Richiedenti asilo e sapere antropologico

Una introduzione

Roberta Altin

Università degli Studi di Trieste

Giuliana Sanò

Università degli Studi di Messina

Table of Contents

Tra emergenza e consapevolezza
L’accoglienza emergenziale
Un’antropologia divisa: burocrate vs militante
Note di campo da una supervisione
L’ambivalente accoglienza verso l’integrazione
Bibliografia

Tra emergenza e consapevolezza

Il quarto numero[1] di Antropologia Pubblica nasce dalla sinergia di due panel focalizzati sull’accoglienza dei richiedenti asilo discussi a Trento (19-21 dicembre 2016) al IV Convegno Nazionale 2016 della SIAA — Società Italiana di Antropologia Applicata — su Politiche, diritti e immaginari sociali: sfide e proposte dell’antropologia pubblica. La prima sessione, coordinata da Roberta Altin, apriva il dibattito su Richiedenti asilo e comunità locali. Dall’emergenza alla consapevolezza, che proseguiva nel panel proposto da Elisa Mencacci, Giuliana Sanò e Stefania Spada su Accoglienza dei richiedenti asilo e sapere antropologico: tra necessità e legittimazione. I numerosi interventi hanno riempito complessivamente sei sessioni, stimolando una vivace discussione fra pubblico, relatori e organizzatori che ci è sembrato utile approfondire in questo numero della rivista di Antropologia Pubblica raccogliendo vari punti di vista. Il dibattito è continuato come eco al convegno, con posizioni divergenti sul ruolo (possibile o inconciliabile) dell’antropologia applicata nei contesti odierni che gestiscono l’accoglienza dei migranti. L’enfasi non era tanto dovuta a posizionamenti teorici o interpretativi divergenti, ma al fatto che la maggior parte delle relatrici e relatori delle sei sessioni sono o erano operativamente coinvolti nei campi, quasi sempre straordinari, dell’accoglienza, ed esposti quotidianamente a dilemmi etico-professionali. Seguendo le linea guida della Società Italiana di Antropologia Applicata, la call per il convegno era aperta ad un confronto interdisciplinare; hanno infatti risposto psicoterapeuti, assistenti sociali, insegnanti, sociologi e operatori coinvolti a vario titolo nel mondo dell’accoglienza rifugiati. In questo numero monografico su richiedenti asilo e sapere antropologico riportiamo le riflessioni e le esperienze più significative che sono emerse durante il convegno, rivolgendoci non solo ad un pubblico di antropologi/ghe, ma anche alle varie professionalità che si affiancano nella gestione dell’accoglienza migranti. Come coordinatrici e autrici (Altin, Mencacci, Sanò, Spada) abbiamo lavorato in un’ottica collaborativa, selezionando e discutendo sempre assieme sulla forma e direzione da dare ai materiali raccolti nel convegno, con l’obiettivo di diffondere esperienze e materiale utile per chi si indirizza verso questo ambito relativamente giovane della ricerca antropologica e per chi opera nei contesti di accoglienza per rifugiati, spesso isolato da qualsiasi comunità scientifica.

Una cospicua parte degli autori, o meglio delle autrici (la predominanza di genere non crediamo sia irrilevante e meriterebbe una riflessione in altra sede) di questo numero monografico sono operatrici sociali o legali, psicologhe, mediatrici, coordinatrici dei progetti di ospitalità, con una formazione antropologica di base. Un dato, questo, non trascurabile, che crediamo sia importante sottolineare, proprio perché dai vari apporti emerge uno scenario complesso composto da persone giovani con alta formazione e molto impegno personale, ma con scarsa stabilità contrattuale e poca definizione di ruoli. Solo una parte minoritaria dei contributi proviene dal mondo della ricerca ufficiale, che può interporre una maggiore distanza cognitiva o esistenziale dagli eventi. La maggior parte degli autori ha riflettuto su esperienze spurie fatte di compromessi etici, fratture personali, decisioni di restare o abbandonare il campo, sui dilemmi provocati dai recenti processi migratori in cui il ruolo dell’antropologia si gioca ancora in maniera ambigua, cercando un posizionamento utile, sebbene non connivente, con i dispositivi di potere. Per questo motivo, con molta onestà intellettuale, il lavoro di sintesi e di raccolta dei materiali prodotti durante il convegno e poi rielaborati nel processo di scrittura, non presenta un’interpretazione univoca, né riesce a delineare lo stato dell’arte dell’antropologia nei campi di accoglienza per rifugiati, ma apre il dibattito su quello che è diventato uno dei più frequenti sbocchi lavorativi per laureati e dottori di ricerca in antropologia, che si trovano ad operare a fianco di altre figure professionali, immersi in retoriche e prassi costantemente “emergenziali” e inseriti in dispositivi umanitari o burocratici che danno scacco sia agli operatori che ai migranti[2]. Questo numero di AP vuole fungere perciò da laboratorio sperimentale che raccoglie articoli e rapporti di ricerca dai/sui vari “campi” dell’accoglienza, lasciando spazio ad un confronto con altre professionalità per stimolare diverse letture e analizzare possibilità e limiti del sapere/potere antropologico che contempli anche angolature non unicamente accademiche o ideologiche.

Se «il rapporto tra antropologia e migrazioni è stato per lungo tempo congelato» — come afferma Riccio (2014: 11) parlando del contesto italiano — nell’ultimo periodo le turbolenze dei flussi migratori (Papastergiadis 2000) hanno chiamato letteralmente in campo le professionalità socio-antropologiche. Il mondo degli appalti prefettizi e l’organizzazione dei comuni per la gestione dell’accoglienza si sta infatti strutturando sempre più verso una gestione indiretta affidata al privato sociale (Petrovic 2016), all’interno del quale effettivamente molti antropologi trovano uno sbocco lavorativo come operatori, mediatori, coordinatori di progetto. Dalla fase di prima accoglienza fino a quella più integrativa l’antropologia si trova così a fianco di altre figure professionali a gestire situazioni complesse in contesti fragili, pressati da politiche di emergenza continua[3]. Si tratta di spazi pubblici per eccellenza che costruiscono le categorie di rifugiato e i reciproci rapporti identitari con le comunità di accoglienza, mettendo in forte tensione la visione critica antropologica e il suo coinvolgimento operativo sul campo. Da più parti emerge perciò il problema di come il sapere etno-antropologico possa entrare nel mondo professionale che gestisce l’ospitalità dei rifugiati e dei richiedenti asilo, in un’area liminale tra politiche e pratiche dell’accoglienza.

La necessità di affrontare il tema dei richiedenti asilo e profughi è stata quasi inevitabile dal punto di vista storico dopo il costante aumento di sbarchi (IDOS 2016: 9, 37), in particolare dal 2013 al 2016, e di ingressi via terra nel 2014-15, cui l’Europa ha risposto con strategie sempre più mirate ad un accesso differenziato e discriminante dei migranti. I flussi migratori verso l’Europa negli ultimi cinque anni sono stati prodotti da una concomitanza di fattori spesso di scala globale: la chiusura delle quote di ingresso per migrazioni economiche in seguito alla recessione del 2008, il fallimento delle cosiddette “primavere arabe” e la situazione di crisi perdurante tra conflitti politici e problemi ambientali in buona parte del continente africano, Afghanistan, Pakistan e Siria (Bayart 2007; Czaika, de Haas 2014; Ciabarri 2015). Nel momento in cui l’Europa ha ulteriormente serrato le porte di ingresso con vari procedimenti di esternalizzazione dei confini comunitari (Mezzadra, Nielson 2014; Sassen 2015), è esplosa la cosiddetta “crisi migranti”, con un utilizzo generico della categoria “migranti” che include l’arrivo di richiedenti asilo e rifugiati in transito verso le nazioni europee centrali e settentrionali, l’inserimento di chi aspetta un ipotetico ritorno a casa e di chi vuole invece insediarsi in Italia.

Come sottolineano Mencacci e Spada nelle conclusioni a questo numero, i flussi più recenti si collocano e vengono recepiti in maniera ambigua su un crinale che scivola da un lato verso le migrazioni economiche, divenute una sorta di tabù, e dall’altro verso i diritti politici dei richiedenti asilo o protezione. Le procedure di ingresso in Europa, la militarizzazione dei soccorsi in mare, le difficoltà logistiche degli attraversamenti e sbarchi, le morti e lo stato costante di allarme con la spettacolarizzazione mediatica degli arrivi (Cuttitta 2012) hanno reso la gestione dell’accoglienza un meccanismo politico difficile da analizzare a sangue freddo, proprio perché la percezione di emergenza e la gestione straordinaria dell’accoglienza sono cresciute assieme (Fassin, Pandolfi 2010).

Forse mai come in questo ambito si può parlare di un ruolo critico dell’antropologia pubblica chiamata a schierarsi e a interrogarsi sulla problematica triangolazione tra migranti, istituzioni pubbliche (questura, prefettura, commissioni territoriali, municipalità, ecc.) e terzo settore (Ong, associazioni, cooperative e servizi di assistenza) (Riccio 2016). In uno dei testi storici per i Refugee Studies, Imposing Aid, Harrel-Bond (1986) rimarcava la convinzione che la ricerca “sui” rifugiati debba essere utilizzata “per” i rifugiati; nello scenario contemporaneo la distanza tra teoria e prassi si è ridotta ulteriormente, come dimostra l’incremento di pubblicazioni di ricerca scientifica dal taglio applicativo. Il Refugee Studies Centre di Oxford è andato recentemente ad implementare la tradizionale e prestigiosa rivista Journal of Refugee Studies (JRS) con Forced Migration Review [4], rivista open source che affronta temi monografici e parole chiave dei flussi di migrazioni forzate contemporanee tramite rapporti bimestrali di ricerca sintetici e interdisciplinari. Sul sito si possono trovare anche una serie di nuovi prodotti editoriali in formati più snelli e flessibili, costantemente aggiornati e open source, dal RSC – Working Paper Series scritti da e per “addetti ai lavori”, al RSC Policy briefing Series e Research in Brief, per policy maker, ricercatori e operatori[5].

In Italia il testo curato da Hein (2010) riporta una breve storia del diritto d’asilo, ma il dibattito antropologico è stato introdotto da due numeri monografici dell’Annuario di Antropologia, il primo curato da Van Aken (2005) sul tema dei Rifugiati, seguito dalle curatele di Sorgoni (2013) e di Pinelli (2013) sui richiedenti asilo. Nel 2014 esce il compendio The Oxford Handbook of Refugee and Forced Migration Studies (Fiddian-Qasmiyeh et al. 2014), con una sintesi interdisciplinare della complessità dell’argomento, declinato anche seguendo gli studi d’area e seguendo nuovi approcci metodologici. Parallelamente aumenta l’attività del gruppo Escapes – Laboratorio critico sulle migrazioni forzate con workshop, conferenze e pubblicazioni fortemente orientati alla dimensione politica riguardante i confini, le emergenze e i campi per rifugiati; l’approccio è interdisciplinare, con una componente antropologica che svolge un ruolo rilevante (Marchetti 2014; 2016; Ciabarri 2015; Pinelli 2015). Una parte di pubblicazioni sul tema dei rifugiati ha trovato spazio nelle riviste tradizionalmente dedicate alle migrazioni, come International Migration Review, Journal of Ethnic and Migration Studies (open access), Migration Studies, Mondi Migranti; più specifiche su temi legali: Refugee Survey Quarterly e International Journal of Refugee Law. In Europa segnaliamo come strumenti più operativi, New Issues in Refugees Research a cura dell’UNHCR (Agenzia delle Nazioni Unite per i Rifugiati), i rapporti e le linee di indirizzo dell’ECRE (European Council of Refugees and Exiles) e quelli di Frontex, la contestata agenzia che presidia i confini europei; dal territorio italiano i rapporti periodici del Ministero dell’Interno, della Fondazione Caritas-Migrantes, di Medici Senza Frontiere e dell’ASGI – Associazione Studi Giuridici Immigrazione.

Pur tenendo conto della profonda diversità di scopi che anima l’elaborazione di questi report, è bene tuttavia sottolineare come, il più delle volte, si tratti di fonti non neutre che occultano i meccanismi di produzione della narrazione e rappresentazione delle migrazioni dietro un’apparente lettura obiettiva dei dati statistici. Quasi tutte le istituzioni, enti governativi ed associazioni che lavorano per/con i rifugiati producono, infatti, rapporti di ricerca in costante aggiornamento: si tratta di una mole enorme di tabelle e cifre che monitorano mese per mese la mobilità dei migranti. In realtà questa costante enfasi di misurazione e quantificazione concorre ad instaurare un senso di allarme continuo, orientando in maniera semplicistica la lettura di dati demografici privi di contestualizzazione, dove tutto sarebbe legato all’aumento di migranti in entrata, tralasciando un’analisi della complessità dello scenario europeo ed del cambio di prospettiva nelle policies migratorie (Czaika, de Haas 2014).

Se, fino a relativamente pochi anni fa, le pubblicazioni sul tema migrazioni in Europa giravano sostanzialmente attorno ai fattori economico-lavorativi e a quelli socio-integrativi, ora la chiusura delle quote d’ingresso per migrazioni economiche e l’aumento di richieste di protezione internazionale hanno indirizzato la letteratura sulla migrazione verso i temi del diritto, della bio-politica e dell’assistenzialismo. Temi che, da diverse prospettive e terreni disciplinari, vengono affrontati anche dai report di ricerca contenuti in questo numero, molti dei quali risultano connotati da una forte emotività che segnalano — come già lasciavano presagire le discussioni sorte all’interno del convegno — un coinvolgimento esistenziale e il ritorno di un’antropologia militante, ricomparsa anche negli spazi di dibattito pubblici.

Sono interventi etnograficamente “densi” (Geertz 1973) che, più che dare risposte, aprono ulteriori, molteplici interrogativi, soprattutto etico-deontologici, al dibattito teorico e alle divergenti interpretazioni sul compito dell’antropologia nel “campo” dei richiedenti asilo. Solo due articoli provengono da ambiti di ricerca, quello di Ferretti che descrive e analizza in maniera comparativa la gestione dell’accoglienza a Roma, Savona, Pesaro e Matera e quello di Galera e Membretti che analizzano un progetto di turismo sostenibile in aree montane, coinvolgendo attivamente rifugiati e migranti. Tutti gli altri interventi partono da esperienze lavorative come mediatori (Sbriccoli, Mugnaini), operatori e/o volontari nell’ambito dell’accoglienza (Benemei, Scarselli e Signorini), quasi sempre in centri di accoglienza straordinaria (Castellano, Guida, Cammelli) gestiti in maniera burocratico-procedurale in un clima di costante pressione emergenziale.

Il lavoro di Ferretti analizza il complicato rapporto tra le comunità locali e i beneficiari dell’accoglienza, visualizzando i rischi del conflitto urbano e sociale esacerbati dalle condizioni di abbandono e di sofferenza sociale di un quartiere della capitale. Le narrazioni e le problematicità che emergono dai contributi di Cammelli, Castellano, Guida e Mugnaini risultano affini nei contenuti e nei contesti di osservazione: la realtà dei CAS del Centro e Nord Italia viene scrupolosamente descritta dalle autrici che, a diverso titolo, collaborano o vi hanno collaborato nel ruolo di operatrici dell’accoglienza. Ciò che emerge dalle testimonianze, è l’impossibilità delle autrici/operatrici di venire a patti con un sistema che si avvale dell’uso tecnico e strumentale dell’emergenza, per evitare di dover rispondere efficacemente alle problematiche e alle conflittualità generate dal sistema stesso. Attraverso il racconto di vita di un giovane richiedente asilo, il contributo di Benemei, Scarselli, Signorini affronta la schizofrenia di un sistema che, per un verso pretende di controllare e di decidere delle traiettorie di vita dei beneficiari nel tentativo di inquadrarle all’interno di categorie rigide e prestabilite, dall’altro, invece, pratica ed esercita forme di violenza e di abbandono istituzionale (Pinelli, Ciabarri 2015).

La logica emergenziale consente di sospendere diritti sia dei rifugiati che, spesso, degli operatori stessi, alimentando un clima di precarietà ambigua e, soprattutto, di impotenza in tutti gli attori sociali coinvolti. Il disincanto di Benemei, Scarselli e Signorini denuncia pratiche burocratiche frammentarie e incoerenti che incasellano il migrante in categorie amministrative con tecniche di controllo biometrico. Castellano e Guida descrivono dettagliatamente la costruzione di un regime ambivalente di assistenzialismo paternalistico e di controllo, messo in atto dalle pratiche procedurali di un sistema burocratico che plasma i rifugiati con la connivenza spesso consapevole degli operatori dell’accoglienza. Mugnaini esplicita la disgiunzione tra teoria e prassi quando ci si immerge nei contesti operativi dell’accoglienza e denuncia l’incapacità di tenere una postura critica sul campo quando si intrecciano valori etici, codici professionali e culture organizzative. Cammelli e Sbriccoli si interrogano sulle relazioni di potere fra operatori e richiedenti asilo, cercando possibili vie di fuga o di resistenza per un’antropologia che voglia porsi come sapere critico. Il saggio di Sbriccoli va a fondo alla questione da cui trae origine questo numero. L’autore, in particolare, si interroga sul ruolo degli/delle antropologi/ghe all’interno del sistema di accoglienza istituzionale, problematizzando le diverse strategie operative e conoscitive adottate dagli antropologi/ghe sul campo, allorquando si presenta la necessità di negoziare il proprio sapere e di misurarsi con quelli che provengono da altri terreni disciplinari.

Accomuna tutti gli interventi una sorta di auto-etnografia riflessiva in cui la domanda di fondo apre degli interrogativi importanti per chi si occupa di antropologia applicata e pubblica: è possibile fare ricerca e contemporaneamente svolgere ruoli operativi nel mondo dell’accoglienza? Quali sono i limiti etico-professionali accettabili e quali sono obiettivamente le capacità d’intervento professionale quando si opera in contesti in cui le forme di violenza sono pervasive, e si nutrono spesso della connivenza degli operatori?

L’accoglienza emergenziale

Nella fase di prima accoglienza, il richiedente asilo dovrebbe essere accolto in una struttura temporanea in attesa che venga espletato l’iter per il riconoscimento di una forma di protezione internazionale o di un permesso di soggiorno per motivi umanitari. La varietà degli acronimi in campo, CPSA (Centro di Primo Soccorso e Accoglienza), CDA (Centro di Accoglienza), CARA (Centro di Accoglienza per Richiedenti Asilo), CAS (Centro di Accoglienza Straordinario) e CPR (Centro di Permanenza per il Rimpatrio)[6] indica da un lato come le politiche di gestione sostengano un regime di costante emergenza (Bigo 2007; IDOS 2016: 135-137), dall’altro che, nelle pratiche, il richiedente asilo si trovi collocato al momento dell’arrivo in una sorta di gioco dell’oca, dove l’inserimento o l’espulsione dal sistema di accoglienza sembra aleatorio quasi quanto il lancio dei dadi, con la differenza che chi migra non conosce quasi mai in anticipo le regole del gioco.

La prima accoglienza risulta l’area di attrito più forte in un sistema che colloca i richiedenti asilo in una sorta di limbo “in attesa di”, dove la sospensione spazio- temporale dalla vita ordinaria produce un primo processo di disciplinamento e di categorizzazioni (Rahola 2003; Fassin, Pandolfi 2010; Marchetti 2014; Pinelli 2015). Queste strutture governate in nome della sicurezza da un regime di controllo che scandisce orari e mobilità, spesso rifunzionalizzano spazi militari in disuso, come caserme dismesse o accampamenti segregati ai margini dalla vita ordinaria, dove i migranti diventano numeri e le loro vite risultano interamente plasmate dalla burocrazia, dalla miopia normativa e dalle procedure per il riconoscimento (Levy 2010; Moran, Gill, Conlon 2013). Sono luoghi che per un verso rimarcano la categorizzazione dei migranti come mondo a parte, da controllare e da tenere ai margini, e per un altro collocano all’interno richiedenti asilo, ricorrenti, migranti irregolari — e quindi rei di clandestinità in base alla legge Bossi-Fini (n.189, 30 luglio 2002) — creando un mix perverso nella gestione del centro che oscilla fra regime carcerario repressivo e assistenzialista. Dal punto di vista dell’analisi dei dispositivi (Foucault 1993; Agamben 2006) è facile schierarsi contro questo sistema, è però anche vero che ci sono zone di resistenza dal basso, linee strategiche e tattiche che riescono spesso a minare il sistema con la complicità del sapere antropologico (Agier 2010). In questi contesti l’antropologo-operatore entra in quanto parte di un'associazione incaricata di gestire l’accoglienza dei migranti e, sempre più spesso, il suo contributo si riconosce più spiccatamente in quel ruolo di mediazione svolto nella fase di attesa e di preparazione istruttoria del procedimento legale per il riconoscimento del diritto di asilo e/o di protezione che si svolge davanti ad una Commissione Territoriale, composta da due rappresentanti del Ministero dell’Interno, uno del sistema di autonomie locali, un rappresentante dell’Alto Commissariato per i Rifugiati delle Nazioni Unite (UNHCR), oltre ad un eventuale interprete.

Sul tema Barbara Sorgoni (2011; 2013) aveva già scorporato le dinamiche complesse del procedimento di documentazione, narrazione e trascrizione nei contesti istituzionali delle commissioni, denunciando la mancanza di tutele linguistiche e di adeguate conoscenze sul contesto di origine. In questi ultimi anni, l’incremento costante dei casi da esaminare e l’oscillazione nell’apertura/chiusura delle varie commissioni in base alla discrezionalità dei componenti e alle logiche territoriali hanno reso molto più aleatorio l’esito processuale, incrementando i ricorsi. Nonostante da qualche anno vi sia stata l’apertura di ulteriori sedi di Commissione Territoriale, nell’ottica di uno snellimento e di una velocizzazione delle procedure burocratico-amministrative, il numero delle domande di asilo/protezione risulta comunque essere aumentato in maniera esponenziale, rendendo le audizioni una sorta di catena di montaggio che riproduce moduli di interviste cercando di raccogliere nel poco tempo a disposizione le informazioni pertinenti e di incasellare il/la richiedente nelle categorie del questionario, collegate prevalentemente al contesto geo-politico ed etnico di provenienza (Zetter 1991; Malkki 1995).

Durante il periodo di attesa dell’audizione in Commissione le dinamiche fra operatori dell’accoglienza e richiedenti asilo sono funzionali alla ri-costruzione della storia più “attendibile” per ottenere il riconoscimento di una forma di protezione internazionale o umanitaria. Sembrerebbe che l’opera di traduzione antropologica (Fabietti 2005) costruita tramite il dialogo con gli informatori/richiedenti in questa prima fase più delicata e rischiosa dell’accoglienza possa essere utilmente messa in campo, tuttavia il gioco non si svolge in campo neutro. Anzitutto, le competenze utilizzate durante la preparazione delle interviste sono quelle più spiccatamente etnologiche areali, tipiche di un approccio geopolitico della ricerca etnologica che è stato fortemente messo in discussione dalla critica postcoloniale (Comaroff, Comaroff 1991: 86-125; Bayart 2007). È vero, come afferma Sbriccoli in questo numero che gli antropologi servono perché “funzionano”, ma sempre più spesso le conoscenze specialistiche “areali” basate unicamente sul luogo e cultura di origine del richiedente asilo si rivelano non sufficienti per affrontare storie migratorie estremamente eterogenee per provenienza, appartenenze ed esperienze. La categorizzazione per essenzialismi etnico-nazionali (Malkki 1995: 511) determina immediatamente una mancata attenzione ad altre caratteristiche importanti per il richiedente asilo: in primis il genere, ma anche la classe socio-economica, il livello di istruzione e il capitale culturale, le competenze, l’esperienza di migrazione, le connessioni diasporiche. In un gioco delle parti spesso inconsapevole può accadere quindi che l’antropologo-operatore cerchi di “imbastire” assieme al richiedente asilo la storia più plausibile, ossia quella con maggiori possibilità di venire recepita come motivazione valida per ottenere il riconoscimento. Le commissioni, pur attenendosi alle prescrizioni delle leggi internazionali, oscillano nelle interpretazioni in maniera discrezionale non neutra rispetto al clima politico in cui si trovano ad operare: a partire dalle fluttuanti aperture/chiusure delle politiche di accoglienza europea (Mezzadra 2001; Campesi 2015) fino a scendere nei contesti politici locali, dove in genere si scaricano la maggior parte dei conflitti decisionali riguardo la presenza territoriale di rifugiati. Decine di audizioni al giorno compresse in poco tempo producono dei cliché di storie, creano quasi dei “repertori” etnici di storie migranti con elementi tipici caratterizzanti e ricorrenti che indirizzano l’uditorio verso una pista interpretativa. L’assunzione di questa nuova veste, da parte dell’antropologo/a, si concilia perfettamente con il problema della trascrizione dell’esperienza etnografica poiché, come sottolinea Piasere (2002: 110), l’antropologia non è letteratura e dunque anche per l’etnografo dei contesti di accoglienza pesa il maleficio borgesiano di tradurre queste vite in parole.

Come già sperimentato in Francia (Fassin 2005), più i governi e le politiche europee si trovano compressi fra un’opposizione interna dell’elettorato che spinge per una maggiore chiusura dei confini, sempre meno le commissioni riconoscono motivazioni di ingresso squisitamente politiche e legate alla tutela dei diritti umani. Si abbassa così il filtro di ingresso attraverso le pratiche di ordinaria amministrazione che interrogano e mettono sempre più in dubbio le storie dei richiedenti asilo che rivendicano il diritto di fuga per motivi politici (Mezzadra 2001): persecuzioni, guerre, mancato rispetto dei diritti umani, ecc. Dall’altra parte della barricata le associazioni e le cooperative che gestiscono la prima fase di assistenza spingono sempre più verso la costruzione di storie che possano essere più assertive e meno interpretabili in maniera discrezionale dalla commissione. Per far ciò le motivazioni devono essere sempre più legate al corpo (segni di tortura, malattia, violenza), a comportamenti dettati da “istinti corporei” (LGTI) o a componenti etniche quasi primordiali che “spiegherebbero” in maniera deterministica la situazione (Appadurai 2012: 177-201). Nella preparazione delle storie si enfatizzano così le componenti bio-corporee, stigmatizzando anche gli aspetti comportamentali stereotipati: la donna vittima e debole, l’omosessuale effeminato, con un collasso del concetto di genere sul piano biologico (Sandfort, Simenel et al. 2015). Il dispositivo della protezione premia identità pre-confenzionate e classificazioni rigide, dove la testimonianza del rifugiato viene adattata alle categorie interpretative occidentali.

L’antropologo, come afferma Cammelli in questo numero, negozia la sua posizione, collocandosi negli interstizi procedurali, nei buchi di conoscenze linguistiche e culturali delle commissioni territoriali per sviare, condurre, indirizzare l’advocacy verso la protezione. Per il richiedente asilo la priorità è chiaramente il riconoscimento dello status di protezione e nel gioco delle parti il sapere antropologico è spesso schierato a suo favore, mettendo in campo tutte le proprie competenze per portare a casa il risultato, ma nel fare ciò diventa di fatto connivente con un dispositivo politico davvero perverso.

Le ambiguità sussistono su vari fronti: l’antropologa/o gioca la parte di esperto di componenti etnico-culturali rivendicando un ruolo difensivo della minoranza subalterna, come succede spesso nei contesti della cooperazione, tuttavia così si pone in un esercizio di traduzione delle storie di vita che non solo è interpretativo e soggettivo, ma è esplicitamente distorto e finalizzato al raggiungimento dell’obiettivo davanti alla commissione. Per ottenere i documenti si sceglie e si costruisce la credibilità, la narrazione più attendibile in base a criteri che sfuggono completamente al controllo dei veri attori sociali implicati, che dovrebbero essere i richiedenti asilo.

Chi opera nella fase di prima accoglienza ha un ruolo di responsabilità effettivamente enorme, con pesanti condizionamenti etici, coinvolgimenti emotivi che spesso sono determinati dalla scarsa chiarezza di ruoli e di mansioni professionali, delle competenze, degli incarichi e, aggiungerei, dei carichi. Sono lavori il più delle volte precari, che richiedono scolarizzazione e competenze alte, ma offrono contratti e tutele estremamente fragili; tutto ciò impatta non solo sulle identità personali, ma anche sulle dinamiche relazionali con i migranti. Sembrano saltare i confini fra ambito privato e lavorativo, complici anche le nuove tecnologie che tengono tutti eternamente connessi (il gruppo WhatsApp per operatori e rifugiati, l’ospitalità totale, la mancanza di un orario di lavoro normale ecc.) e, mai come oggi, emergono sindromi da burnout lavorativo.

L’altra realtà professionale relativamente nuova che risulta sempre più diffusa dai campi di accoglienza è il lavoro d’équipe, un lavoro di meticciamento con altre professionalità di cui riporteremo uno spaccato etnografico. In parte esso riprende l’esperienza dell’etnopsichiatria e dell’antropologia medica (Taliani, Vacchiano 2006; Beneduce 2010) ma, oltre al piano di assistenza sanitaria e psicologica, l’antropologia sta iniziando a dialogare con competenze legali e procedurali, che rendono la catena davvero complessa (Grillo 2016).

Dalle etnografie presentate emerge con forte evidenza il problema del trattamento umanitario-paternalistico che produce passività e vittimizzazione del migrante, un procedimento mai neutro, che assume sfumature diverse in base al colore ideologico-politico del contesto associativo (Malkki 2002; Vacchiano 2005). Trapela anche un forte senso di rivendicazione di sapere critico e di autorialità etnografica forse un po’ troppo autoreferenziale, soprattutto nei confronti dei richiedenti asilo; spesso si assiste al tentativo di creare un senso di “comunità” con i migranti, senza chiedersi se questo rappresenti per loro un reale obiettivo. Mancano delle domande chiarificatrici del rapporto con i migranti: chi vedono e cosa proiettano in me, l’antropologo competente o l’operatore del centro di assistenza? Chi è appena sbarcato in Italia è in grado di comprendere il perverso meccanismo burocratico-amministrativo e, soprattutto, di inquadrarci in un ruolo che abbia senso? Siamo in grado di definire quali siano i nostri compiti professionali e i limiti che ne derivano? Interrogarsi su quanto sia lecito sostenere delle storie ‘sfalsate’ che alimentano infine una politica che schiaccia sempre più verso il basso, verso una dimensione quasi biologica quelli che dovrebbero essere “diritti umani”.

Sono quesiti profondamente etici che mettono a rischio il codice deontologico dell’antropologia perché, attraverso la prassi burocratico-giudiziaria del riconoscimento o meno dei diritti umani, si sta modificando, anche con la connivenza inconsapevole delle associazioni e degli antropologi coinvolti, la concezione di quale sia il confine tra bios e zoë (Agamben 1995; Arendt 2005) e, perversamente, possono essere proprio gli antropologi culturali a enfatizzare la cultura come componente deterministico-biologica (Fassin 2014). La fase di costruzione della “storia di vita” è sì uno strumento giuridico da impugnare, ma rappresenta anche una fase liminale di ricostruzione biografica e identitaria, dove potrebbero emergere non solo luogo di origine e motivazioni di fuga, ma anche la costruzione del percorso migratorio, le aspettative verso il futuro, l’identità più complessa e poliedrica del presente. Raccogliere la documentazione orale contestualizzando con thick description (Geertz 1973) le motivazioni è fra le competenze antropologiche quella più rilevante per dar voce a chi non ha sufficiente potere di rappresentanza né di auto-rappresentazione (Sigona 2014).

All’interno dei centri il costante senso di emergenza produce un graduale processo di spersonalizzazione dei rifugiati tramite una serie di codifiche e regolamentazioni amministrative che governano non solo le modalità con cui dovrebbero venire valutati e trattati, ma il modo stesso in cui devono pensare e rappresentare loro stessi e le loro azioni, se indossano la divisa del richiedente asilo adattandosi a diventare “cittadini” con tutti i saperi, le pratiche e i discorsi retorici spesso impliciti che il processo comporta (Ong 2005).

Spesso le interazioni fra operatori e migranti nella fase di prima accoglienza si svolgono in contesti presidiati e centri gestiti da regimi semicarcerari, dove emerge il problema del forte controllo che delimita i centri e che limita la mobilità dei migranti, sia all’interno che all’esterno dei campi di accoglienza straordinaria (Ashutosh, Alison 2012; Moran, Gill, Conlon 2013). In un gioco di specchi reciproco la collocazione dei centri isolati dall’ordinario flusso della vita locale alimenta rappresentazioni distorte o impaurite tra i residenti italiani (Schuster 2005, Gill 2009), determinando un costante ricorso allo stato di emergenza e di misure straordinarie in risposta ad esigenze ricorrenti assolutamente prevedibili (Levy 2010; Moran 2012).

Finora la riflessione sul tipo di etnografia e di rapporto che si può instaurare con i richiedenti asilo in questi campi condizionati da norme di controllo e di limitazione dei movimenti ha trovato poco spazio (Waquant 2002; Ravenda 2011). Nei centri di accoglienza straordinaria l’impressione di non poter condurre colloqui e interviste liberi e aperti è evidente: il dislivello di potere e di autodeterminazione prodotto “da” e incorporato “nella” relazione tra beneficiari e operatori mette, infatti, fortemente in discussione la funzione dell’antropologo-operatore, al punto tale che ci si domanda se non sia forse più opportuno interpretare il ruolo dell’antropologia applicata in questi contesti come una non-azione (Mencacci, Spada, in questo numero). Tale interpretazione comporta che l’antropologo-operatore ricopra un ruolo di testimonianza attiva che espliciti la non accondiscendenza al regime, non già schierandosi secondo una semplificata logica contrappositiva (associazionismo vs. poteri giudiziari), ma piuttosto cercando di fungere davvero da osservatore non partecipante. Va constatato che solo pochissimi contributi (Guida e Mugnaini), hanno riportato in maniera letterale la voce dei rifugiati, riattivando uno statuto fondamentale dell’antropologia: dare spazio di rappresentanza diretta a chi è subalterno. I limiti dell’antropologia militante nei contesti delicati come quelli dell’accoglienza sono quelli di arrogarsi il potere interpretativo del bene del migrante, senza lasciare spazio all’emersione del punto di vista di un’alterità comunque non definibile a priori, se non cadendo in un ulteriore gioco di sopraffazione comunicativa.

Un’antropologia divisa: burocrate vs militante

Come già esplicitato nei precedenti paragrafi, il sistema di accoglienza istituzionale si compone di una filiera alquanto complessa e variegata[7]. Dentro le maglie di questa filiera, all’occorrenza più o meno larghe, vengono ospitati i richiedenti e titolari di protezione che riescono a non cadere nella trappola delle motivazioni economiche tesa dalle agenzie di frontiera al momento del loro ingresso sul territorio nazionale. Ci riferiamo, in particolare, agli arrivi via mare. Al momento dello sbarco, ai migranti viene somministrato un breve questionario e, sulla base delle risposte fornite, le autorità preposte all’identificazione iniziano la prima scrematura[8]. Quando queste risposte contemplano la motivazione asilo, allora ai migranti verrà data l’opportunità di entrare a far parte della categoria dei cosiddetti “richiedenti protezione internazionale”; in caso contrario, invece, essi verranno bollati come semplici — e scomodi — “migranti economici”. Dopo questa prima e decisiva selezione, per i primi si apriranno le porte di una filiera interminabile, composta da: CDA, CAS, CARA e, per i più fortunati, SPRAR; per tutti gli altri — respinti in differita — le uniche porte che si apriranno saranno quelle dei CPR o dell’irregolarità, fuori dal sistema di accoglienza e da quello detentivo[9].

I saggi e i rapporti di ricerca presentati in questo numero si concentrano, in particolare, sul racconto di esperienze di richiedenti e titolari di protezione e sul funzionamento del sistema di accoglienza governativo e territoriale. Sebbene gli autori e le autrici si siano forgiati/e all’interno di ambiti professionali dei più vari — assistenti sociali, ricercatori, mediatori culturali, ingegneri, economisti, psicologi, antropologi e sociologi professionisti — i contributi condividono l’obiettivo comune di restituire un’immagine composita del sistema di accoglienza istituzionale, compatibile con la frammentazione, l’opacità e l’indeterminatezza (Sorgoni 2011; White 2011) che se ne può ricavare materialmente. Storie e traiettorie biografiche, quando non anche autobiografiche, rappresentano il collante di questo lavoro teso a sviscerare il funzionamento e il posizionamento delle realtà e delle istituzioni locali in materia di asilo, tenendo insieme le esperienze e le procedure di contesti territoriali molto diversi e geograficamente distanti tra loro.

Al di là delle differenze di contesto, i casi studio qui riportati mirano, su tutto, a scandagliare le potenzialità e le criticità di un sistema che riunisce e fa lavorare al suo funzionamento diverse figure professionali, ognuna con il proprio bagaglio teorico e con il proprio portato di esperienze pratiche e di campo. Imprenditori, professionisti del settore e dilettanti allo sbaraglio si ritrovano, così, a collaborare per uno scopo comune: l’accoglienza. E, tuttavia, al di là di questa comunione di intenti, quantomeno formale, è su questo terreno che si riversano e si ravvisano le differenze più evidenti tra quanti di questi finiscono con l’avere a cuore la sopravvivenza del sistema — incorporando e proiettando il ruolo della burocrazia e dei burocrati — e chi, invece, non perde mai di vista il vero obiettivo: la tutela e l’accoglienza dei/delle beneficiari/e. Intorno a questa “frattura”, generata molto spesso dall’impossibilità di sciogliere legami e rapporti di continuità/complicità con l’istituzionalizzazione di pratiche che mirano all’imbrigliamento dei soggetti beneficiari, ruotano in particolare i saggi di Cammelli, Castellano, Mugnaini. Le tre autrici, dopo essersi scontrate contro questa impossibilità decidono, infatti, di affidare al dibattito che qui si sta proponendo alcune riflessioni per una lettura critica del ruolo e del posizionamento dell’antropologia all’interno dell’universo accoglienza.

Più in generale è a questi due diversi livelli di incorporazione dei ruoli, il burocrate e il militante – i quali contribuiscono in egual misura a fare dell’accoglienza il sistema che tutti conosciamo, critichiamo e studiamo nella veste di ricercatori e di professionisti del settore – che si rivolgono gli autori di questo numero monografico, nel tentativo di approfondire e di sciogliere i nodi conflittuali che, quasi sempre, ne derivano. Ma, più ancora, essi riflettono e gettano luce sul vissuto dei professionisti e degli attori dell’accoglienza, dando filo da torcere ai sostenitori di una presunta neutralità (Manocchi, Marchetti 2016) nell’ambito delle procedure, delle pratiche e, in particolare, dei soggetti coinvolti nella gestione dell’accoglienza. A screditare questa presunzione di neutralità agisce, in particolare, l’arbitrarietà con cui gli operatori e il personale dell’indotto burocratico parallelo al sistema di accoglienza (operatori dell’agenzia delle entrate, impiegati allo sportello dell’ufficio postale, impiegati dell’ufficio anagrafe, operatori dell’ufficio immigrazione) detengono e amministrano quel potere che si incarna nell’espletazione o, viceversa, nell’interruzione di una pratica burocratica (Graeber 2016). Per citare solo uno degli esempi in cui questi meccanismi discrezionali agiscono, ci rifacciamo alle procedure necessarie per il rilascio del titolo di viaggio nei casi in cui non è possibile procedere con l’ottenimento del passaporto. Il titolo di viaggio può essere rilasciato dalla questura competente, nel caso in cui l’ambasciata del paese del richiedente non produca risposte all’istanza presentata o, in altri casi, quando per i motivi per cui al richiedente è stata riconosciuta la protezione sussidiaria risulta estremamente pericoloso per lo stesso rivolgersi all’ambasciata del proprio paese. Diversamente, per i casi di protezione internazionale si procede con il rilascio del documento di viaggio; per i casi di protezione per motivi umanitari, a meno che non si presentino gravi fattori di rischio, si procede con l’istanza per il rilascio del passaporto. Dalle testimonianze e dai racconti degli operatori legali emerge, quasi sempre, che nei locali uffici immigrazione le procedure per il rilascio dei titoli di viaggio non sono mai uguali tra loro, e che esse risentono ciclicamente dell’umore dell’operatrice incaricata, del cambio di guardia tra la precedente e la nuova dirigenza dell’ufficio e, in particolare, del clima di paura che si respira all’indomani di un attentato terroristico. Il potere di cui stiamo parlando è il risultato di un atteggiamento del tutto discrezionale, determinato dalle scelte personali e arbitrarie del personale e degli operatori. Appare chiaro, in quest’ottica, come il sistema di accoglienza sia, in fondo, niente di più che un’organizzazione la quale, per un verso, dispensa a funzionari e operatori regole, procedure e una discreta razionalità organizzativa e, per un altro, invece, sopravvive proprio grazie al suo esatto opposto, alla vanificazione di queste (Arendt 2001). Ciò significa che gli individui che operano concretamente all’interno di questo sistema sono perfettamente in grado di pianificare scelte che non rientrano nell’ordine di quella razionalità organizzativa prescritta dalla struttura, e mediante l’uso di razionalità private essi possono in ogni momento condurre alla realizzazione di processi degenerativi a cui fanno seguito disfunzioni e inconvenienti (Crozier 1969). Ed è proprio intorno a questa disfunzionalità, connaturata al sistema accoglienza, che si collocano i contributi proposti in questo volume. Attraverso i racconti e le testimonianze del loro vissuto da operatori, gli autori fanno leva sia sulla necessità di riconoscere il gap profondo tra le politiche e le pratiche — «tra i programmi disegnati da decisori politici e dai loro collaboratori tecnici, e le concrete implementazioni di tali programmi che vengono effettuate dagli operatori che si trovano in prima linea nell’accogliere e supportare la complessità portata dai rifugiati» (Manocchi, Marchetti 2016: 34); sia sull’opportunità che tale gap consente nel realizzare pratiche e azioni che sorgono dal basso e che vengono poi esercitate fuori dal sistema e dalle regole che esso impone. Su questo aspetto, in particolare, si sofferma il saggio di Mugnaini, distinguendo tra il prevalere di una cultura dell’organizzazione e dei valori aziendali immediatamente riflessi nel lavoro delle classi dirigenziali e la libertà di un mediatore culturale, ad esempio, nel condurre le sue mansioni all’interno dei contesti di accoglienza.

Ruoli, vissuti e scelte personali degli operatori condizionano, più degli ideali e delle misure di accoglienza, le esperienze e le traiettorie dei soggetti beneficiari, i quali si ritrovano a venire a patti con un universo istituzionale e burocratico dai confini sempre molto incerti e, tuttavia, non per questo meno creativi. A riprova di questa creatività, che agisce e che si articola lungo i margini designati dal potere (Das, Poole 2004), prendono corpo le testimonianze degli autori/operatori, i quali riferiscono di esperienze, di movimenti, di gesti e di pratiche di resistenza messe in atto dai beneficiari (Guida in questo numero) nel tentativo di scardinare e superare le logiche di imbrigliamento poste in essere dal sistema.

Sull’onda lunga del confronto e dei parallelismi con gli studi sulle organizzazioni avanzati prima (Crozier 1969) si affaccia allora la necessità di rivedere e di ripensare il contributo dell’antropologia alle ricerche sul sistema di accoglienza rivolto ai richiedenti e titolari di protezione, a partire da una messa a fuoco del ruolo della burocrazia e della funzione che rivestono le procedure e i burocrati all’interno di questo specifico settore. Se ci si allontana, per un attimo, dal terreno dell’accoglienza tout court: campi emergenziali e sovrappopolati, strutture fatiscenti, standard e misure di accoglienza inadeguate, operatori/trici non qualificati/e, servizi non erogati; ci si dovrà necessariamente confrontare con l’apparato burocratico e procedurale su cui si regge e intorno a cui si articola il sistema. Certamente, se paragonate alle osservazioni che si possono ricavare dall’analisi etnografica dei processi e dei meccanismi che attraversano i luoghi deputati all’accoglienza, quelle realizzate all’interno dell’indotto burocratico risultano estremamente più insidiose da decifrare e da restituire. A questa difficoltà contribuisce, in primo luogo, il fatto che il lavoro della burocrazia e dei burocrati è nella maggior parte dei casi nascosto alla vista del pubblico e, per questa ragione, anche agli utenti più scrupolosi molto spesso può accadere di lasciarsi sfuggire cosa stia accadendo o cosa, al contrario, dovrebbe accadere (Lipsky 2010). Immaginiamoci, dunque, cosa può significare questa invisibilità all’interno degli spazi di burocrazia deputati all’espletazione di pratiche relative alle istanze prodotte da richiedenti e titolari di protezione. Per riprendere le suggestioni di Lipsky (2010: xiv): «at best, street-level bureaucrats invent modes of mass processing that more or less permit them to deal with the public fairly, appropriately, and thoughtfully. At worst, they give in to favoritism, stereotyping, convenience, and routinizing-all of which serve their own or agency purposes». Procedendo per gradi, dunque, ci si accorge che i processi degenerativi e le anomalie disfunzionali che dall’esterno — più esattamente da quel perimetro istituzionale rappresentato dall’indotto burocratico — si agganciano al sistema di accoglienza, si riflettono anche al suo interno, agendo nelle pieghe degli aspetti operativi di una équipe multidisciplinare incaricata di fornire supporto e assistenza ai beneficiari.

Sulla scorta, dunque, delle riflessioni estrapolate dal terreno delle analisi sul funzionamento delle organizzazioni e della burocrazia, l’antropologia e gli “operatori/trici antropologi/e” possono allora far fruttare il loro coinvolgimento nel sistema, non solamente nei riguardi della vita quotidiana dei/delle beneficiari/e, ma soprattutto nel segnalare come questi fattori di discrezionalità agiscano nel determinare il ruolo attivo degli attori dell’accoglienza: tanto quello degl ioperatori, quanto quello dei beneficiari. Gli uni nel rappresentare un sistema attraverso la messa in atto di strategie funzionali al suo mantenimento, gli altri nel trovare margini di azione per esercitare tattiche di resistenza nei confronti delle procedure, delle regole e delle etichette burocratiche stabilite affinché la macchina umanitaria non collassi.

A tal fine, proponiamo qui alcuni estratti di conversazioni avvenute tra i partecipanti alla supervisione di un’équipe multidisciplinare, incaricata di fornire assistenza e supporto ai beneficiari di un progetto SPRAR per vulnerabili fisici. Dall’osservazione delle singole esperienze di vita e dei diversi atteggiamenti tenuti degli operatori anche in situazioni di forte stress emotivo e psicologico, è possibile, infatti, approdare al contesto istituzionale in cui tali situazioni si determinano, disegnando un sistema dai margini tutt’altro che inerti (Das, Poole 2004) e dai contorni affatto neutrali.

Note di campo da una supervisione

Una volta al mese, l’équipe di una delle strutture SPRAR presso cui lavoro come operatrice legale si riunisce in supervisione[10]. I progetti SPRAR in cui opero si trovano tutti in una città della Sicilia orientale e sono rivolti a: famiglie, uomini singoli, vulnerabili fisici, donne sole e madri single. L’attività di supervisione per il progetto rivolto ai beneficiari affetti da vulnerabilità fisiche (disabilità e patologie più e meno gravi) viene svolta, più o meno regolarmente, da un’etnopsichiatra del Nord Italia, individuata dalla cooperativa che gestisce il progetto all’interno di uno degli eventi di formazione promossi dal Servizio Centrale e rivolti agli operatori del Mezzogiorno. Nella maggior parte dei casi, queste attività di incontro e formazione si svolgono a Lamezia Terme (Calabria) e concentrano in poche giornate discussioni, riflessioni e confronti sulle problematiche che riguardano l’accoglienza nei diversi contesti locali, spesso anche molto distanti tra loro.

Mensilmente l’équipe del progetto vulnerabili si riunisce in supervisione e lavora ai singoli casi di beneficiari, confrontandosi su episodi accaduti e, nella maggior parte dei casi, sulle difficoltà di rispondere efficacemente ai problemi di salute degli ospiti. Insieme a questi, uno degli aspetti maggiormente problematizzato e discusso dall’équipe, oserei dire quello principale, ha a che fare con alcune criticità strutturali. Il progetto per vulnerabili risente, infatti, di una dislocazione territoriale particolarmente infelice: esso sorge in un’area collinare isolata e poco abitata (a 10 km di distanza dal centro abitato), utilizzata dai suoi abitanti per brevi periodi di villeggiatura. Alcuni dei saggi qui contenuti mettono bene a fuoco le problematicità connaturate alla dislocazione dei centri di accoglienza per richiedenti asilo. In particolare, i contributi di Cammelli e Ferretti, pur analizzando contesti assai diversi tra loro, puntano entrambi l’accento sulle ragioni che determinano la scelta di luogo e non di un altro. Quartieri difficili, marginali e isolati fanno da sfondo alle narrazioni dei due autori che, intelligentemente, restituiscono allo spazio la sua natura e funzione squisitamente politica.

Ad un primo sguardo, il posto — e il panorama che si dispiega tutto intorno alla villetta destinata all’accoglienza di richiedenti e titolari di protezione affetti da disabilità fisiche e patologie — è assai suggestivo e ricorda vagamente il sanatorio del capolavoro di Thomas Mann, in “La montagna incantata”. L’impressione che si avverte giungendo qui per la prima volta è quella di un luogo che dovrà temporaneamente servire ai suoi ospiti per risollevarsi dai malanni della società contemporanea (malattie infettive e sessualmente trasmissibili, dipendenze da alcol e da sostanze stupefacenti, depressione) e per respirare un po’ di aria buona, l’aria di collina. Man mano che si familiarizza con la struttura e con le vite di chi vi risiede, l’immagine del sanatorio lascia il posto però a tutt’altra sensazione, più simile a quella che Biehl (2005; 2007) ha restituito descrivendo “Vita”, la struttura di accoglienza per gli abandonados brasiliani: esempio, tra i più significativi, di come, a dispetto del nome che porta, le istituzioni si adoperino strategicamente a traghettare gli ospiti di questa casa di cura verso un destino di abbandono, di confinamento e di morte. Guardandosi intorno alla struttura che ospita lo SPRAR per vulnerabili, allo stesso modo, ci si domanda che fine abbiano fatto le istituzioni. Probabilmente, nelle aspettative di chi ha progettato e di chi ha autorizzato l’apertura di questo progetto, tanto a livello locale quanto a livello centrale, la sua finalità avrebbe dovuto aderire a quella di una comune casa di cura, temporanea e abbastanza lontana dallo smog e dagli affanni cittadini. Contrariamente, la vera sfida di un progetto come questo – designato dal servizio centrale per rivestire il ruolo e la funzione di progetto pilota – è rimasta, invece, del tutto inosservata e disattesa.

Coordinatrice: Noi non siamo preparati, i nostri operatori non sono preparati. Ho più volte chiesto il supporto e l’aiuto di tutte le istituzioni preposte. Ci hanno abbandonati, ci hanno lasciati soli in questo posto e con questi problemi. Noi abbiamo accettato questo lavoro perché pensavamo si trattasse di un progetto per vulnerabili fisici, e invece il servizio centrale continua a mandarci persone affette da gravi scompensi psicologi che necessitano di cure e terapie psichiatriche. Noi, da soli, non possiamo farcela, non siamo attrezzati.

Etnopsichiatra: Come sai bene, spesso non è possibile scindere le due cose» (riferendosi ai due tipi di vulnerabilità).

Coordinatrice: Sì, lo so, ma allora devono dotarci di una struttura più adeguata e non così isolata, e soprattutto di un supporto più concreto. I miei operatori rischiano, e io non posso permetterlo.

Operatore: La sera qui intorno non c’è nessuno. Alle sette della sera i vicini si chiudono dentro e se succede qualcosa non ti sente nessuno.[11]

La supervisione era stata richiesta e programmata con una certa urgenza. Fino a quel momento, per la verità, nessuno ne aveva mai avvertito l’esigenza né l’opportunità era mai stata esplicitamente presentata, sebbene essa sia prevista da regolamento nei progetti SPRAR. Nei giorni precedenti, infatti, due ospiti avevano litigato ferocemente. Le notizie che arrivavano sulla chat whatsapp di gruppo — ogni équipe che si rispetti ne ha una per comunicare in tempo reale — avevano tutta l’aria di un bollettino di guerra: due feriti gravi, una vetrata distrutta, sangue ovunque, operatori e beneficiari terrorizzati. È così che la necessità della supervisione si era fatta sentire, in quell’angolo di quiete del sanatorio per vulnerabili. L’utilizzo della violenza, così come l’uso di alcol e di sostanze stupefacenti tra i beneficiari, sono tra i fattori che penalizzano la permanenza nel progetto, autorizzandone l’esclusione e l’allontanamento di questi. In effetti, al termine di quella vicenda era andata proprio così, secondo i piani e le clausole previste dal cosiddetto “patto di accoglienza”. Un accordo tra le parti, normalmente formalizzato al momento dell’ingresso dei beneficiari, propedeutico all’erogazione dei servizi e al buon andamento della convivenza[12]. Su questa forma giuridica di patto varrebbe la pena soffermarsi, se non altro per riconoscere l’istanza di un atto di fede che si fa strada in questa relazione; laddove per fede si intende «un fenomeno complesso, insieme giuridico-politico e religioso, che ha la sua origine, come il giuramento, nella sfera più arcaica del prediritto» e che presuppone «un incondizionato abbandonarsi a un potere altrui, che obbliga, però, anche il ricevente» (Agamben 2000: 109). Un atto di fede, allora, è quanto viene richiesto ai beneficiari, i quali devono assumere l’obbligo di abbandonarsi agli altrui poteri, anche quando essi si manifestano come discrezionali e disfunzionali. L’asimmetria che si gioca nel rapporto beneficiari/operatori, a cui questo patto sembra di fatto apporre un sigillo, risulta essere una delle problematiche maggiormente enfatizzate dagli autori di questo numero. Cammelli e Castellano su questo aspetto sottolineano, ad esempio, quanto sia decisiva nel percorso dei beneficiari la mancanza di una reale chiarezza e trasparenza da parte degli operatori nei colloqui con i beneficiari, a riprova della natura “fideistica”, e quasi mai veramente corrisposta, di queste relazioni. Avendo, dunque, violato le regole del “giuramento”, uno dei protagonisti del corpo a corpo, dopo essere fuggito dal reparto di psichiatria in cui era stato ricoverato in regime di TSO (trattamento sanitario obbligatorio), era stato dunque ufficialmente allontanato dal progetto. A questo punto, è necessario però fare un passo indietro, per risalire alle ragioni per cui l’escluso era stato assegnato al progetto vulnerabili. Giunto nel 2014 in Sicilia, attraverso la rotta del Mediterraneo Centrale, il ragazzo – al momento dell’arrivo era infatti ancora minorenne – era stato accolto prima in un CAS e, dopo un mese, all’interno di uno SPRAR per minori. Al momento del raggiungimento della maggiore età, presentando egli una grave lesione alla gamba, procuratasi in Libia durante un conflitto a fuoco, era stato assegnato dal Servizio centrale al progetto per vulnerabili. Nei primi mesi di accoglienza, l’operatrice sanitaria aveva messo a punto il percorso terapeutico del ragazzo e, dopo essersi recata in un centro specializzato, aveva programmato l’intervento alla gamba. C’è da dire che l’intervento era particolarmente delicato: il beneficiario infatti presentava una situazione clinica molto complicata e prossima all’amputazione, e i dolori che questo accusava erano il più delle volte insostenibili. All’interno di un quadro clinico così drammatico si inscriveva una personalità dai tratti molto complessi, dedita all’uso di sostanze stupefacenti e all’abuso di medicinali. Una personalità dipendente in un contesto che, al contrario, fa del raggiungimento di una piena autonomia il proprio obiettivo principale. Sulla base di questa pretesa, il contorno di operatori/trici del progetto aveva così immaginato di poter lasciare nelle mani del ragazzo la responsabilità della prescrizione e dell’assunzione della terapia, facendo leva sulle doti di intraprendenza e di adattamento di questo. Da qui, i passi successivi sono stati prima il contenimento e, poi, l’esclusione. Qualcosa in quella pretesa di autonomia e di responsabilizzazione non aveva funzionato.

Operatrice sanitaria: Noi abbiamo dato il sangue per lui. Abbiamo fatto il possibile, e lui, ci ha ringraziato così. Abbiamo dato il sangue. Io personalmente ho messo da parte la mia famiglia, le mie figlie. Non è giusto essere ripagati così. Non ha mostrato nessuna riconoscenza.

Coordinatrice: Noi abbiamo fatto tutto quello che potevamo fare per lui. Ma io devo pensare ai miei operatori, alla loro sicurezza. Avevo chiesto aiuto, avevo chiesto l’aiuto di tutti, e invece ci hanno lasciato da soli. Ci hanno abbandonati[13].

A me, che ero presente alla scena in qualità di operatrice legale, quelle affermazioni: «abbiamo dato il sangue» e, ancora, «ci hanno abbandonati» mi rimbombavano nella testa e, credo, di non essere riuscita a trattenere più di un sussulto di irritazione. L’idea che mi ero fatta, seguendo il giro di testimonianze degli/delle operatori/trici, era quella che questi ultimi avessero d’un tratto assunto la posizione dei beneficiari: abbandonati e vulnerabili. Era così forte, così avvincente, quella sensazione di vulnerabilità che aveva finito per risucchiare tutti: operatori, operatrici, beneficiari e chi, come me, si trovava ad assistere a quella scena. Anche quel sangue, versato dai beneficiari durante il corpo a corpo, era d’improvviso diventato il sangue degli operatori/trici, speso fino all’ultima goccia per uno che, in fondo, non se lo era meritato e che non era stato riconoscente. L’etnopsichiatra, dal canto suo, lavorava con l’équipe spaziando: dai significati simbolici del sangue e degli antenati protettori; passando poi per le motivazioni che avevano spinto il ragazzo a rinunciare al suo vero nome, che nella sua lingua madre significava onorato, qualcosa quindi che da tempo aveva smesso di addirsi a lui; per finire con delle valide considerazioni sulle implicazioni che il tratto manipolativo della personalità del ragazzo imprimeva sull’atteggiamento dell’équipe: «è come un gas, si espande dappertutto, come peraltro è tipico dei soggetti manipolatori. Si parla di loro anche quando non ci sono. E voi fino a questo momento avete parlato solo di lui, nessuno di voi ha detto niente sull’altro ragazzo, quello rimasto ferito durante la colluttazione» e, infine, sulle ottime capacità di tenuta e di reazione degli operatori/trici che, malgrado tutto, erano riusciti a superare l’accaduto indenni e a contenere la paura, senz’altro enorme in quei momenti.

Il team legale, composto da me e dall’avvocata[14] dell’ente di tutela, partner del progetto SPRAR nell’ambito delle attività di tutela legale e della mediazione linguistica e culturale, partecipava alla supervisione cercando di dirigere l’attenzione degli operatori e della coordinatrice sulle implicazioni che un’esclusione così fatta — senz’altro legittimata dalla gravità dei comportamenti messi in atto dal ragazzo — avrebbe determinato per la salute del ragazzo. Come segnalano diversi dei contributi qui contenuti, l’elemento che più di ogni altro sembra pesare sull’organizzazione dei centri di accoglienza è direttamente connesso alle variabili temporali, nella misura in cui il tempo dell’accoglienza — tradotto nei margini di quanto previsto dai decreti legislativi e dai manuali operativi — viene ad allungarsi o a comprimersi non in base alle esigenze o ai diritti dei singoli, ma in nome di una formalità procedurale, invocata però funzionalmente e solo in merito ai tempi di permanenza dei soggetti all’interno delle strutture. Tornando al caso specifico dal punto di vista del team legale si rendeva necessario trovare una forma di accoglienza alternativa per portare avanti le pratiche relative all’intervento chirurgico e, soprattutto, ciò che stava a cuore all’avvocata era assicurarsi che gli operatori e la coordinatrice, ancora sotto shock, non provassero a enfatizzare ancora di più il problema passando alle vie legali, un’ipotesi ventilata da qualcuno ma a cui, fortunatamente, la professionista si era opposta, ponendovi rimedio. Questo passaggio, in particolare, apre la strada a una riflessione sui ruoli che si avvicendano e si riproducono all’interno di un’équipe multidisciplinare, ma ancor di più esso introduce la questione, dirimente nel campo dell’accoglienza, su chi abbia o no il diritto di proferire parola nelle questioni che riguardano questo aspetto. In questa supervisione, così come in tutte quelle che sono avvenute in seguito, l’elemento intorno a cui si manifestavano le più evidenti spaccature tra i diversi attori coinvolti – il team di operatori dell’accoglienza e il team di operatori legali – si inscriveva sul terreno di una distinzione data dal fatto che mentre i primi lavorano e sono quotidianamente a contatto con i beneficiari, i secondi lo sono solo in occasione dell’accompagnamento per l’espletazione delle pratiche che riguardano il titolo di soggiorno, il titolo di viaggio, l’iscrizione anagrafica, il rilascio del codice fiscale e della carta d’identità, e l’ottenimento dei sussidi pubblici previsti dal welfare.

In buona sostanza, il team degli operatori dell’accoglienza rivendicava un maggior coinvolgimento, pratico ed emotivo che, a detta loro, avrebbe dovuto metterli nella condizione di agire liberamente, senza l’ingerenza del team di operatori legali.

Operatrice: Noi stiamo tutti giorni e tutto il giorno con loro, viviamo i loro problemi e cerchiamo come possiamo di risolverli. Noi sappiamo quello che succede qui dentro.

Avvocata: È chiaro che se queste sono le premesse non andiamo da nessuna parte.

Etnopsichiatra: Cerchiamo di abbandonare queste differenze noi/loro, non ci aiutano[15].

Il fatto che, per scelta, il team legale non si occupasse dell’accoglienza quotidiana metteva il team di operatori dell’accoglienza nelle condizioni di rivendicare questa distinzione tra un “noi” e un “loro”, tra chi sta “dentro” e chi sta “fuori”, giungendo alla conclusione che gli operatori legali non avessero il diritto di fornire suggerimenti alla squadra. Ancora una volta, l’atteggiamento mostrato era riconducibile alla convinzione assunta dagli operatori dell’accoglienza di condividere con i beneficiari quel medesimo universo di fragilità, vulnerabilità e di abbandono.

Mediatore: Se avessi voluto avrei potuto colpirlo, ma non l’ho fatto perché so che poi io finisco in galera, mentre loro no.

Operatore: Io le chiedo (rivolgendosi all’etnopsichiatra) come sia possibile che la nostra vita valga meno della loro.

Etnopsichiatra: Come ti ho già detto non so rispondere a queste domande.

Operatrice: Io non capisco, noi facciamo tutto per loro, per me non esistono differenze tra noi e loro (beneficiari), una volta che hanno passato il mare e arrivano qui, per me siamo tutti uguali, sono come noi, italiani[16].

Ecco affacciarsi, in queste battute, il cuore della questione. L’operatrice, mettendo tutti sullo stesso piano — operatori e beneficiari — fa un’operazione controversa: sottacendo le differenze tra chi detiene uno status, quello della cittadinanza, e chi no, essa intende ridimensionare e sminuire le difficoltà che normalmente incontrano i non-cittadini nel vedersi riconosciuti anche i più minimi ed elementari diritti. Ma a questa affermazione fanno da sfondo, e non è un dettaglio da poco, le osservazioni di chi l’ha preceduta. Mettendo a valore la vita e, stabilendo un’asimmetria tra il valore di una vita e un’altra, l’operatore e il mediatore (peraltro anch’egli straniero, ma più avanti dei beneficiari nella scala dei diritti), ribaltano il problema, mostrando di sentirsi addirittura schiacciati dalla tutela e della protezione esercitate nei confronti dei richiedenti e titolari di protezione. Cosa, esattamente, si nasconde dietro questa messa a valore della vita? E perché questa fa scattare, poi, nelle parole dell’operatrice il desiderio di appianare ogni differenza?

Per quanto sembrino discordanti tutte queste affermazioni, esse in realtà partono da un unico presupposto: avvertire e far presente che la tutela e la protezione non sono esclusivo appannaggio dei beneficiari, in quanto migranti, ma di tutti e, nello specifico, di tutti quelli che sono “dentro” la struttura. La necessità di ristabilire quella relazione, ponendo tutti sullo stesso livello, era un modo come un altro per chiedere eguale protezione. A queste condizioni, si comprende perché le differenze tra un “noi” e un “loro” non potevano che ricomprendere i due team e non, come si sarebbe portati a immaginare, operatori e beneficiari. La squadra di operatori dell’accoglienza si compattava, facendosi scudo delle difficoltà che emergevano dal ritrovarsi in un contesto di azione (e di vita) ai margini della città, abbandonati e isolati da tutto e tutti. In questo farsi scudo, tuttavia, essi lasciavano che quelle difficoltà cadessero nel vuoto di un appiattimento che, per chi come me era esterno alla vita del centro, strideva in primo luogo con le vulnerabilità fisiche e materiali di cui, al contrario di quelli, gli operatori non erano affatto portatori. Al di là del volersi a tutti costi sentire uguali, laddove l’uguaglianza si infrangeva ad ogni passo contro i muri delle disabilità e della negazione dei diritti, ciò che si poteva cogliere dai quei discorsi era una richiesta di aiuto, un appello a chi, fino a quel momento, si era mostrato nel suo divenire assenza e, quindi, proprio per questo aveva finito con l’essere ancor più presente.

Su questo adagio di eguaglianza, stonato e mal riprodotto, gravava tutto il peso dell’assenza delle istituzioni. Un peso che, dopotutto, è assai caratteristico di questo sistema. Esso si era manifestato, e continuava a manifestarsi nella scelta di relegare i beneficiari di un progetto per vulnerabili fisici in un contesto isolato e lontano dal centro cittadino; nell’opzione di ricorrere a una villa degli anni Settanta per l’accoglienza dei beneficiari non confacente alle necessità degli ospiti e non attrezzata sotto il profilo delle barriere architettoniche; nell’abbandono delle parti istituzionali locali che, fatto salvo l’impegno di siglare una convenzione, non si sono mai preoccupate delle condizioni materiali del progetto, né si sono mai esposte o proposte nella tutela e nell’accoglimento delle istanze presentate dalla cooperativa e dal suo partner legale; nell’operato strategico delle istituzioni centrali che non hanno mai veramente a fondo indagato i bisogni dei soggetti fisicamente vulnerabili e che, superficialmente, hanno creduto nella possibilità di organizzare l’accoglienza di questi sulla base e sui presupposti di un’accoglienza già sperimentata, quella ordinaria, finendo con il creare un vero e proprio ghetto. All’interno di questo contesto istituzionale, per lo più assente e insoddisfacente, si inscrivono dunque le difficoltà e le problematiche di una équipe multidisciplinare che, avvertendo il carico di questo abbandono, istintivamente può come in questo caso proiettare e trasferire su di sé le caratteristiche di vulnerabilità e le esigenze di tutela che dovrebbero, al contrario, rimanere in tutti i modi una prerogativa dei beneficiari.

La descrizione delle dinamiche, tra le tante possibili, che possono aver luogo all’interno di un’équipe multidisciplinare, aiuta se non altro a comprendere in cosa possa, o debba, distinguersi il lavoro degli antropologi/ghe nel confronto con altri professionisti e alle prese con tematiche che rendono plausibile un diverso coinvolgimento della disciplina e del sapere antropologico, liberato dai condizionamenti e dalle aspettative di chi non è capace di associare, perlomeno nel settore dell’accoglienza, l’antropologia a qualcosa che non sia vagamente o necessariamente “culturalista”. In un sistema strutturalmente iniquo come quello a cui fanno riferimento i contributi di questo numero, in cui nella maggior parte dei casi gli operatori e le operatrici vengono tenuti in ostaggio dalla scarsità di strumenti e di risorse disponibili e sono risucchiati da un’enorme mole di responsabilità e di lavoro, la scrittura e l’analisi etnografica possono allora funzionare da cassa di risonanza delle disfunzioni relazionali e delle asimmetrie di potere che soggiacciono ai rapporti e ai legami che si instaurano in questo sistema, ma ancor più l’etnografia può mettere a valore un dialogo, sempre più serrato e imprescindibile, con le altre discipline.

Ciò che questo breve spaccato sull’accoglienza e tutti quelli che verranno riportati in questo numero, osservano, da diverse angolature e punti di vista, è dunque il farsi strada di un sistema di accoglienza che avvalora la dimensione più burocratica e tecnica dell’accoglienza e che, in nome di ciò, stritola in primis i/le suoi/e beneficiari/e, ma anche tutti quegli/le operatori/trici che riconoscono le difficoltà, le criticità e i dilemmi (Low, Merry 2010) a cui vanno incontro mettendo a disposizione il proprio sapere e le proprie competenze con il rischio, irriducibile, di trovarsi improvvisamente dalla parte opposta, dalla parte dei burocrati e dei tecnici di questo sistema.

L’ambivalente accoglienza verso l’integrazione

L’ultimo rapporto ministeriale sulla situazione del Sistema di accoglienza per richiedenti asilo e rifugiati attesta che il modello di accoglienza diffusa con il coinvolgimento di oltre mille comuni è passato dai 3.000 posti del 2012 agli oltre 26.000 al termine del 2015 (SPRAR 2016: 5)[17]. Questo tipo di management dell’ospitalità per rifugiati si basa sulla stretta collaborazione tra prefetture, enti locali ed associazioni del terzo settore aprendo, di fatto, un fronte in cui le competenze antropologiche sembrano prioritarie soprattutto per organizzare l’ospitalità di persone provenienti da contesti molto distanti, per lo più dall’Africa e Asia, per inserirle nella specificità dei micro-contesti locali (Faist, Fauser, Reisenauer 2013). Oltre all’erogazione di servizi di assistenza socio-sanitaria e legale questa fase più “integrativa” prevede attività di mediazione linguistico-culturale, di orientamento ed inserimento in un percorso scolastico, formativo o professionale. Posto che non sempre la prima e la seconda accoglienza sono così nettamente scorporabili e scindibili, tendenzialmente questa seconda fase dovrebbe venire gestita in strutture più piccole, dopo aver passato la fase liminale del riconoscimento di status di protezione, per agevolare l’inserimento del rifugiato in un percorso re-integrativo nel territorio. Il sapere antropologico non può operare senza tenere conto della specificità dei microcontesti locali: in primis dell’idea di rifugiato presente nelle associazioni e cooperative e dell’impatto che questo produce, attraverso le pratiche quotidiane, sia sull’identità di “nuovo” cittadino italiano del migrante, sia sulle comunità locali (Ong 2005; Altin, Minca 2017: 39-40).

Il primo problema coinvolge tutte le professionalità in campo ed è, forse, il problema più insidioso nella gestione dell’ospitalità, perché si basa sulla totale inconsapevolezza di buona parte dei volontari o degli operatori che lavorano nell’accoglienza della loro capacità di “forgiare” il prototipo di rifugiato (Agier 2010). Come descrive Guida, il mondo del volontariato, soprattutto ma non esclusivamente di matrice cattolica, dietro l’egida del voler operare pro, a favore dei “poveri” profughi, non solo produce un ambiente di ospitalità ristretto ai bisogni funzionali e poco sensibile ad un reale dialogo con le varie alterità presenti, ma proietta l’ideale di comportamento che ci si aspetta da un buon “ospite”, facendoglielo interiorizzare.

Il sapere antropologico in questa fase dell’accoglienza dovrebbe tamponare le criticità evidenti dell’umanitarismo astratto (Harrel-Bond 1986; Barnett 2011; Fassin 2012), collocando i rifugiati nelle specificità dei diversi contesti e delle micro-culture locali, in un gioco di mediazione tra globale e locale (Malkki 2002). Eppure è qui che spesso il gioco diventa ambiguo: se infatti è facilmente identificabile il potere “duro” delle istituzioni, la rigidità e gli spazi di confinamento della prima accoglienza, nella seconda fase la pervasività dell’umanitarismo (Verdirame, Harrel Bond 2005; Barnett 2011) che si espande nelle associazioni e nel mondo del volontariato può essere insidiosa per antropologhe/i cresciuti con la missione di schierarsi dalla parte della subalternità e delle minoranze, soprattutto in termini di rappresentanza e di potere. La fase di accoglienza “integrativa” dovrebbe espletarsi con interventi di progettazione sociale per sbloccare l’impasse di assistenzialismo passivo, e investire verso un futuro sostenibile per i rifugiati e per i cittadini locali (Appadurai 2014) ma, quando si parte da contesti già fortemente critici, l’opera di mediazione antropologica può diventare simile al ruolo di un’assistente sociale. Si finisce per svolgere una funzione psicologica rassicurativa che stempera conflitti fra le fasce sociali deboli in potenziale concorrenza con i rifugiati: dietro l’endemica protesta «lo straniero è assistito mentre gli italiani non arrivano a fine mese», si cela l’ammissione che «esorcizziamo chi rovista nel cassonetto, solo perché sai che quello è il tuo futuro prossimo», per citare un’intervista di Ferretti in questo stesso numero.

Nei vari rapporti di ricerca le pratiche e le politiche differiscono in base ai diversi significati dati all’accoglienza, e, di conseguenza, alle funzioni e obiettivi che essa include. Si assiste ancora al perdurare del modello assistenzialista con visione paternalistico-educativa che vede nel rifugiato una vittima da curare in parte per il suo vissuto traumatico che l’ha condotto in Italia, in parte come “buon selvaggio” da rieducare al contesto civilizzato. Va considerato che le gare d’appalto sempre più a ribasso bandite dalle Prefetture per la gestione dei Centri di accoglienza straordinaria hanno messo in moto vari meccanismi non trasparenti, come ad esempio lo sfruttamento sistematico di “volontari” che non rispondono a determinati requisiti professionali, ma ad un’adesione ideologica, religiosa o politica, all’associazione. Ecco allora che se capita nell’organizzazione di stampo cattolico il rifugiato dovrà plasmarsi e adattarsi all’idea di diventare un prototipo di buon cittadino/a sviluppando spirito di accettazione e gratitudine di matrice religiosa. Se cade invece nel clima associativo di sinistra, tendenzialmente più contestatario nei confronti delle istituzioni e del “sistema”, lo spirito di gestione sarà collettivo, tanto da rendere spesso difficile il riconoscimento dei confini tra la componente dei volontari/operatori e gli ospiti. Per il rifugiato questi ambienti rappresentano lo spaccato del nuovo mondo in cui immergersi e in cui viene maggiormente riplasmata l’identità, attraverso le pratiche quotidiane e le rappresentazioni proiettate su di loro, che solo in minima parte possono negoziare o contrastare.

In questi diversi contesti basati su politiche di accoglienza che riportano visioni ideologiche e dicotomiche noi/loro (dove il loro talvolta è rappresentato talvolta dal “sistema”, talvolta dai “poveri” rifugiati) l’azione di integrazione che sembra paradossalmente più efficace è quella messa in atto dall’economia informale, nei contesti con minore controllo ai bordi della legge aumenta la possibilità di movimento e il livello di invisibilità, due fattori prioritari per l’integrazione (Gill 2009; Rhys Daffydd et al. 2012; Moran et al. 2013). All’estremo opposto troviamo l’efficienza del modello Trentino descritto da Membretti e Galera che mescola l’accoglienza alle funzioni economico-turistiche, impiegando i rifugiati in mestieri e saperi tradizionali che si stavano perdendo. In questo caso aumenta l’autonomia a livello locale e i migranti fungono da presidio territoriale per zone dove la vulnerabilità sta nello spopolamento e nel vuoto da riempire (Bigo 2007); presenza e assenza in termini di status non giuridico si plasmano nelle diversità dei contesti e delle richieste occupazionali per la sopravvivenza dei rifugiati (Rhys Daffydd et al. 2012).

L’ambivalenza del sistema umanitario di accoglienza può facilmente scivolare verso i lavori “forzati” che richiamano alla memoria vecchi repertori coloniali oppure verso aree grigie di attività lavorative non sempre regolamentate. Resta difficile progettare nei tempi stretti percorsi realistici di formazione linguistica e professionale. Se nella prima fase di accoglienza il tempo è “congelato” nel periodo di attesa passiva, nella seconda fase il tempo per diventare autonomi diventa improvvisamente compresso, insufficiente per apprendere come e dove cercare un’occupazione, conoscere la lingua e lo stile di vita locale. Spesso la difficoltà è aumentata dalla scarsa alfabetizzazione di base poiché molti rifugiati provengono da contesti prevalentemente orali; tale differenza si presta a farli intrappolare in meccanismi di infantilizzazione, che li rendono ancora più passivi e confusi; il termine maggiormente usato dagli operatori per definirli — “ragazzi” — segnala già un posizionamento non alla pari in un rapporto tra persone adulte.

In tutte queste iniziative, talvolta strumentalizzate, talvolta ingenue, c’è una componente nuova, ulteriormente ambigua che complica la gestione e le interpretazioni di questi flussi di asilanti e profughi: l’aleatorietà dell’orizzonte futuro; rispetto alle migrazioni precedenti non sappiamo se effettivamente ci troviamo in una fase di transito, di tappa intermedia in vista di un’altra meta o di un ritorno a casa. In questo senso sono le prime migrazioni in massa connesse alla fuga, caotica, disperata che è l’esperienza che li accomuna. L’eccedenza del migrante è costitutiva (ex-capere, preso fuori), perché originata dalla sua mobilità e dalla non appartenenza all’ordine pubblico del territorio che lo ospita temporaneamente (Agamben 2006). Quando sbarcano e soggiornano vengono inseriti in una qualche categoria interpretativa a seconda delle professionalità incontrate: etnico-nazionale, di profugo (dublinante, sotto protezione, ecc.), di ipotetico lavoratore, senza tenere conto che sono flussi in fuga che giungono in un continente europeo in crisi economica, dove l’immigrazione sta giocando un peso sempre più rilevante nella politica interna degli stati (Esposito 2016). Serve maggiore intersezionalità[18] per la produzione di «nuove soggettività complesse che impattano anche sulle reti globali dei richiedenti asilo e dei loro transiti» come afferma Sbriccoli in questo numero. Serve dare più spazio ai migranti, che sono ancora senza voce e tradotti nella scrittura dell’altro (de Certeau 2005).

In molti interventi la responsabilità etica è stata esplicitata in maniera sofferta. Il pressing di orari, la tensione verso problemi che per i richiedenti asilo hanno un “peso” esistenziale enorme, riportando la necessità di compiere un processo di auto-analisi prima di affrontare la ricerca sul campo. La logica emergenziale si gioca proprio nella concitazione che emerge dalle ricostruzioni etnografiche, nella rincorsa a risolvere emergenze più o meno costanti sul campo, dove l’operatore/antropologo diventa una sorta di infermiere di primo soccorso, con una costante concentrazione sul qui/ora che stride con la sospensione spazio temporale del migrante che vive in attesa, nel limbo privo di riferimenti e significati (Agamben 1995; Goffman 2003, Gill 2009; Fassin 2014). È questo in effetti un dispositivo di procedure quasi protocollato nella logica del care, cure, control (Agier 2005; 2008), ma qui, come abbiamo visto, è la burocrazia seriale che ottunde il sapere critico (Arendt 2004).

La consapevolezza antropologica richiesta oggi dovrebbe superare le rigide contrapposizioni ideologiche per recuperare l’approccio più spiccatamente etnografico, che analizza e critica le politiche calate nella specificità dei contesti e delle organizzazioni locali (Scheper-Hughes 1995). Rompere l’assoggettamento significa recuperare il processo ermeneutico dal basso, con competenze che tengano conto del delicato equilibrio che interconnette il rifugiato alla “sua” diaspora, al luogo di origine ma anche a quello, spesso ipotetico, del futuro (Appadurai 2014). Per far ciò vanno integrate le conoscenze già acquisite nell’ambito medico (Taliani, Vacchiano 2006; Beneduce 2010; Ravenda 2011) con la letteratura sulla diaspora, sul transnazionalismo (Gupta, Ferguson 1997; Faist et al. 2013; Riccio 2014) e sulla cooperazione (Olivier de Sardan 2008; Declich 2012). Solo recuperando l’approccio etnografico si può dare più spazio ai migranti e alla specificità dei contesti, calando soggetti e azioni nella storia, senza cadere nella trappola dell’emergenzialità perenne che vuole omologare tutti i processi. Il primo passo che l’antropologia può iniziare a compiere è adottare una lente bifocale, storica e processuale, per visualizzare i recenti flussi migratori oltre la fase liminale dell’accoglienza straordinaria. Serve un maggiore distanziamento critico che oltrepassi lo scenario contingente del presente, formulando ipotesi di futuri sostenibili.

Il secondo, ma non per ordine di priorità, è quello di ridare voce ai rifugiati, a partire dai contesti reali dove l’antropologia si trova coinvolta a vario titolo. Se il contributo del sapere antropologico sta nella sua natura esperienziale (Riccio 2016: 204), allora va rilanciato un modello dove pratica e teoria devono crescere in sinergia (Baba 1994), alimentandosi reciprocamente (Harrel-Bond 1986; Jacobsen, Landau 2003; Fiddian-Qasmiyeh et al. 2014: 2-3). La ricerca sui rifugiati deve essere usata per i rifugiati, coniugando ricerca e azione sul campo, ponendo agli antropologi il duplice imperativo di promuovere in maniera sinergica e non disgiuntiva conoscenza accademica e azione etica.

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[1] L’articolo introduttivo è frutto del lavoro comune di Altin e Sanò; la scelta di non suddividere l’autorialità in parti segmentate è stata presa nella consapevolezza che si tratta di un lavoro collaborativo costruito con costante dialogo, confronto e scambio reciproco. Questo numero della rivista costruito assieme da Altin, Mencacci, Sanò e Spada, intende rivendicare e sostenere un’autorialità basata sul lavoro collaborativo e in qualche modo ‘olistico’, per usare un termine antropologico ad indicare che l’esito totale è molto più della somma delle singole parti.

[2] Il contributo di Elisa Mencacci e Stefania Spada, in questo numero, è particolarmente attento alle implicazioni generate dal difficile rapporto tra la ricerca e il lavoro di antropologo/a, segnalando a più riprese la necessità di trasformare l’incompatibilità che può determinarsi in un tale rapporto in ciò che definiscono complementarietà.

[3] Sull’argomento si veda il primo numero di «Antropologia Pubblica» dedicato all’Antropologia nei disastri, curato da Mara Benadusi (2015).

[4] www.fmreview.org

[5] www.rsc.ox.ac.uk/publications

[6] Per l’analisi dettagliata si rimanda all’articolo di Daniele Ferretti in questo stesso numero.

[7] Per la descrizione dettagliata e la genealogia dei Centri di prima e seconda accoglienza si rimanda all’articolo di Daniele Ferretti in questo stesso numero di Antropologia Pubblica.

[8] Nello specifico, il riferimento è al “foglio notizie” somministrato dall’agenzia Frontex, all’interno del quale, oltre alle generalità dell’interessato/a, vengono specificate anche le motivazioni per cui egli/ella ha lasciato il proprio paese. Un elenco di ragioni piuttosto generiche e che facilmente possono trarre in inganno chi è appena arrivato dopo un lungo e difficile viaggio e non è ancora stato edotto sui regolamenti e sulle normative in materia di asilo. Che cosa significa esattamente la definizione di asilo? (Nel foglio notizie è questa la dicitura che viene utilizzata). Chi può chiedere asilo e accedere alla procedura? Quali sono i requisiti? In che senso accedere alla procedura esclude il fatto che io possa essere qui anche per cercare lavoro? La confusione generata da questo sistema di raccolta dei dati verte, infatti, sul presupposto che se il/la migrante ha risposto di essere qui per lavoro, automaticamente questa risposta esclude che egli/ella possa aver abbandonato il proprio paese perché in serio pericolo di vita e, quindi, in cerca di una protezione. Esso non tiene conto, dunque, della possibilità che il/la migrante in sede di interrogatorio, il primo di una lunga serie, intende rassicurare le autorità preposte del fatto che in futuro vorrà lavorare e diventare autosufficiente.

[9] Con la recente approvazione del decreto legislativo DL 13/17 l’acronimo CIE (Centri di Identificazione ed Espulsione) è stato sostituito con CPR (Centri Per il Rimpatrio).

[10] I dati e il materiale etnografici riportati sono il risultato di una ricerca condotta da Giuliana Sanò, tra settembre 2015 e dicembre 2016, all’interno del sistema di accoglienza di una città della Sicilia Orientale. La ricerca è stata portata avanti nell’ambito di un progetto europeo: Transitory Lives. Migration Crisis, finanziato da ESRC e coordinato dal dipartimento di Antropologia di Durham (UK). Nella fase di campo, l’attività di ricerca è stata supportata dalle informazioni e dalle conversazioni informali raccolte nel duplice ruolo, ricoperto dall’autrice, di operatrice legale di progetti SPRAR e di attivista all’interno di un’associazione ed ente di tutela locale.

[11] Note di campo da una supervisione dell’équipe, 27 Ottobre 2016.

[12] Trattandosi di un centro collettivo, la convivenza a cui si fa principalmente riferimento è quella tra beneficiari e operatori/trici.

[13] Note di campo, supervisione 27 Ottobre 2016.

[14] L’associazione con cui collaboro da diversi anni è iscritta al registro nazionale degli enti di tutela e, dal 2001, fornisce assistenza e tutela legale a migranti, richiedenti e titolari di protezione, MSNA e minoranze Rom.

[15] Estratto di una conversazione durante una supervisione, 10 Gennaio 2017.

[16] Ibidem

[17] Al 12 aprile 2017 risultano attivi 23.867 posti SPRAR, 137.957 persone nei CAS e 13.248 in strutture di prima accoglienza. Dati aggiornati giornalmente sono reperibili al sito del Ministero dell’Interno: http://www.libertaciviliimmigrazione.dlci.interno.gov.it/it/documentazione/statistica/cruscotto-statistico-giornaliero.

[18] Termine utilizzato negli studi di genere per affrontare la complessità delle diverse identità sociali (genere, etnia, classe sociale, orientamento sessuale, età ecc.) e le categorie di disuguaglianze sociali discriminanti (Crenshaw 1989).