Saperi mobili

Un’etnografia ibrida dell’emergenza abitativa post-sisma a Port-au-Prince

Giovanna Salome

Ricercatrice indipendente

Table of Contents

Introduzione
Haiti e l’emergenza abitativa post-sisma
L’ingresso sul terreno: tra inaccessibilità ed isolamento
Integrazione sul terreno: la ricerca etnografica nel quartiere
Un expertise “alternativa” nel contesto di chiusura dei campi
Ricerca e applicazione: percorsi di mobilitazione
Bibliografia

Abstract: Post-disaster settings represent thick and slippery ethnographic contexts within which the anthropologist is constantly called to redefine the analytical and methodological tools used for the interpretative work, and renegotiate the legitimacy of his/her own being there and the knowledge learned over the course of the study. That appears especially urgent when the researcher takes the risk to juxtapose the roles of «expert» and «witness» as it happened over the course of my fieldwork on post-disaster housing emergency in Haiti. Beginning from these premises, I will try to connect the evolution of my positioning on the field - in terms of professionals roles assumed and analytical perspectives adopted - with the construction/deconstruction process of my object of investigation. The description of my research procedure will therefore represent a tool for reflecting critically on challenges, advantages and contradictions conveyed from an applicative use of the anthropological knowledge in contexts of crisis.

Keywords: Earthquake, Housing emergency, Applied Anthropology, Expertise, Haiti

Introduzione

In un libro dedicato al fenomeno delle tendopoli sorte in contesto urbano, l’antropologo Michel Agier accosta l’esperienza di movimento socio-spaziale sperimentata dall’etnografo nel corso della sua ricerca di terreno a quella degli sfollati costretti a rifugiarsi nei campi: «Entre l’ethnologue en déplacement et les déplacés en campement, un commun existe, un échange peut commencer» (Agier 2013: 11). Benché le ragioni alla base dello slittamento cognitivo, emotivo e materiale sperimentate da parte dei due attori sociali siano profondamente diverse, in quanto alle loro ragioni, natura e modalità, la condizione di sradicamento e la necessaria ricerca di nuovi punti di riferimento appaiono come tratti caratterizzanti entrambe le traiettorie, quella del ricercatore e quella dello sfollato. Non solo, i due percorsi qui presi in considerazione rappresentano secondo l’antropologo francese una condizione liminare condivisa, capace di favorire lo scambio al cuore dell’“incontro etnografico” e di alimentare le riflessioni circa le modalità di produzione dello stesso sapere antropologico. L’esigenza riflessiva espressa da Agier in merito al proprio lavoro si inscrive all’interno di uno sforzo di oggettivazione delle ricerche etnografiche, perseguito dalla disciplina nel corso dell’ultimo trentennio, alla luce delle sempre maggiori sfide poste in essere da “nuovi contesti etnografici” (Leservoisier, Vidal 2008) scivolosi, densi, conflittuali. Tra questi, i contesti emergenziali, dei quali gli scenari post-disastro rappresentano un esempio emblematico, si delineano come un laboratorio di osservazione e di sperimentazione interessante per ripensare le modalità e gli strumenti di conduzione della ricerca etnografica, nonché le pratiche e le logiche di costruzione della stessa conoscenza antropologica.

Nei contesti interessati da crisi umanitarie gli antropologi sono difatti chiamati a riflettere sulle pratiche e le logiche plasmate da parte di un “ipertrofico” sistema degli aiuti (Benadusi 2014) e a relazionarsi con l’insieme mobile ed eterogeneo di individui ed organismi che lo compongono. L’incontro e gli scambi intrattenuti con i differenti attori sociali (giornalisti, volontari, militari, attori umanitari, donors, etc.) che popolano la scena emergenziale, impongono al ricercatore di ri-negoziare costantemente la legittimità della propria presenza e del proprio sapere. Le poliedriche traiettorie di ricerca percorse dagli antropologi impongono loro non solo di attraversare differenti spazi socio-geografici, ridefinire gli strumenti analitici e metodologici impiegati, ma di ripensare il proprio ruolo sociale e gli orientamenti stessi di una disciplina, oggi, sempre più sollecitata ad intervenire sulla scena pubblica. Ciò appare tanto più urgente a fronte di esperienze etnografiche nel corso delle quali il ricercatore accetta il rischio di oltrepassare i confini dell’accademia scegliendo di affiancare al ruolo di “testimone” quello di “consulente” (Marcus 2013), come nell’esperienza di campo che mi propongo di affrontare in questa sede.

La mia posizione di antropologa ad Haiti si è difatti costruita all’interno di due “spazi-tempo” distinti, occupati successivamente ma in parallelo durante il prolungato soggiorno haitiano (Bouju 2008). Il primo quello di ricercatrice, che mi ha condotto nel 2011 nel paese con l’intento di esplorare l’incontro tra i dispositivi umanitari finalizzati alla gestione della crisi abitativa post-sisma e le pratiche di mobilitazione messe in campo da parte della popolazione colpita. Il secondo, al quale sono approdata solo nel corso del secondo anno di ricerca (fine del 2012), è stato quello di consulente all’interno di un progetto di prevenzione di rischi e disastri promosso in un comune della zona metropolitana di Port-au-Prince da un’ONG italiana. Tuttavia, il giudizio critico introiettato nel corso della mia formazione universitaria nei confronti di ruoli professionali potenzialmente minacciosi per l’indipendenza del sapere antropologico – poiché tacciabili di un’eccessiva “politica collaborazionista” (Pandolfi 2007) o produttori di un sapere locale facilmente strumentalizzabile da parte del sistema umanitario ai fini della produzione di raccomandazioni standardizzate e di report normalizzanti (Revet, Langumier 2013) – mi ha condotto per un certo periodo, in maniera più o meno incosciente, ad accantonare una riflessione sulla scelta di travalicare i confini della “torre d’avorio” accademica. In tal senso, tale contribuzione si delinea come uno sforzo riflessivo volto a ripercorrere a ritroso le tappe di un percorso conoscitivo ibrido e finalizzato ad un’analisi dei rischi, delle sfide e dei vantaggi veicolati dall’esperienza di consulenza effettuata durante la conduzione della mia ricerca etnografica.

A partire da tali premesse, tenterò di far dialogare l’evoluzione del mio posizionamento sul terreno – in termini di ruoli professionali assunti e prospettive di osservazione ed analisi adottate – con la successione, sovrapposizione, slittamento delle principali fasi di gestione della crisi dell’alloggio post-sisma. L’analisi del processo di costruzione e ridefinizione del mio oggetto di indagine, concretizzatosi anche attraverso l’esperienza di consulenza intrapresa, mi offrirà la possibilità di riflettere sulle potenzialità applicative di un sapere antropologico che può, nonostante i limiti dettati dalle specificità degli approcci in gioco, contribuire, anche se in minima parte, ad ampliare gli orizzonti dei possibili programmi di intervento umanitario condotti.

Prima di addentrarmi in un’analisi delle strategie di ricerca impiegate e delle scelte di terreno effettuate, ritengo, tuttavia, necessario fornire alcuni elementi descrittivi ed analitici utili per comprendere come il sisma, ed il processo di gestione di tale evento, abbiano contribuito a delineare il contesto sociopolitico all’interno del quale ho lavorato e sono stata chiamata a riposizionarmi.

Haiti e l’emergenza abitativa post-sisma

Il terremoto, di magnitudo 7 gradi sulla scala Richter, ha colpito il paese alle 16:53 ora locale del 12 gennaio 2010 con un epicentro situato a soli pochi chilometri dalla capitale, Port-au-Prince, cuore amministrativo, politico ed economico di Haiti. Il disastro ha prodotto un ingente numero di perdite umane[1] e un temporaneo collasso della nazione haitiana. È, infatti, l’area metropolitana di Port-au-Prince, caratterizzata da un’elevata pressione demografica (circa un terzo della popolazione del paese ivi risiede) e da una notevole densità delle costruzioni, a rappresentare la zona maggiormente colpita, scenario dell’importante crisi abitativa[2] post-sisma, oggetto di intervento della maggior parte delle organizzazioni attive nel settore dell’emergenza e della gestione dei disastri naturali. Una crisi testimoniata non solo dalla distruzione materiale degli immobili, ma dall’alto numero di sfollati che, nelle prime ore e giorni successivi alla catastrofe, si sono riversati nei campi di fortuna creatisi tanto nei luoghi più visibili della città (piazze, campi sportivi, etc.), quanto negli interstizi della densa trama urbana della capitale. Il numero degli sfollati interni dichiarato dall’OIM (agenzia umanitaria di coordinamento nella gestione delle tendopoli nel paese) nel giugno 2010 ammontava a 1.536.447 persone, distribuite in circa 1.555 siti (OIM 2012).

Gli ingenti danni fisici provocati dalle scosse telluriche non sono, tuttavia, sufficienti a spiegare la complessità di una crisi dell’alloggio haitiana pregressa, acuitasi con il disastro del 2010. Essa è il frutto di una precarietà abitativa inscritta in un complesso processo di urbanizzazione della capitale, legata a doppio filo alle vicende politiche, sociali ed economiche che hanno contrassegnato la storia contemporanea della nazione haitiana e della sua capitale. Il sisma non costituisce, infatti, la prima situazione di emergenza nella storia del paese. Esso si inscrive in una memoria caratterizzata da frequenti catastrofi naturali[3]e da un contesto di instabilità politica legata ad una successione/sovrapposizione di differenti poteri sull’isola, accompagnata da una progressiva destrutturazione del sistema agricolo e da un graduale depauperamento delle risorse naturali presenti sul territorio. La complessità dell’abitare ad Haiti appare, dunque, connessa ad una storia emergenziale costellata da crisi ricorrenti capaci di alimentare, nella lunga durata, un imponente esodo rurale verso le principali città del paese, in particolare in direzione di Port-au-Prince. Un fenomeno, quest’ultimo, acceleratosi nel corso degli ultimi tre decenni – che hanno visto la caduta della feroce dittatura duvalierista[4] – durante i quali il paese ha incarnato l’archetipo di una transizione democratica incompiuta. Una storia inframezzata da colpi di stato e da competizioni armate volte alla conquista del potere, capaci di provocare nel 2004 un conflitto interno, causa di disordine e violenze, che ha condotto all’esilio del presidente Aristide[5] e all’instaurazione di una missione di stabilizzazione delle Nazioni Unite, la MINUSTAH (Mission des Nations Unies pour la Stabilisation en Haïti), tuttora presente ad Haiti. Un percorso nazionale all’interno del quale il ruolo e la presenza della comunità internazionale, a fronte di un potere statale debole ed instabile, di un’economia precaria, di un accesso alle risorse di base limitato, non rappresenta qualcosa di nuovo. Tuttavia, ciò che si delinea come una novità al momento del sisma è l’arrivo congiunto, sull’onda dell’emergenza, di un numero incalcolabile di attori capaci di far convogliare una quantità ingente di finanziamenti, pratiche, oggetti, conoscenze, che hanno avuto una ricaduta diretta non solo sulle vite dei beneficiari destinatari dei programmi di intervento, ma di tutti coloro che a vario titolo sono entrati a far parte del sistema degli aiuti. Una moltitudine eterogenea di attori che hanno contribuito a plasmare, assieme al sistema dei mass media internazionali, un’inglobante drammaturgia del disastro, all’interno della quale Haiti è spesso stata rappresentata come un paese “naturalmente vittima” ed il sisma il compimento di un’escalation di tragicità quasi connaturata alla sua storia.

L’ingresso sul terreno: tra inaccessibilità ed isolamento

È all’interno di tale contesto che la mia ricerca etnografica si è svolta per un periodo all’incirca di due anni e mezzo (2011-2013), durante i quali ho scelto di abitare e lavorare nella capitale del paese. Quando arrivai per la prima volta a Port-au-Prince, nel febbraio del 2011, portavo con me un immaginario di sofferenza, distruzione, insicurezza, alimentato da quel repertorio massmediatico che aveva contribuito a produrre un’immagine statica e destoricizzata di Haiti e del disastro che mi accingevo ad indagare.

Giunta nel paese, senza un reale supporto istituzionale in loco, mi impegnai nel corso dei primi mesi ad una ricerca di punti di riferimento nello spazio urbano. Percorrere la città alla ricerca delle tracce del disastro mi ha obbligato a situarmi in uno spazio estremamente denso, fatto contemporaneamente di vuoti (i palazzi crollati, le istituzioni dislocate, gli attori statali deceduti, etc.) e di pieni (l’enorme quantità di campi, le differenti forme di occupazione dello spazio, l’ingente numero di persone riversatesi nell’area metropolitana, etc.). Alla ricerca di un oggetto di osservazione pertinente scelsi in un primo momento di concentrare la mia attenzione sui campi di sfollati. Questi ultimi – protagonisti principali della trattazione mediatica emergenziale, eletti in qualità di principali destinatari delle distribuzioni da parte dell’aiuto umanitario – apparivano costituire il luogo consacrato per eccellenza all’accoglienza delle vittime del sisma. Essi diventarono cosi l’icona di quell’emergenza abitativa al centro della mia riflessione. Se la scelta operata appariva il risultato di una diretta riproduzione delle rappresentazioni della catastrofe presente nei discorsi pubblici dominanti, essa rappresentava al contempo il risultato di quell’inevitabile contatto con una realtà onnipresente nelle strade della capitale. La scelta operata era dettata dalla sensazione che, lavorando in un campo, mi sarei trovata nel cuore della catastrofe alla quale non avevo assistito.

Nati da raggruppamenti spontanei di abitanti costretti ad abbandonare la propria dimora a causa della perdita totale o parziale della propria abitazione o della paura di un suo possibile crollo nei giorni successivi al sisma, i campi sono apparsi poco a poco come il risultato di un fenomeno di “migrazione interna forzata”[6] (displacement/déplacement nel linguaggio degli attori umanitari), oggetto privilegiato di intervento da parte della “macchina umanitaria”[7] (Saillant 2007). In tale contesto, l’immagine di uno straniero, già nel passato facilmente associabile alle differenti organizzazioni qui impiantate, ha subito un’amplificazione del suo valore simbolico. Sulla scia dell’emergenza post-sisma l’ingente flusso di aiuti aveva, infatti, gradualmente contribuito alla costituzione di una delle più grandi comunità di expat (personale umanitario straniero) mai esistite e concentratesi nella capitale. Lungi dal voler affrontare un dibattitto sui differenti valori, significati e possibilità veicolati dalla categoria di blan (straniero), alla luce di una complessa storia coloniale e di una società post-schiavista[8], mi resi conto che Haiti era stata costretta ad accogliere all’improvviso, suo malgrado, un elevato numero di stranieri chiamati a gestire le vecchie e le nuove organizzazioni umanitarie trapiantatesi nel paese. Un arrivo massivo in cui l’equazione diretta bianco/attore umanitario, risultava nello scenario post-disastro immediata. In breve tempo fu così anche per me.

L’assegnazione di tale posizione si caricava di un duplice significato, se interpretata alla luce del mio accesso all’epoca limitato alla comunità internazionale. Malgrado la partecipazione a delle riunioni municipali di coordinamento[9] nel corso del primo anno mi abbia, infatti, permesso di accedere ad una parte dei discorsi pubblicamente pronunciati da parte dei partner locali e umanitari ivi riuniti in merito alla gestione dell’emergenza, ho al contempo riscontrato una serie di problemi ad effettuare degli incontri individuali con parte dei rappresentanti umanitari sollecitati. Il turnover del personale impiegato dalle singole ONG, l’arrivo di nuovi e la partenza di vecchi organismi, nonché la sensazione diffusa di sottrarre del tempo prezioso all’ingente mole di lavoro alla quale ognuno doveva rispondere singolarmente, rappresentano alcune delle difficoltà rintracciabili nella presa di contatto con le organizzazioni attive sul terreno. L’inaccessibilità al mondo degli attori umanitari poteva essere inoltre ricondotta alle modalità di funzionamento delle diverse ONG, una schiera multicolore di organismi individuali, ognuna con i propri obiettivi, con le proprie priorità e le proprie strategie di sopravvivenza istituzionali (Polman 2009). Come evidenziato dalla giornalista olandese Linda Polman, quando le organizzazioni iniziano a lavorare all’interno di un determinato “spazio umanitario”, devono cercare di rimanerci almeno il tempo necessario per ammortizzare gli elevati costi iniziali di installazione, nonché gli investimenti compiuti. Attrarre fondi pubblici e privati, stringere il più velocemente possibile accordi con le autorità nazionali e locali per distribuire risorse (finanziarie e materiali), e salvaguardare così la propria esistenza, hanno contribuito a delineare i confini di un mercato dell’aiuto altamente competitivo. Un mondo, questo, cadenzato da regole di sicurezza e codici normativi che possono spingersi, come nel caso di alcune organizzazioni, fino alla formulazione di un’esplicita richiesta ai dipendenti di un comportamento di riservatezza in merito al proprio lavoro. La necessaria riuscita dei progetti condotti, clausola vitalizia per gli organismi alla ricerca di nuovi finanziamenti, o il prolungamento di quelli già esistenti, hanno favorito, dunque, la diffusione di un sentimento di diffidenza nei confronti di coloro che avrebbero potuto, a qualche livello, compromettere l’esito finale di un programma attraverso la fuga o la diffusione di informazioni sensibili.

Tali questioni diventarono ancora più spinose in merito alla gestione dei campi sfollati, a partire dall’estate del 2011, periodo contrassegnato da una graduale diminuzione dei finanziamenti fino a quel momento elargiti e dalla fine imminente dello stato di emergenza decretato dal governo haitiano[10]. Le mie prime osservazioni sull’universo delle tendopoli si svolsero in effetti in un periodo particolarmente teso, in cui si assistette all’esplosione di conflittualità locali determinate dalla sovrapposizione e dalla moltiplicazione di differenti soluzioni in materia di assistenza e dall’aumento di una forte pressione politica finalizzata alla stessa chiusura dei campi. La coesistenza di diverse linee di azione e di intervento si è spesso espressa sullo stesso terreno di lavoro. Se alcune organizzazioni si dedicavano nelle loro attività a sostenere una logica di chiusura dei campi (attraverso una graduale retrazione della propria presenza e di distribuzioni gratuite delle risorse di base), altre perseguivano simultaneamente i propri interventi in una direzione diametralmente opposta, in funzione dei finanziamenti ottenuti e delle risorse in loro possesso[11] (Salome 2014a).

Attorno a tali dinamiche gestionali, ulteriori contraddizioni si sono sovrapposte con l’andare del tempo. Le minacce di sfratto rivolte agli sfollati da parte dei proprietari privati dei terreni sui quali sorgevano i campi – spesso tradottesi in vere e proprie espulsioni – si sono accompagnate all’introduzione di un sistema di svuotamento delle tendopoli promosso dalle ONG e basato sull’abbandono della tenda in cambio di un limitato contributo economico. Le disordinate proposte di intervento effettuate nel corso del 2011 da parte degli organismi umanitari in vista della chiusura dei campi - benché rappresentino il risultato di una politica di rialloggio degli sfollati che, di lì a pochi mesi, sarebbe stata revisionata ed adottata in maniera più generale da parte della comunità internazionale e del governo haitiano – provocarono un forte malcontento nei campi: numerosi furono i disordini e le rivolte registratesi. Nel corso della mia ricerca nei campi, a quel punto, l’ostacolo, che avevo fin lì imparato a gestire, non fu più semplicemente rappresentato dall’essere immediatamente scambiata, in qualità di straniera e bianca, per una cooperante giunta per fornire dell’aiuto. Se «la mia presenza attirava una folla e trasformava la conversazione» (Schuller 2014: 410), durante la congiuntura critica verificatasi nel corso della seconda metà del 2011 la moltitudine dei Moun anba tant [12] cominciò ad essere composta da individui stanchi, delusi ed arrabbiati e comprensibilmente meno disposti a conversare e ad accettare una presenza troppo spesso giudicata come sospetta. L’incremento dell’instabilità proveniva anche dal sentimento diffuso e condiviso che i campi sarebbero scomparsi nel corso di un breve lasso di tempo, senza tuttavia fornire le risposte adeguate e durature che la popolazione attendeva. Scelsi pertanto, in un secondo, momento di abbandonare la pista dei campi, da un lato in ragione delle difficoltà di penetrazione dell’universo delle tendopoli, dall’altro, preoccupata dal rischio di contravvenire alle regole di quell’osservazione partecipante, costitutiva della metodologia antropologica, a causa della possibile ed imminente sparizione del mio stesso oggetto di indagine.

Integrazione sul terreno: la ricerca etnografica nel quartiere

Dopo i primi mesi di terreno, mi resi conto che la realtà delle tendopoli non appariva semplicemente instabile e mutevole, oggetto di una forte pressione umanitaria, politica e sociale finalizzata alla sua chiusura, ma parte di un eterogeneo fenomeno di displacement, caratterizzato da esperienze catastrofiche e migratorie variegate, che non era possibile confinare all’universo dei campi sfollati. All’interno dello spazio-campo era pertanto possibile osservare una realtà fluida, caratterizzata da una migrazione di persone (in caso ad esempio di sgomberi forzati, alluvioni e necessità logistiche e personali disparate) non solo da un campo all’altro, ma tra il campo e la provincia, il campo e il quartiere, il campo e la casa (Salome 2014b). Scelsi pertanto di adottare una prospettiva socio-spaziale più ampia – che oltrepassasse le rappresentazioni dell’irruzione spettacolare della catastrofe – e di indirizzare i miei sforzi analitici verso un contesto locale rappresentato dal quartiere di Bigarade. Situato su un comune facente parte della conurbazione metropolitana di Port-au-Prince, Tabarre[13], poco colpito dal disastro rispetto al cuore della capitale, Bigarade aveva registrato, in seguito al sisma, una sola perdita umana e leggeri danni alle abitazioni. Malgrado Bigarade sembrasse non rappresentare un caso “esemplare”, in ragione della sua posizione periferica all’interno della geografia dell’intervento umanitario nel paese, in virtù della sua presunta marginalità si delineò come un contesto interessante all’interno del quale osservare le dinamiche di gestione dell’emergenza abitativa post-sisma.

Fu nel corso di alcune riunioni di coordinamento tenutesi presso il comune di Tabarre, che venni a conoscenza dell’esistenza di un programma di rialloggio per lapopolazione sfollata residente a Bigarade, che condusse alla creazione di un villaggio composto da casette transitorie (T-Shelter). Interessata alle modalità di implementazione di tale progetto, e alle strategie di adattamento degli sfollati a fronte delle pratiche umanitarie adottate, giunsi nella zona introdotta da due leader comunitari, che mi garantirono un’iniziale presa di contatto con gli abitanti. Qui condussi una ricerca etnografica di circa nove mesi, durante la quale ebbi la possibilità di lavorare sulle logiche e le pratiche di implementazione del progetto di alloggio transitorio – e sulle strategie di riappropriazione di quest’ultimo da parte dei beneficiari – attraverso un’inscrizione della catastrofe all’interno di una ricostruzione delle dinamiche socio-abitative di lunga durata nella zona. Non solo, il lavoro di indagine condotto a Bigarade mi ha permesso di osservare la compresenza e le relazioni esistenti, all’interno di un micro-contesto, di differenti realtà socio-abitative plasmatesi nell’incontro tra le strategie di sopravvivenza informali degli abitanti, proprie di un saper abitare Haiti, e le modalità standardizzate di intervento proposte da parte di un aiuto umanitario alla ricerca di legittimazione. Zona in espansione, il quartiere si delinea come un laboratorio di esperienze all’interno del quale diverse tipologie di occupazione dello spazio coabitano e si sovrappongono, malgrado possano apparire distanti in ragione della loro diversa natura ed origine.

A Bigarade è possibile facilmente distinguere il nucleo di creazione originario del quartiere da quello occupato dal villaggio di case transitorie edificato dal progetto umanitario di rialloggio previsto per gli sfollati. Ed è accanto a quest’ultimo che, nel corso del 2011, due nuove tendopoli, composte da sfollati provenienti da altre zone, si costituirono e si stabilizzarono nella speranza di accesso a delle soluzioni abitative migliori. Inoltre, il quartiere presentava una nuova estensione rappresentata da un importante conglomerato di case in cemento, finanziato da una missione evangelica americana. La ricerca antropologica condotta a Bigarade mi ha pertanto permesso di riflettere sulla complessità di un contesto urbano all’interno del quale le stesse temporalità dell’intervento umanitario (emergenza, transizione, ricostruzione) si aggrovigliano e si ridefiniscono a partire dalle “deriveˮ (Olivier De Sardan 2008) di progetti strettamente interconnessi a vincoli socio-economici preesistenti al sisma.

Fu attraverso il lavoro quotidiano svolto a Bigarade, i rapporti umani stabiliti con gli abitanti del quartiere, che mi fu possibile ampliare la mia riflessione oltre i limiti di una cosiddetta emergenza abitativa post-sisma e consolidare alcune delle competenze necessarie per la conduzione della ricerca etnografica ad Haiti. In particolare, voglio qui riferirmi all’acquisizione di una padronanza della lingua creola (per lo più misconosciuta da parte degli operatori umanitari), dei rudimenti di una grammatica sociale, indispensabile per accedere all’“intimità culturale” dei miei interlocutori e poter comprendere ed interpretare le testimonianze, i racconti e gli eventi ai quali avevo accesso. La presenza costante sul terreno mi aveva, dunque, permesso di guadagnare la fiducia degli abitanti, che avevano imparato col tempo a riconoscermi come una ricercatrice; una presenza regolare che mi aveva offerto al contempo la possibilità di entrare in relazione con alcuni degli operatori umanitari impegnati nella conduzione di programmi di intervento nella zona. Tra questi, in particolare, alcuni rappresentanti di un’ONG italiana, COOPI, intenta a promuovere dei programmi di prevenzione e riduzione di rischi e disastri nel comune di Tabarre, e più nello specifico a Bigarade, considerato, in ragione della sua conformazione e della sua localizzazione, una zona altamente vulnerabile[14] all’interno del tessuto urbano.

La condivisione dello stesso terreno di indagine/intervento favorì col tempo l’instaurazione di un certo dialogo con i cooperanti, con i quali ebbi occasione a più riprese di condividere informalmente parte dell’esperienza maturata nel quartiere in merito alla storia del processo di urbanizzazione, ai percorsi di vita individuali e familiari, alle dinamiche di mobilitazione delle organizzazioni locali, etc. Come ricorda l’antropologa e consulente Mathieu Marilou, per essere riconosciuto come un esperto in scienze sociali e «incidentalmente fare l’antropologo» (Lavigne, Delville 2007 in Mathieu 2012: 148) all’interno di programmi di sviluppo, occorre guadagnare una legittimità garantita dal riconoscimento della propria competenza da parte dei datori di lavoro. La ricerca condotta mi aveva permesso di sviluppare, difatti, delle conoscenze che andavano costituendo, mio malgrado, una expertise alla quale fare potenzialmente appello e attraverso la quale essere riconosciuta in qualità di professionista. L’accettazione della mia posizione di ricercatrice, da parte degli abitanti di Bigarade (beneficiari dei programmi dell’ONG), delle autorità locali e comunali, nonché le competenze specialistiche maturate durante il lavoro di terreno, ebbero un peso importante nella costruzione della mia reputazione professionale. Alla luce di tali premesse, ed in ragione del rapporto di scambio venutosi a creare con i membri dell’ONG italiana, in cerca di nuovi collaboratori, ricevetti l’offerta di un posto di consulenza all’interno di un nuovo progetto di prevenzione dei rischi e dei disastri nel comune di Tabarre, che decisi di accettare.

Un expertise “alternativa” nel contesto di chiusura dei campi

Occorre comprendere tale assunzione alla luce delle evoluzioni più globali della crisi dell’alloggio haitiana, poiché le competenze che interessavano l’ONG assumono un senso solo se analizzate in un contesto particolare, quello di una nuova fase dell’emergenza abitativa caratterizzata dalla stabilizzazione dei campi sfollati e al contempo da una graduale chiusura delle sedi delle organizzazioni umanitarie presenti sul terreno. Alla fine del 2012 la comunità internazionale è stata oggetto di un’importante diminuzione dei finanziamenti, sottomessi all’imperativo, ormai condiviso dalla maggior parte dei donors, di eliminare definitivamente le tendopoli. Se nel corso dei primi due anni dal disastro si assistette ad una graduale riduzione del numero degli sfollati - per lo più dovuta ad un abbandono spontaneo delle tende da parte di coloro che erano in grado di rispondere individualmente al problema dell’alloggio - i campi tesero in buona parte a consolidarsi e a perdurare nel tempo. È in tale contesto che furono introdotti a partire dall’estate del 2012 dei programmi di rialloggio più strutturati, volti a stimolare una sensibile diminuzione delle presenze di sfollati all’interno delle tendopoli. Tali ragioni condussero gli attori umanitari a rinnovare e a ricalibrare i propri interrogativi a fronte della questione del displacement e del processo di coordinamento dell’emergenza abitativa: non si trattava più ormai di assicurare una gestione statistica dei campi, finalizzata ad un controllo e ad un contenimento del fenomeno, quanto piuttosto di comprendere le ragioni alla base della loro esistenza semi-permanente.

Il progetto dell’ONG italiana, finanziato da ECHO, non era votato alla chiusura dei campi, ma alla preparazione delle comunità alla gestione di future crisi attraverso la conduzione di uno studio volto ad individuare le risorse presenti e mobilizzabili nel tessuto locale del comune di Tabarre. Ciononostante, la conduzione di questo generedi valutazione/azione non poteva esimersi da un’analisi più o meno dettagliata dello scenario all’interno del quale l’intervento era chiamato ad inscriversi. Il programma era condotto da un’équipe multidisciplinare, composta non solo da operatori umanitari, ma anche da ricercatori universitari (rappresentati per lo più da geografi, come spesso è riscontrabile all’interno dell’universo gestionale delle catastrofi).

In tale contesto, mi fu richiesto di procedere all’interpretazione critica di una serie di dati statistici e cartografici concernenti l’evoluzione dei campi sfollati nel comune di Tabarre, ormai parte integrante del tessuto urbano, a partire dalla loro costituzione. Effettuai tale lavoro sulla base delle osservazioni e del materiale raccolto nel corso della mia ricerca, nonché a partire dai risultati ottenuti nel corso di un nuovo lavoro di indagine, che mi condusse non solo ad attraversare numerosi campi del comune, ad incontrare dei comitati di gestione delle tendopoli, ma anche ad intervistare attori umanitari impegnati nella conduzione dei programmi di rialloggio.

Le difficoltà più ricorrenti incontrate nel corso dell’analisi, che alle volte hanno suscitato tensioni con alcuni membri dell’équipe, possono essere ricondotte alla mia volontà di introdurre, nello studio sull’andamento evolutivo delle tendopoli, una descrizione più densa delle traiettorie individuali degli sfollati, a fronte di una prospettiva troppo generalizzante e meno attenta alle ragioni alla base delle migrazioni interne post-sisma. La permanenza e la consolidazione dei campi potevano essere spiegate attraverso una risposta, all’epoca ancora troppo insufficiente o non egalitaria, da parte del governo haitiano e del sistema umanitario, nonché per gli evidenti vantaggi ai quali gli sfollati potevano potenzialmente accedere risiedendo in un campo (in termini di accesso alle distribuzioni di risorse di base). Esistevano al contempo una serie di strategie di sopravvivenza plasmate dagli abitanti, inscritte in logiche individuali e in traiettorie personali che non potevano essere semplicemente ricondotte alle tendenze generali verso le quali gli sforzi analitici del progetto desideravano rivolgere per lo più la propria attenzione. Ricordo, in tal senso, il caso di una giovane madre costretta a trasferirsi in un campo situato in prossimità della scuola di suo figlio, in mancanza dei soldi necessari per assicurargli un trasporto, e ancora il caso di una famiglia di sfollati rialloggiatasi in una casa in affitto ma costretta, dopo un anno, a tornare in un campo a causa della perdita del lavoro del capofamiglia.

Se l’antropologo ha la tendenza a cercare delle riposte a delle domande che non gli sono state rivolte, ottenere l’avvallo da parte del suo interlocutore sui dati e l’interpretazione del suo oggetto di studio a partire da elementi che legittimino la propria argomentazione (Mathieu 2012) può rivelarsi insufficiente quando incapaci di apportare delle prove statistiche che permettano di contabilizzare e misurare esattamente l’analisi proposta. Nella stesura del rapporto finale non ho avuto la possibilità di esprimere in dettaglio tale punto di vista, considerato, seppur interessante, troppo marginale rispetto ai trend generali presenti nelle statistiche che ero stata chiamata ad analizzare. L’analisi decostruttiva del fenomeno di displacement proposta si è fattualmente tradotta nella confezione di un paio di note a piè pagina, all’interno delle quali mi sono limitata a riportare qualche breve esempio delle traiettorie “irregolari” percorse dagli sfollati.

L’altro compito che mi fu affidato fu quello di procedere ad un censimento, ad una mappatura e ad una tipologizzazione delle organizzazioni locali presenti nel comune ed impegnate, ad un qualche livello, nella gestione di rischi e disastri. In questo caso mi trovai di fronte ad un problema metodologico concernente il punto di vista da adottare per l’individuazione di tali attori. Fui, infatti, invitata ad adottare una prospettiva istituzionale, che mi condusse a lavorare esclusivamente su quegli organismi (chiese, organizzazioni comunitarie di base, rappresentanti politici locali) che godevano di un riconoscimento formale. Tale scelta obbligata, frutto di una necessità di razionalizzazione del terreno da parte della logica sottesa al progetto, mostrava, tuttavia, un evidente limite: quello di non prendere affatto in considerazione, in una società orizzontale come quella haitiana, caratterizzata da un deficit istituzionale strutturale, parte di quei réseaux informali (di quartiere, di vicinato per esempio) capaci di assumere un ruolo più strategico, in termini di presa in carico della stessa comunità, in caso di emergenza. Malgrado la reale volontà testimoniata da parte dei coordinatori del progetto di integrare la mia prospettiva analitica all’interno dell’indagine, spesso sottolineata ai partner esterni, e in occasioni di presentazione ufficiale del progetto, come un apporto innovativo, dei limiti evidenti sembravano emergere durante i nostri scambi sull’inchiesta. La concreta integrazione di una prospettiva attenta al carattere organizzativo informale del tessuto locale non poteva essere contemplata in ragione della scarso controllo statistico della materia e del tempo limitato di esecuzione del progetto. Ciò sembrava ricordare come il rischio per gli amministratori nel ricorrere ad un antropologo fosse quello di complicare eccessivamente le cose, di prolungare i tempi di esecuzione dell’indagine e di accrescere un’incertezza (Mathieu 2012) in merito ad un oggetto non facilmente misurabile. Le negoziazioni da me effettuate con l’équipe di ricerca non si giocarono, infatti, solo su quelle che potremmo definire le modalità e la natura della selezione degli attori presi in considerazione, ma anche sulla loro rappresentatività numerica. Lo spazio limitato dedicato alle risorse degli attori sociali locali, rispetto a quello di attori governativi ed internazionali, era giustificato dalla quantità e dalla qualità delle risorse tecnico-logistiche in possesso dei secondi. Tuttavia, esso sembrava testimoniare in qualche misura una logica di ricerca compilativa all’interno della quale la necessità di contabilizzare il più elevato numero di risorse che ci si apprestava ad analizzare (ciononostante fondamentale) oltrepassava la volontà di effettuare un’analisi volta ad una comprensione dettagliata del contesto e delle fondamentali micro-dinamiche gestionali che garantiscono il suo funzionamento, al di là di un quadro istituzionale haitiano spesso debole ed assenteista. Il progetto, nonostante i limiti presentati (e che rinviano ad un dibattitto acceso attorno alla stessa categoria di vulnerabilità che lo sorreggeva) ha comunque riservato, all’interno di un’analisi sulle risorse gestionali di crisi presenti nel contesto haitiano, uno spazio, seppur limitato, per un sapere proveniente dalle scienze sociali e soprattutto un’attenzione rinnovata per un livello micro-locale troppo spesso completamente ignorato in questo genere di indagini.

Ricerca e applicazione: percorsi di mobilitazione

Le condizioni d’indagine delineatesi nel corso della consultazione si sono profondamente modificate rispetto a quelle della mia ricerca etnografica. Come ricorda Mathieu, la posizione del cliente, l’ONG, domina e quella del ricercatore deve mantenersi all’interno dei margini e degli interstizi che quest’ultimo sarà in grado di gestire (Mathieu 2012). Le modalità di definizione dell’oggetto di analisi e della restituzione dello studio condotto, nonché parte della metodologia impiegata, sono frutto di negoziazioni all’intero delle quali l’antropologia continua a rappresentare una disciplina marginale e meno “utile” rispetto alle scienze dure, considerate «indispensabili, produttive ed autonome» (Mathieu 2012: 149). Tuttavia l’incontro/scontro con un contesto di lavoro applicativo e con professionisti provenienti da formazioni differenti ha permesso di ripensare il mio ruolo di antropologa e l’oggetto della mia ricerca etnografica. Nel corso del lavoro condotto all’interno del progetto ho avuto, difatti, l’opportunità di confrontarmi, nonostante le difficoltà qui citate, con quell’universo delle cifre e delle statistiche spesso non preso sufficientemente in considerazione da parte degli antropologi. La collaborazione con membri dell’équipe provenienti da ambiti disciplinari diversi mi ha permesso, inoltre, di conoscere ed incorporare nuove metodologie di indagine anche all’interno del mio lavoro, come ad esempio quello della cartografia. Non solo, il nuovo ruolo di consulente ha favorito il mio accesso al mondo delle istituzioni nel paese, in particolare a quello umanitario: l’adozione di un’identità istituzionale mi ha permesso di travalicare più facilmente il sentimento di diffidenza suscitato dalle mie domande attraverso l’inclusione (in qualità di consulente), anche se per un periodo di tempo limitato, all’interno di specifici network socio-lavorativi.

Durante il periodo di ricerca finalizzato alla redazione della mia tesi dottorale ho spesso temuto che l’esperienza di consulenza rischiasse di allontanarmi eccessivamente dalla metodologia antropologica, così come dal mio oggetto di analisi principale, l’emergenza abitativa. Fu solo nell’ultima fase dell’indagine che compresi l’importanza che l’esperienza lavorativa aveva assunto all’interno dell’evoluzione del mio percorso conoscitivo. Preoccupata inizialmente dal rischio di una repentina sparizione del mio iniziale oggetto di studio, i campi, avevo riformulato la mia osservazione in direzione di un progetto di rialloggio in casette transitorie nel quartiere di Bigarade. Tuttavia, la richiesta rivoltami dall’ONG, di tentare di comprendere le possibili ragioni alla base del fenomeno di stabilizzazione delle tendopoli e la possibilità di osservare dall’interno i meccanismi di gestione del fenomeno di migrazione interna, mi spinsero a ritornare sui miei passi e ad approfondire le iniziali intuizioni in merito alla realtà delle tendopoli. Grazie ad un accesso diversificato alla molteplicità delle realtà abitative presenti nella capitale (campi, quartiere, villaggi) e ai diversi attori incontrati (sfollati, abitanti e operatori umanitari), agevolato dal duplice ruolo assunto sul terreno, mi è stato possibile ricontestualizzare la ricerca sul quartiere all’interno di un’economia globale della crisi dell’alloggio. Assumere temporaneamente la posizione di insider all’interno del mondo umanitario ha contribuito ad alimentare una comprensione più densa delle dinamiche e delle logiche gestionali determinanti i meccanismi di stabilizzazione dell’universo delle tendopoli. È nell’incontro tra le pratiche gestionali degli attori umanitari e le strategie di sopravvivenza informali degli sfollati che gradualmente i campi, e i rifugi che li compongono, si sono trasformati in una nuova forma di occupazione dello spazio, capace di oltrepassare le frontiere del tempo dell’emergenza per la quale erano stati inizialmente concepiti. La traiettoria di ricerca compiuta, cadenzata da slittamenti metodologici, professionali, analitici, si è inscritta in un periodo di osservazione ed indagine prolungato, nel corso del quale il passaggio attraverso i due differenti spazi-tempo ivi descritti (quello di ricercatrice e di consulente) ha permesso di mettere in continua discussione il mio ruolo di antropologa e al contempo l’oggetto di ricerca al centro dell’indagine.

Se il mestiere dell’antropologo è «un’esperienza personale, un sapere artigianale» (Agier 2004: 98), esso continuerà ad esistere in quanto tale fin quando egli resisterà ad ogni tipo di produzione standardizzata e difenderà, anche all’esterno del mondo accademico (malgrado le negoziazioni possibili di cui ho tentato in questa sede di tracciare alcuni esempi), le specificità di uno sguardo analitico. Non credo di poter definire la mia esperienza di consulenza come una forma di engagement militante, alla stregua di quella sperimentata da Mark Schuller (2014) ad Haiti attraverso la scelta di schierarsi pubblicamente accanto a delle organizzazioni locali alla ricerca di rivendicazioni dei propri diritti. Ciononostante, credo che le figure del militante e del consulente rappresentino due delle possibili posizioni professionali verso le quali oggi l’antropologo - ancor più mobilitato in una realtà ibrida come quella dello scenario post-disastro - può slittare, malgrado i limiti connaturati a tali funzioni. Lo stesso Schuller evidenzia, difatti, le contraddizioni veicolate dal ruolo di attivista militante sul terreno haitiano (Schuller 2014). Il sostegno ad attori locali impegnati nella lotta ai diritti umani ha contribuito, suo malgrado, a conferirgli un prestigio, dentro e fuori l’accademia, ed una rendita economica (della quale i suoi interlocutori non possono realmente godere) in ragione dei ruoli istituzionali raggiunti, che lo hanno spinto a comparare provocatoriamente il suo operato a quello di tanti altri organismi umanitari.

Alla luce dei rischi derivanti dalle derive involontarie del suo impegno militante, l’antropologo americano riconosce il senso del suo attivismo nella necessaria e costante ricerca di sempre nuove modalità di espressione, comunicazione, circolazione delle storie e delle ingiustizie, di cui egli si fa portavoce. Ritengo pertanto, in accordo con la sua prospettiva, anche se a partire da una differente esperienza applicativa della disciplina, che i margini di indipendenza del sapere antropologico risiedano non tanto nella scelta di confinarsi in quella che Mathieu definisce “torre d’avorio”, ma nell’esercizio acrobatico della propria riflessività e nella sapiente gestione del rischio (Mathieu 2012) di “sporcarsi le mani”. Nell’incontro, spesso frustrante, con razionalità gestionali e logiche tecnocratiche come quelle sperimentate nel corso di esperienze di consulenza, credo sia possibile per il sapere antropologico accogliere le sfide poste in essere da ruoli professionali “scomodi” in grado, tuttavia, di arricchire la specificità dell’esperienza etnografica e permettere all’antropologo di partecipare attivamente alla ridefinizione di migliori programmi di intervento.

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[1] Malgrado gli accesi dibattiti attorno alle cifre concernenti le perdite umani e materiali provocate dal sisma, secondo un rapporto dell’agenzia RNDDH (Réseau National de Défense des Droits Humains), più di trecentomila persone hanno perso la vita, duecentocinquantamila sono state ferite, alcune decina di migliaia sono scomparse, seimila sono state amputate (Cfr. RNDDH, 2010).

[2] Il settore dell’alloggio è stato infatti quello più colpito dal sisma: la totalità dei danni fu stimata a 2.333.90 miliardi di dollari americani, cifra che corrisponde approssimativamente al 40% degli effetti del disastro (PNDA 2010).

[3] Basti citare a titolo di esempio i cicloni Fay, Gustav, Hanna et Ike (2008) e la tempesta tropicale Jeanne (2004).

[4] Dal 1957 al 1986 Haiti ha sperimentato il giogo della feroce dittatura dei Duvalier (François Duvalier – Papa Doc – e suo figlio Jean-Claude Duvalier – Baby Doc), durante la quale numerosi massacri furono perpetrati nei confronti della popolazione e dell’opposizione attraverso l’appoggio di milizie locali chiamate Tonton Makoutes.

[5] Jean-Bertrand Aristide, ex prete salesiano, rappresentante della teologia della liberazione, ricoprì a più riprese il posto di presidente del paese (1991, 1994-1996, 2001-2004). Il presidente adottò una politica estremamente populista. Egli fu vittima nel 1991 di un colpo di stato militare e nel 2004 fu costretto a partire in esilio alla volta del Sud Africa.

[6] Gli sfollati protagonisti delle migrazioni forzate interne sono «quelle persone o gruppi di persone che sono stati forzati o obbligati a fuggire o a lasciare le loro abitazioni o i luoghi abituali di residenza, in particolare come conseguenza di un conflitto armato o per evitarne gli effetti, di situazioni di violenza generalizzata, di violazioni dei diritti umani o di disastri naturali o provocati dall’uomo, e che non hanno valicato un confine di Stato internazionalmente riconosciuto» (Art. 2, Deng 1998).

[7] Termine utilizzato dall’antropologa Francine Saillant per definire la standardizzazione di un sistema internazionale degli aiuti (composto da organizzazioni umanitarie transazionali, organizzazioni multilaterali come l’ONU, media, dispositivi militari e politici) sempre presente in situazione di guerra e catastrofi, eventi propizi alla creazione di spazi di eccezione e di non-diritto. Tale termine appare utilizzato anche all’interno di riflessioni circa di dispositivi di controllo e gestione dei rifugiati e degli sfollati in contesto di crisi. (Cfr. Poinsot, Agier 2009; Ciabarri 2005).

[8] Cfr. Gianferri 2004.

[9] Sul piano operativo la coordinazione umanitaria si è strutturata nel paese sulla base dell’approccio di responsabilità settoriale, più comunemente chiamato approccio cluster introdotto nel corso della riforma umanitaria del 2005. I cluster (gruppi settoriali) sono composti da organizzazioni umanitarie e altri partner – tra i quali le agenzie dell’ONU, delle ONG e rappresentanti del governo.

[10] Lo stato di emergenza è stato inizialmente proclamato per la durata di un mese (febbraio 2010) prima di essere, infine, prolungato per un periodo di diciotto mesi attraverso un decreto di legge approvato dal parlamento haitiano ed adottato il 16 aprile 2010.

[11] Si pensi ad esempio ai dibattiti attorno alla distribuzione dell’acqua potabile nei campi, delineatasi come un teatro di scontro tra diversi attori. Se la DINEPA (Direction nationale de l’eau potable et de l’assainissement) aveva promulgato un divieto definitivo di distribuzione di acqua gratuita nel mese di novembre 2011, alcune ONG hanno proposto programmi di distribuzione di acqua a pagamento, a prezzi più o meno accessibili, mentre altre organizzazioni beneficiavano di nuovi finanziamenti e perseguivano la politica di gratuità.

[12] Termine con il quale ci si riferisce comunemente ad Haiti agli sfollati: la traduzione letterale dal creolo è “persone sotto le tende”.

[13] La municipalità di Tabarre, creata dal presidente Aristide nel 2002, rappresenta uno degli otto comuni che compongono l’arrondissement (distretto) di Port-au-Prince.

[14] Il quartiere è situato in una zona caratterizzata da un alto grado di erosione e disboscamento. Bigarade, come in generale il comune di Tabarre, rappresenta una località altamente inondabile, fino al secolo scorso scarsamente abitata e destinata per lo più alla coltivazione estensiva della canna da zucchero.