RECENSIONI

Enrico Marcorè

Anthropology Department, School of Social Science, King’s College, Aberdeen, AB243QY (U.K.)

Table of Contents

Bibliografia

Sandrine Revet, Julien Langumier Governing Disasters: Beyond Risk Culture, NY, Palgrave Macmillan, 2015, pp. 250

Apparso per la prima volta in francese nel 2013 il libro Governing Disaster: Beyond Risk Culture, edito da Sandrine Revet e Julien Langumier, è stato tradotto in inglese e pubblicato da Palgrave Macmillan nel Marzo 2015. Si tratta di un’opera collettanea, cui partecipano cinque antropologi, due sociologi e uno storico che si fanno promotori di un dialogo interdisciplinare innovativo nell’ambito dello studio di calamità di origine sia tecnologica sia naturale.

L’assunto del libro, sul quale si basa la comparazione alimentata da sei studi di caso, sta nel considerare la catastrofe come un agente piuttosto che come un oggetto di analisi a sé stante. In questa veste il disastro permette di aprire varchi interessanti per distinguere dinamiche di varia natura le quali, spesso nascoste in condizioni normali, sono attivate o svelate da eventi straordinari (Oliver-Smith 1986).

Lungi dal voler essere un testo propedeutico alla gestione tecnica dei disastri, la raccolta scava nella modellazione socio-politica dell’evento disastroso, rintracciandone le origini, le conseguenze potenziali, le interrelazioni contingenti e soprattutto le negoziazioni di senso. Il sottotitolo, presente solo nella versione inglese, evidenzia lo scopo dichiarato del libro: contribuire al superamento della “cultura del rischio”. In genere, con questo concetto s’intende quel “discorso” coercitivo in senso foucaultiano (Foucault 1971) che le istituzioni – in presenza o meno di un disastro – utilizzano per differenziare le pratiche rischiose da quelle che non lo sono, con la finalità implicita di governare la popolazione. Da questa lettura si deduce che governare i disastri vorrebbe anche dire controllare la produzione del discorso sul rischio nell’intento di delimitare il campo di azione in cui alcune pratiche sociali possono essere incluse in quanto appropriate, a discapito di altre.

Percezione e azione dunque. Il libro si snoda tra i due contesti in un andirivieni di richiami, col tentativo di evidenziare le pratiche concrete attraverso le quali determinate percezioni assumono senso collettivo. “Come percepiamo il pericolo?” (Douglas 1991). Se volessimo riproporre questa domanda – basilare per lo studio antropologico dei rischi, e di conseguenza dei disastri – considerando il taglio analitico del libro, dovremmo dire: come interagiamo socialmente per produrre il discorso sul rischio? E quali forze sono messe in campo per stabilire determinate letture del disastro? Sembrano le questioni fondamentali cui i vari contributi tentano di rispondere.

Nella prima parte, lo storico Marc Elie e l’antropologo Frederic Keck si occupano di “anticipazione, preparazione e controversie”, riflettendo sulla costruzione sociale di quegli apparati preventivi che riproducono il discorso tecno-scientifico della “società del rischio” (Beck 1992). Nella seconda, i lavori etnografici di Mara Benadusi e Julien Langumier mostrano i risvolti politici connessi agli interventi basati sull’idea di “partecipazione e consultazione”, analizzando rispettivamente la fase post-emergenziale seguita allo tsunami in Sri Lanka e la gestione pubblica dei piani di inondazione nella valle del Rodano, in Francia. Nella terza parte del volume, infine, l’antropologa svedese Susann Ullberg e la sociologa italiana Laura Centemeri esplorano “questioni di memoria”, attraverso la ricognizione diacronica del lavorio di (ri)costruzione socio-simbolica che si mette in moto dopo l’evento disastroso, influendo sia sulla sfera pubblica che su quella privata.

Le tre aree tematiche sono accomunate dalla critica alla “cultura del rischio”, resa esplicita nel testo grazie alla descrizione dei piani di prevenzione (area 1), partecipazione (area 2) e commemorazione (area 3) che da essa derivano. In questa direzione, la funzione comparativa del volume s’interseca con quella descrittiva e i vari studi di caso assumono la forma di racconti di esperienze etnograficamente dense, le quali prendono valore all’ombra del discorso ufficiale del rischio, proprio nell’orizzonte del vissuto della catastrofe. Così, data l’eccezionalità di ogni disastro e la conseguente peculiarità della relativa descrizione, l’interesse del volume va ricercato nei vari saggi letti singolarmente.

“Governare tramite i pericoli” di Marc Elie vuole essere un esempio di storia politica del disastro. Il testo fa riferimento alla colata di fango del 1973 sulla città di Alma-Ata in Kazakistan. Scongiurata la catastrofe grazie all’opera d’ingegneria della “Grande Scienza” (p. 24) sovietica e all’eroismo degli operai, la diga del Medeo diventa un monumento “agglutinatore di senso” (Palumbo 2003: 375) riguardo il discorso ufficiale sul rischio da parte del governo socialista. “Vigilare gli animali, preparare gli umani” di Frederic Keck è un’etnografia multi-situata e multi-specie che ruota intorno all’analisi del rischio globale di pandemia da influenza aviaria, la cui prima allerta scoppiò nel 1997 ad Hong Kong. Riferendosi a temi legati alla bio-sicurezza, questo contributo considera i dispositivi multi-livello che attivano l’allarmismo e mobilizzano la prevenzione in un mondo sempre più connesso. “Coltivare comunità dopo il disastro” di Mara Benadusi parte da un assunto originale e poco esplorato nell’indagine sulle catastrofi: piuttosto che sul ruolo dei disastri come devastatori o riproduttori di ordini preesistenti, l’autrice si propone di riflettere sulla loro capacità creatrice di ricombinazione sociale. Basandosi sullo studio di una regione costiera nel Sud dello Sri Lanka colpita dallo tsunami del 2004, il luogo della catastrofe viene concepito come un “laboratorio di apprendimento” dove diverse idee di comunità sono assemblate intorno ad un ambizioso programma di ricostruzione che fa uso del popolare slogan “Building Back Better” (p. 91). “Uno sguardo critico sulla cultura del rischio” di Julien Langumier propone di analizzare le concertazioni e negoziazioni tra amministratori e popolazione locale legate al piano di prevenzione dalle inondazioni del fiume Rodano nel 2003. Attraverso l’analisi etnografica della mobilitazione sociale attivata dall’alto, nei termini di una partecipazione pilotata, l’autore riesce a mettere in luce la capacità legittimante di quella fabbrica pubblica del consenso che esprime il discorso ufficiale sul rischio. “Memoria e metodologia” di Susann Baez Ullberg illustra come il ricordo delle inondazioni storiche a Santa Fe, nel Nord-Ovest dell’Argentina, sia iscritto nel “paesaggio memoriale urbano” (p. 169), nel senso di una normalizzazione spaziale e temporale dell’evento che influenza le pratiche locali di gestione del rischio. Grazie ad una metodologia di ricerca trans-locale, si rintracciano qui dinamiche di produzione pubblica dell’oblio che potrebbero rendere disastrosa, soprattutto per cittadini in situazioni socio-economiche sfavorevoli, ogni nuova inondazione. “Investigare la memoria discreta” di Laura Centemeri fa riferimento alla necessità – da parte della comunità di Seveso (nel Nord-Italia) colpita dalla fuoriuscita di diossina da uno stabilimento della società ICMESA – di conservare un ricordo intimo del disastro chimico del 1976, evitando la sfera del riconoscimento collettivo. La divergenza tra politiche della memoria si nota soprattutto nell’ingerenza del potere istituzionale atto a delegittimare quei discorsi pubblici che non rientrano nella cultura del rischio. La tensione costante tra attivisti e abitanti sugli ambiti della memoria delinea inoltre un percorso sommesso del ricordare, che condiziona anche l’azione rivendicativa del movimento ambientalista.

Nella postfazione critica “Pensare tramite i disastri”, il sociologo Nicolas Dodier riflette sulle varie impostazioni metodologiche utilizzate nello studio socio-antropologico dei disastri e sui contributi apportati in quest’ambito dai testi che compongono l’opera. Riferendosi al concetto estremamente vasto di “dispositivo” in termini foucaultiani (Foucault 1977), l’autore propone di considerare la raccolta come un’originale “antropologia dei dispositivi” (p. 237). In questa veste, il libro affronta in maniera stimolante tematiche classiche per la ricerca sul disastro quali: l’emergenza, gli aiuti, la ricostruzione, la vulnerabilità, la prevenzione, la percezione del rischio, la gestione della memoria.

Concentrandosi sulla catastrofe come sfera di governance, dove le forze messe in campo sono osservabili sia nella produzione che nella gestione del rischio, il volume fa particolare attenzione alle interazioni attraverso le quali il contesto disastroso è rinegoziato e riprodotto costantemente dagli attori sociali. Nel descrivere la tensione che si genera in queste “arene” (Olivier de Sardan 1995: 194), tra diverse forze influenti – come ad esempio tra sapere esperto e sapere “vernacolare” (p. 5) – l’opera presenta dunque il disastro come un campo performativo in perpetua mutazione. Il libro riesce anche nel difficile intento di rivelare come sono gestite le catastrofi a vari livelli, attraverso piani analitici (macro-micro, pubblico-privato, globale-locale, esperto-vernacolare, etc.) posti spesso in alternanza comparativa, ma non necessariamente in opposizione, secondo una prospettiva “simmetrica” (p. 11).

A mio avviso, l’apporto di Governing Disasters nell’ambito dello studio socio-antropologico delle catastrofi è da ricercare nel ventaglio interpretativo offerto dai vari studi di caso che, nell’intento di superare la visione monolitica del rischio, arrivano ad una descrizione etnografica minuziosa delle sfaccettature che solo un “quotidiano ordinario complesso” (p. 10) può mostrare. Il libro riesce così a svelare una policy multi-governativa che determina politiche di gestione dei disastri non sempre appropriate. In tal senso, l’utilità “pubblica” di Governing Disasters, non a caso recensito in questa rivista, starebbe nell’esortare gli esperti al “buongoverno” delle catastrofi. In questi termini, non si tratterebbe di limitarsi all’applicazione di piani sempre più perfezionati di prevenzione, mantenimento e recupero, qualora questi vengano basati su una cultura del rischio che si retroalimenta attraverso interventi già definiti a prescindere dal contesto. Al contrario, le politiche pubbliche dovrebbero riconsiderare come parte attiva nel “governo dei disastri” la molteplicità di attori che rinegoziano le proprie azioni rispetto alle catastrofi, ridefinendo gli stessi disastri in base alle proprie esperienze e finalità.

Bibliografia

Beck, U. 1992. Risk Society, Towards a New Modernity. London. Sage Publications.

Douglas, M. 1991 [1986]. Come percepiamo il pericolo: antropologia del rischio. Milano. Feltrinelli.

Foucault, M. 1971 [1971]. L’ordine del discorso: i meccanismi sociali di controllo e di esclusione della parola. Torino. Einaudi.

Foucault, M. 1977. «The Confession of the Flesh», in Power/Knowledge Selected Interviews and Other Writings, (ed) C. Gordon 1980: 194-228.

Giddens, A. 1994. Les conséquences de la modernité. Paris. L’Harmattan.

Olivier de Sardan, J.P. 1995. Anthropologie et développement : essai en socio-anthropologie du changement social. Paris. Karthala.

Oliver-Smith, A., Hoffman, S. M. 2002. «Introduction. Why Anthropologists Should Study Disasters», in Catastrophe & Culture. The Anthropology of Disaster, (eds) S. M. Hoffman, A. Oliver-Smith. Santa Fe. School of American Research Press: 3-22.

Oliver-Smith, A. 1986. The Martyred City: Death and Rebirth in the Andes.Albunquerque. University of New Mexico Press.

Palumbo, B. 2003. L’Unesco e il campanile. Antropologia, politica e beni culturali in Sicilia orientale. Roma. Meltemi.