientifica e delle attitudini ideologiche del ricercatore entro il contesto di ricerca. L’esplicitazione del posizionamento serve all’etnografo per la definizione di limiti e criticità della sua ricerca (Borofsky 2005), spingendolo a interrogarsi sull’utilità pubblica dell’indagine, sulle premesse etiche della raccolta, dell’elaborazione e della divulgazione dei dati etnografici e sulle proprie responsabilità verso le soggettività con cui fa ricerca. Può infine impegnare il ricercatore nel supportare le cause dei soggetti studiati, in quanto i prodotti etnografici sono strumenti di riflessione che possono diventare parte del sapere delle comunità indagate (Angel-Ajani, Sanford 2006; Rossi 2008). Il mio posizionamento è oggetto di attenta riflessione, portandomi a osservarmi nel contesto di ricerca: la scelta di adottare uno schieramento “dalla parte di” Sisma.12 assume un preciso carattere metodologico. Durante l’esperienza etnografica mi si propone – non direttamente ma attraverso il coinvolgimento, l’affidamento di specifici compiti, attraverso incoraggiamenti e stimoli – di utilizzare il mio contributo anche per supportare la lotta. Questo faccio, per tutto il corso della ricerca.

Commercianti e centro storico: forme di “consumo” del passato

A Mirandola, la catastrofe e la sua gestione determinano l’impraticabilità del centro storico e la necessità di ricollocarsi per le attività ivi situate. In particolare, i commercianti si auto-organizzano per creare nuove strutture per ospitare i propri esercizi. Sotto la spinta dell’espansionismo del commercio e del consumo di massa, essi individuano nel terremoto l’occasione per tentare di collocarsi con successo nei circuiti concorrenziali della grande distribuzione.

La sfida è intrapresa ridefinendo ciò che è “storico”, aderendo a un’immagine di tradizione e autenticità del locale propria del paradigma del patrimonio e dell’heritage. L’inserimento in questa rete è legittimato, infatti, da una rappresentazione che descrive il centro cittadino nella sua “unicità”, contrapponendosi a un modello omologante ritenuto tipico della distribuzione di massa. È in rapporto a tale fenomeno che il passato è salvaguardato e il paradigma patrimoniale attivato come individuazione di eccellenze da preservare, «proprietà visibili e spettacolari emergenti da una comunità indifferenziata» (Dei 2012: 120). Assimilando il concetto di patrimonio a una nozione essenzializzante di cultura, questa cornice transnazionale ritrae la “tradizione” in quanto permanenza nel presente di tratti culturali autentici del passato (Dei 2012: 121).

Prima e dopo il sisma, il centro storico mirandolese è protagonista di un “revival” come luogo da tutelare e valorizzare. Trovandosi ai bordi della Circumvallazione, perimetro viario creato seguendo quello delle mura abbattute, la piazza è la porta del centro su cui si affaccia lo storico castello dei Pico. Essa è caricata di un valore simbolico, luogo in cui si condensa la storia cittadina e l’identità. Tuttavia, già prima del sisma, è in atto una progressiva perdita di tale funzione aggregativo-simbolica. Una giovane imprenditrice nel settore della ristorazione mi dice:

Quando ero piccola era un pullulare di gente. La vita di Mirandola era la piazza. Negli ultimi anni è cambiata molto e, secondo me, perché l’intenzione era far girare molto sui centri commerciali. Poi gli extracomunitari, che erano lì. Ed era un pullulare di culture che si scontravano, e anche noi non ci prendevano la briga di interagire. Magari chiudevamo presto perché avevamo paura[7].

Si lamenta, dunque, l’apertura di diversi centri commerciali in periferia che comporterebbero un’esternalizzazione delle abitudini di spesa diminuendo il passeggio-passaggio, anima del commercio. Inoltre, la piazza e il centro storico non sono più luoghi d’incontro per i mirandolesi poiché frequentati nelle varie ore del giorno e della notte da immigrati di cui mal si tollerano i comportamenti. Un abitante del centro storico afferma che «i mirandolesi hanno, ahimè, ceduto il centro agli immigrati. Di sera non c’era più quel bel passeggio dei piccoli centri italiani. Non è che non fosse più il centro, ma sicuramente aveva perso l’unicità dei mirandolesi»[8].

Se per le persone ciò produce un senso di espropriazione del luogo, per i commercianti tale difficile relazione acquista una connotazione particolare. Una giovane donna osserva:

In centro ci sono le cose un po’ più di marca, ma il negozio di un cinese ce n’è uno solo. Se possono non li fanno aprire, cercano di mantenere la fisionomia del vecchio centro storico. Poi da qualche parte dietro la piazza c’è una parrucchiera cinese, ma se guardi appena arrivi, la presentazione, non c’è niente di tutto ciò. È un modo di mantenere un minimo di identità, perché la cartolina di Mirandola è questa. Se tu passi intorno alla Circumvallazione, quello che vedi è questo, il più bello[9].

Si tenta, dunque, di preservare la piazza dall’“occupazione” degli immigrati vietando loro l’ingresso in alcuni bar d’élite, ma anche controllando l’affitto dei locali per evitare la vendita di “cineserie”, in modo da non permettere il calo di immagine e di prestigio del commercio in centro storico. I mirandolesi sanno che si va lì per comprare “qualcosa di particolare”. Oltre alle attività di boutique, gioiellerie e vendita di prodotti artigianali, esso ospita svariati mercatini con ricorrenza periodica dedicati all’antiquariato e all’agricoltura biologica. Un commerciante di mezza età dichiara:

Il centro deve vivere una sua realtà storico-socio-culturale. Devono esserci attività peculiari, molto particolari, dal piccolo negozio della frutta… Adesso i clienti vanno nei grandi mercatoni e il centro tu lo devi gestire con le particolarità. Un centro storico vive di turismo e di attività collaterali, di alta professionalità. Allora un negozio di frutta e verdura deve essere un negozio che ha delle cose molto particolari insieme a quelle che vanno bene per tutti. Il centro devi valorizzarlo per quello che è, che è una nicchia, una nicchia di valore[10].

La storicità è trasformata in consumo e reinterpretata in termini economici: il passato è dotato di una “patina” (Kopytoff 1986: 80-81) di autenticità che lo rende desiderabile e, dunque, vendibile. La piazza e le vie adiacenti sono presentate come la “vetrina” della città tramite un meccanismo di iconicità (Palumbo 2003: 196-197), creando l’immagine del piccolo centro storico tradizionale con attività che ne sottolineano la ricercatezza e il gusto.

In tale strategia retorica si collocano le pratiche dei commercianti mirandolesi anche nel post-sisma. Essendo la riapertura della zona rossa progressiva e abbastanza rapida, a settembre molti negozianti possono decidere se riaprire la vecchia sede. Alcuni compiono questa scelta rispondendo all’omologazione del prodotto seriale e dello spazio commerciale con l’offerta di unicità (l’esclusività del prodotto o della marca venduti). Molti, però, delocalizzano verso la periferia in strutture permanenti o provvisorie, entrando nelle aree in cui si concentrano i centri della grande distribuzione. Il commesso di un negozio prima in centro mi spiega:

Riapriamo lì dove è ora il centro di tutte le attività commerciali, nell’area del centro commerciale. Il programma di riaprire in centro non aveva basi solide, ora per qualsiasi cosa ci sarà un cantiere, quindi poi come fai ad avere posto per le attività? Poi chi ha un’attività deve anche stare sulla ruota degli altri. Non puoi riaprire da solo in centro storico. Se sono tre negozi e un bar chi ci viene in centro tra calcinacci e cantieri? Bisogna far ripartire tutto insieme perché, se ci dividiamo, poi le persone devono spostarsi da un lato all’altro della città[11].

Lo spostarsi in aree commercialmente appetibili, già caratterizzate da flussi di clientela, aumenta l’attrattività del singolo negozio con la pratica dello “spostarsi insieme”, creando consorzi informali che garantiscono all’utenza la possibilità di comprare più prodotti nello stesso luogo. Inoltre, chi era in centro condanna la messa in sicurezza o le future opere di ripristino dei “monumenti” poiché impediscono, con i cantieri, la ripresa delle attività commerciali. Chi aveva il proprio esercizio presso una location “storica”, perché secolare, è felice di allontanarsene poiché fatiscente e mal tenuta. Un ristoratore mi racconta della sua vecchia sede:

Se uno lo guardava da fuori era come adesso, terremotato, una catapecchia. Eri inserito in un edificio storico, ma se guardavi da fuori, uno che non ci conosceva non sarebbe mai entrato. Se fosse stato tutto a posto allora poteva avere quella caratteristica di storico che poteva anche attirare l’attenzione, ma così era proprio un rudere. Non era un pezzo di storia, era un rudere. È chiaro che essere in un centro storico… Ma che poi sia vitale perché uno esterno non ci viene a Mirandola se non c’è niente da vedere. Quindi il senso è questo. Se il centro è veramente un centro storico, cioè con qualcosa da andare a visitare ha un senso essere in un centro storico, ma se tutto questo manca non conta niente[12].

Il valore del centro storico non sta, allora, nella sua storicità, ma nella potenziale capacità attrattiva in quanto spazio “storico”. La scelta della delocalizzazione deriva dalla stessa diffusione del paradigma patrimoniale come forma di consumo del passato che ne legittima un’obsolescenza. La dimensione storica non è più necessaria quando non funzionale al consumo. Inoltre, la rappresentazione del centro come vetrina da mostrare esclude coloro che usano realmente tale spazio, gli immigrati. Nello scenario di raffinatezza e rarità dato dai commercianti, essi sono percepiti come elementi non desiderabili. Allo stesso modo si cerca di ripristinare un tempo in cui il centro storico era inteso nel suo valore simbolico, come luogo d’identità per i mirandolesi – condizione passata già prima del sisma.

La catastrofe funziona per i commercianti come incentivo per migliorare le condizioni di concorrenza economica preesistenti. Tuttavia, considerare il capitalismo dei disastri come modello gestionale, sfruttante lo shock della catastrofe come occasione per l’introduzione di nuove forme economiche, si dimostra una lettura parziale per il presente caso etnografico. Se è vero che l’interazione tra tali pratiche e il paradigma patrimoniale ha prodotto una rifunzionalizzazione della storicità in quanto consumo, autorizzando la diffusione di modelli economici di stampo neoliberista, bisogna sottolineare le specificità contestuali. L’aspetto più evidente, allora, non è tanto l’espansione delle forme economiche del mercato capitalista nel contesto locale, quanto l’amplificazione della vulnerabilità di determinate fasce della popolazione, gli immigrati esclusi dalle pratiche di rappresentazione e di azione. Inoltre, se il capitalismo dei disastri è inteso come dispositivo impositivo, ciò risulta poco calzante in merito all’agency degli attori locali. Essi sono in grado di dialogare con tale modello e di rimaneggiare volontariamente la propria cultura per aderirvi, tanto da non poter essere definiti marginalità, sebbene inseriti in relazioni di potere.

Alla capacità di rielaborazione che i soggetti dimostrano rispetto alle pratiche di gestione della catastrofe va aggiunta quella sviluppata nei confronti dell’etnografo. La ricerca di campo è qui intesa come una pratica conoscitiva che unisce l’osservazione diretta dello spazio urbano e la dialogicità propria della metodologia antropologica. L’approccio è sviluppato a partire dall’individuazione dei luoghi di concentrazione delle attività commerciali tramite osservazione o conversazioni con gli abitanti, per poi passare alla frequentazione di tali luoghi come cliente. Ciò non in funzione di un’analisi situazionale, né come “atteggiamento di facciata”, ma per apprendere le regole interpretative della comunicazione (Fabietti 1999) al fine di una possibile negoziazione dei significati rispetto alle tematiche di mio interesse. Solitamente, da chiacchierate informali passo alla richiesta di un’“intervista”, chiarendone l’uso come strumento flessibile e non strutturato, e dopo aver esplicitato il mio ruolo di ricercatrice. In tal modo il mio posizionamento è volto alla costruzione dialogica di cornici interpretative e alla rilevazione dei comportamenti innescati dallo stesso dialogo.

Presentandomi come ricercatrice indipendente e mancando del filtro dell’istituzione accademica, la mia identità di antropologa, portatrice di un sapere scientifico valido, ne esce minata. Nella maggioranza dei casi sono confusa con una giornalista, collettore di rivendicazioni, lamentele e testimonianze. Se da un lato vengo vista come una possibile fonte di visibilità e riconoscimento, dall’altro poco si comprende la mia pertinenza. La mia inutilità è, poi, decretata quando negozialmente esprimo interpretazioni divergenti con la rappresentazione dei commercianti. L’evidenziazione dei meccanismi culturali innescati provocava un irrigidimento delle posizioni o operazioni di nascondimento. La mia legittimazione sul campo è, dunque, come un’arma a doppio taglio, legata alla possibilità di un uso politico del sapere scientifico da parte di soggetti motivati da interessi e scelte specifici.

Ciò dimostra come, nella costruzione delle relazioni, l’antropologo sia di continuo alle prese con un gioco di riconoscimento che dipende dal più ampio rapporto tra narrazioni locali e idiorami (Appadurai 2012: 50) e dai processi di indigenizzazione prodotti. Praticamente e analiticamente, egli sta nella morsa tra il locale che osserva ed esperisce e la necessità di contestualizzare la località in una rete di forze di macrolivello. Pertanto, si impegna a considerare la dinamicità delle relazioni tra egemonia e subalternità culturale (Gramsci 1975).

È chiaro che il potenziale intento politico-applicativo della disciplina non potrà declinarsi come engagement, coinvolgimento a fianco di popolazioni “marginali”, e promuoverà una più profonda riflessione sulle ambiguità del binomio advocacy-consulenza. La connotazione politico-ideologica può, infatti, diventare un vizio epistemologico quando l’evidenza etnografica rende la distinzione tra politiche “dall'alto” e rappresentazioni e pratiche “dal basso” più sfumata e una dicotomizzazione meno praticabile.

Conclusioni: tra riflessività e applicazione come impegno etico-politico

Tenendo conto delle pratiche dal basso osservate e del discorso internazionale sulle catastrofi delineato nell’introduzione in quanto cornici complementari e interagenti per la lettura del sisma emiliano, si è inteso evidenziare le forme di produzione della località insite nell’azione dei soggetti. La retorica globalizzante, che suggerisce una rappresentazione della catastrofe come occasione, sembra essere fatta propria da entrambi i gruppi di attori. Tuttavia, nel primo caso, l’occasione è declinata come attivazione di pratiche di resilienza “critica” miranti all’aumento dei livelli di partecipazione politica, ponendosi contro possibili meccanismi gestionali riconducibili a forme di capitalismo dei disastri. Nel secondo, invece, l’accezione assunta dalla prospettiva dell’occasione rivela un’incorporazione di tale paradigma. Ci si trova, quindi, di fronte a specifiche modalità di indigenizzazione del discorso istituzionalizzato che adoperano forme di manipolazione eterogenee in relazione a motivazioni e aspettative di particolari gruppi. Ciò indica la dinamicità delle relazioni nel contesto locale, ma pure la diversità e pluralità di tali dinamiche registrabili su base etnografica. La comparazione dei due casi conduce, allora, all’esplicitazione di tali meccanismi e alla chiarificazione delle condizioni circostanziali che danno forma alla relazione tra antropologo e soggetti della ricerca. Il tentativo di sottolineare la relazione tra diversità di rappresentazioni e pratiche che gli attori sociali sviluppano rispetto alle ambivalenze della catastrofe come occasione e il differente posizionamento sul campo conduce, dunque, a una riflessione sul rapporto «tra varietà degli incontri etnografici e particolari declinazioni locali degli approcci al campo»(Satta 2007: 15) in termini di applicabilità del sapere antropologico.

Per quanto riguarda la ricerca svolta seguendo i percorsi del comitato locale, convinti della responsabilità etica del ricercatore di testimoniare e diffondere la varietà delle politiche a danno di soggetti marginali, si ritiene l’etnografia un metodo efficace per mettere in discussione le prassi e i discorsi dominanti. Sisma.12 è stato inteso come uno spazio del politico entro cui i soggetti, relazionandosi, condividendo e collettivizzando le proprie esperienze e visioni del mondo, tentano di costruire specifici modi di pensare la ricostruzione alternativi a quelli egemoni, atti all’avvio del proprio mutamento. La ricercatrice, riportando nell’incontro etnografico la sua concezione della realtà e ponendo il suo sapere dialogicamente in campo, può contribuire a stimolare nuove modalità di pensare se stessi e la società: per questo deve integrarsi e mescolarsi attivamente alla pratica (Gramsci 1971). Lavorare etnograficamente a supporto di queste soggettività significa adottare una prassi militante come metodologia prevalente, operando una critica sociale costante e collaborando attivamente con i gruppi con cui si lavora. Così l’etnografia si prefigura strumento di creazione di una tipologia di intellettuale “impegnato”, il quale ha il compito di stimolare e supportare i meccanismi di rottura dell’isolamento di alcune classi sociali (de Martino 1948a; de Martino 1948b). Il ricercatore impegnato è, dunque, l’intellettuale organico, se non a una classe specifica, sicuramente a una causa che, pur non coinvolgendolo in prima persona, lo impegna moralmente ed eticamente. La restituzione del suo operato dovrà avere un carattere pubblico, per una riconsegna ai soggetti con cui si è condiviso il campo, poiché frutto dell’interazione con i loro percorsi di ri-esistenza. La sua utilità sarà, allora, strumentale alla loro lotta, fattore non in contrasto con la necessità di un’analisi critica, ma costruttiva, che coinvolga l’operato dei soggetti con cui si è schierati.

Per quanto concerne il caso dell’interazione con i commercianti mirandolesi, sarà possibile pensare a una forma di consulenza per le “pratiche dal basso” che preveda il medesimo problema etico e critico di chi si confronta con l’attivazione di politiche istituzionalmente prodotte. Rispetto all’esperienza etnografica presentata, infatti, la dicotomizzazione operata tra consulenza ed engagement, considerando l’una al servizio dell’egemonia e l’altra a fianco della subalternità, vale poco tanto in relazione all’agency attivata dai soggetti quanto in termini di autonomia della disciplina. Poiché l’efficacia dell’antropologia si basa sullo scarto tra i resoconti dei nativi e la lettura dell’etnografo – lettura svincolata da un’immaginazione scientifica (Malighetti 2008: 88) che riduca la realtà a tecnicismi – è proprio recuperando tale specificità che l’antropologo può rispondere a un intento politico-applicativo mediante una profondità analitica che crei discorsi realmente alternativi al senso comune. Intendendo tale analisi come una forma di consapevolezza culturale da trasmettere, sarà compito dell’antropologa esplicitare presso gli stessi attori i limiti delle rappresentazioni prodotte e procedere attraverso una negoziazione dei discorsi che tenga conto dei rischi impliciti in tali rappresentazioni. Ciò sarà possibile incentivando un’autodecostruzione giocata sulla capacità di evidenziare la complessità del reale e di attivare una forma di riflessività che ponga gli attori locali nella condizione di rendersi coscienti delle scelte culturali intraprese. La riflessività, intesa come la capacità di chiarire i propri “concetti vicini” alla luce di “concetti lontani” e di attivare un continuo slittamento tra sospensione del giudizio e presa di posizione, diventa strumento nelle mani degli attori per un riconoscimento della densità culturale su cui operare la propria agency, possibilità di rendere la località traducibile a se stessa.

Con le dovute sfumature e i diversi esiti è possibile far emergere dal dialogo tra le due ricerche un comune atteggiamento metodologico e epistemologico. Come Gallini sottolinea richiamando de Martino, «di fatto, l’esercizio della ricerca [è] concepibile solo entro il quadro di un sistema di poteri reali che, per quanto contestabili, [costituiscono] comunque le premesse di quel fare etnologia da sostanziare come pratica, teoria e metodo del difficile compito di contribuire alla costruzione di un nuovo umanesimo» (Gallini 2007: 7).

Affermando che il processo di interpretazione etnografica sia un particolare tipo di esperimento, un esperimento di esperienza (Piasere 2002) e considerando quest’ultimo terreno d’incontro etnografico, è al suo interno che si sviluppa una riflessività intesa in senso duale e reciproco. Da un lato, la riflessività dell’etnografo riguardo al suo posizionamento è determinata dalla sua presenza “perturbativa” attraverso cui, conoscendo se stesso, conosce gli altri (Piasere 2002). Il sapere, così raggiunto grazie al dialogo, alla frequentazione e alla risonanza, porta alla comprensione del significato “altrui”. Dall’altro lato, l’“antropologo perturbatore” obbliga i soggetti a riflettere e a discutere su se stessi, sulle proprie pratiche e strategie. Da questa riflessione scaturisce un processo che innesca meccanismi di ridefinizione e/o miglioramento degli assetti socio-politico-culturali (Fabietti 1999).

Si auspica che la mobilitazione delle competenze antropologiche avvenga, allora, tramite un incontro etnografico che coinvolga i soggetti in un gioco di riflessività reciproca. Tale continua necessità di ridefinizione, in quanto trasposta dall’antropologo ai soggetti in modo negoziale e mai come expertise, può costituire la chiave di un impegno intrinsecamente “politico” nell’esercizio della disciplina. In tal senso è possibile richiamare l’approccio della “ricerca-azione partecipativa” (Tommasoli 2001) come modalità di relazione il cui fine non è esclusivamente conoscitivo, ma a sostegno di esiti pratici. Il ricercatore è, dunque, agente collettore di esperienze, la cui interazione è capace di attivare processi formativi rivolti a una presa di coscienza collettiva. Gli attori saranno posti nella condizione di comprendere il significato delle proprie esperienze, delle situazioni vissute e del ruolo che vi assumono e di attivare risorse per la risoluzione delle criticità emergenti.

Nell’ambito dell’antropologia dei disastri, i due casi presentati svelano le dinamiche di interazione che si producono nelle reazioni locali di fronte all’intervento pubblico, considerando il posizionamento degli attori rispetto ai dispositivi gestionali (Revet, Langumier 2008). L’impegno politico dell’antropologo e il ruolo pubblico che egli può assumere in contesti disastrati deve mettere in luce proprio i processi di politicizzazione delle situazioni post-catastrofe evidenziando scelte e decisioni che ne derivano e che determinano l’azione e le pratiche contestuali. Se l’ispirazione conoscitiva mira all’analisi di tali meccanismi, la responsabilità “politica” del ricercatore non può esimersi da una trasformazione della ricerca in conoscenza che possa produrre abilità e creare competenze negli attori.

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[1] Rita Ciccaglione, Università di Roma “La Sapienza”; Il riassunto, l’«Introduzione» e il paragrafo «Commercianti e centro storico: forme di “consumo” del passato» sono da attribuire a Rita Ciccaglione, mentre il paragrafo «Sisma.12, “pratiche dal basso” e spazi del politico» e «Conclusioni: tra riflessività e applicazione come impegno etico-politica» a Silvia Pitzalis.

[2] I dati reperibili alla pagina web www.protezionecivile.gov.it/jcms/it/view_new.wp?contentId=NEW33237 (sito internet consultato in data 15/05/2015).

[3] "Sisma.12" è un comitato di cittadini terremotati. Nato durante l'esperienza dei campi-autogestiti nell'estate del 2012, si è costituito ufficialmente nell'ottobre dello stesso anno. É dotato di uno statuto e un presidente e sulla carta è composto da circa seimila tesserati.

[4] Frammento dell'intervista del 15 luglio 2013 a Giulio, pensionato di oltre sessant'anni, membro attivo del Comitato. L'intervista si è svolta a casa dell'interlocutore, con diverse pause, tra la mattinata e il pomeriggio.

[5] Frammento dell'intervento di Manuel, membro attivo di Sisma.12, all’incontro informativo sul terremoto emiliano al Circolo Anarchico Berneri di Bologna la sera del 20 gennaio 2013.

[6] Frammento dell'intervento di Valerio, operaio cinquantenne membro-pilastro del Comitato, ad un’assemblea pubblica tenutasi il 24 febbraio 2013 all'auditorium di Medolla (Mo).

[7] Intervista svolta a Mirandola il 23 giugno 2012 con F.B., donna, 34 anni.

[8] Intervista svolta a Mirandola il 19 giugno 2012 con M.G., uomo, 54 anni.

[9] Intervista svolta a Mirandola il 20 giugno 2012 con S.C., donna, 30 anni.

[10] Intervista svolta a Mirandola il 21 maggio 2013con G.D., uomo, 60 anni.

[11] Intervista svolta a Mirandola il 26 giugno 2012 con M.V., uomo, 40 anni.

[12] Intervista svolta a Mirandola il 23 maggio 2013 con L.M., uomo, 49 anni.