“We only have rights over operators”

La riappropriazione del “regime di sospetto” da parte dei richiedenti asilo in un centro di prima accoglienza

Viola Castellano

Dipartimento di Scienze dell’Educazione “Giovanni Maria Bertin”, Università di Bologna

Indice

Introduzione
Osservazioni Metodologiche
Paradossi ed aporie di un sistema apparentemente illogico
La coerenza logica delle interpretazioni emiche dell'accoglienza e del sistema di asilo
Conclusioni: cortocircuiti etici ed epistemologici
Bibliografia

Abstract. The presence and the perception of case workers is a fundamental element in crafting the attitudes and expectations of asylum seekers. Indeed, reception and welcoming centers are the main channels through which asylum seekers come to know the cultural context and the general perception of their presence in the hosting society. Social workers are often the lens asylum seekers use in order to read and orient themselves within the host system. They are also professional figures producing the bureaucratic identity of asylum seekers as subjects of human and civil rights. At the same time, social workers are the “eye” of the state in surveilling the conduct of asylum seekers and are expected to denounce nonconformity. As a consequence of such multiple roles, in a bureaucratic immigration system characterized by opacity and a high degree of conflict, the encounter between asylum seekers and social workers becomes a crucial site heavily invested with disparate meanings and desires. In particular I would like to stress the point on how regimes of suspects and the uncertainty paradigm become fundamental element in crafting asylum seekers subjectivities. On the other hand, I highlight how they are not passive, grateful and unaware suffering subjects, but they re-appropriate the double register of being seen as cheaters or victim and react to it. Their target, for lack of a wider spectrum of action and the weak links with hosting communities, are therefore their immediate and ordinary others: social workers and operators, which translate the bureaucratic machine to them, not always successfully and completely.

Keywords: asylum seekers; suspect; welcoming centers; social workers; state.

Introduzione

Questo contributo nasce con l’obbiettivo di rielaborare alcuni spunti di riflessione che la mia recente esperienza da operatrice legale in un CAS (Centro di Accoglienza Straordinario)[1] del Centro Italia mi ha fornito[2]. Questa è durata all'incirca un anno, e si è conclusa nel marzo 2016.

Il caso etnografico che presento è estrapolato dal contesto professionale in cui ho operato e dal rapporto con alcuni “informatori privilegiati” fra gli utenti, con cui ho instaurato relazioni di fiducia sufficienti ad iniziare una discussione sul funzionamento e sulla percezione del sistema di accoglienza che questi avevano. Il mio obbiettivo è di illustrare come il regime di sospetto (Vacchiano 2011) a cui i richiedenti asilo sono soggetti, sia stato in una certa misura riappropriato dagli stessi e rivolto verso gli operatori dell'accoglienza, ovvero coloro che più di ogni altro incarnano i margini dello Stato (Das, Poole 2004; Sorgoni 2011).

Il mandato ambiguo dell'accoglienza/controllo (Kobelinsky 2011) e le contraddizioni intrinseche alla macchina giuridico-amministrativa del sistema di protezione internazionale, generarono infatti una ricerca di senso e di leggibilità da parte dei migranti ospitati, che li spinse ad utilizzare le risorse a loro disposizione per rispondervi, ovvero ripensare ed agire criticamente il loro rapporto con gli operatori e problematizzare il ruolo di tramite/filtro fra loro e il resto della società ospitante che questi ultimi rivestivano.

In questo articolo uso la lente della riflessività per interrogarmi sull'apporto che una formazione antropologica e una lettura critica dei meccanismi istituzionali generano in un simile contesto lavorativo. Grazie alle mie precedenti esperienze di ricerca etnografica, che si sono focalizzate sulle interazioni fra utenti e operatori sociali in altri contesti assistenziali, ho avuto modo di notare come specifiche dinamiche, in mondi burocratici caratterizzati da opacità e conflitto, si ripropongano, seppur nelle loro differenze. Nell'articolo utilizzerò in particolare il mio campo sui servizi sociali per minori e famiglie a New York come un contesto di comparazione nell'analisi di alcune modalità di lettura del sistema dell'accoglienza messo in atto dai richiedenti asilo del CAS in cui ho lavorato.

Tale approccio etico-conoscitivo si è ripercosso nella mia pratica lavorativa e nelle decisioni che giornalmente prendevo rispetto soprattutto alla questione della trasparenza e della leggibilità, tentando senza sosta di descrivere agli utenti la complessità del mondo istituzionale che operatori e richiedenti protezione internazionale si trovavano ad abitare, anche nelle sue parti più problematiche, prevedibilmente o imprevedibilmente ingiuste.

Questo mi ha permesso di avere un rapporto di maggior fiducia e cooperazione con gli utenti dandomi la possibilità di accedere alle loro interpretazioni, di discuterle e negoziarle con loro, tentando di diminuire una conflittualità che giudicavo controproducente per tutti. Nello stesso tempo ho avvertito quanto tale postura volta al dialogo e alla trasparenza fosse poco auspicata dalle figure istituzionali di riferimento, per le quali rompere il legame fra potere e incertezza (Whyte 2011) poteva tradursi in una serie di difficoltà gestionali e amministrative.

L'articolo si struttura in una prima discussione sulla metodologia, dove metto in evidenza sia i limiti etnografici posti dal mio setting lavorativo che la decisione di utilizzare l'esperienza professionale come spunto per elaborare un contributo nella direzione di un'antropologia engaged e riflessiva.

Nel secondo paragrafo descrivo quelli che sono stati i fenomeni più contraddittori a cui ho assistito e con cui mi sono dovuta confrontare, argomentando quanto l'irrazionalità del sistema lasci gli utenti senza risorse di senso in un momento di fragilità esistenziale e identitaria molto forte.

Nel terzo paragrafo, sviluppo la riflessione del secondo mettendo in relazione le rappresentazioni situate che gli utenti hanno dato al sistema di asilo, e al ruolo degli operatori al suo interno, con il contesto istituzionale più amplio. In questo paragrafo inoltre affianco alcuni aspetti della mia ricerca di campo sui servizi sociali per minori a New York e il mondo dell'accoglienza per i richiedenti asilo in Italia, in cui, per quanto lontanissimi, ho ritrovato delle somiglianze. Queste si sono evidenziate nella modalità in cui gli utenti di ambedue i servizi costruiscono delle rappresentazioni dell'istituzione come antitetiche a quelle formalmente presentate dalle stesse, quindi lontane dalla ragione sociale che le determina nel discorso ufficiale. Nelle conclusioni mi domando se sia possibile lavorare all'interno del sistema di accoglienza a partire da tale posizionamento senza tradire il mandato istituzionale e la relazione profondamente asimmetrica che questo implica.

Osservazioni Metodologiche

Il CAS in cui ho lavorato non si componeva di un solo centro, ma di diversi stabili (tre alberghi e una dozzina di appartamenti), distribuiti in un'area provinciale di 1200 km² nel Centro Italia, in cui in media vivevano dalle 250 alle 150 persone, uomini, provenienti quasi esclusivamente da Nigeria, Gambia, Mali, Guinea, Benin, Bangladesh e Pakistan. Inizialmente ho svolto l'operatrice generica per un gruppo di 50 richiedenti asilo affiancata da due colleghi e, dopo i primi sei mesi, mi è stata affidato l'incarico di operatrice legale (referente unica del CAS per formalizzazioni delle richieste di asilo, compilazioni di moduli C3, rinnovo dei permessi di soggiorno, preparazioni per la commissioni e collaborazione con gli avvocati dell'associazione che si prendeva carico dei ricorsi per la raccolta della documentazione e le comunicazioni con gli utenti interessati). Svolgevo inoltre mansioni da mediatrice linguistico-culturale con i richiedenti anglofoni durante i colloqui con gli avvocati e con la psicologa in alcuni casi. Venivo affiancata da alcuni operatori che si recavano in questura ad accompagnare gli utenti e da altri che svolgevano come me la preparazione in Commissione.

Gli utenti totali del CAS all'epoca delle mie dimissioni erano 155, di cui 72 ricorrenti, 22 che aspettavano ancora la chiamata in Commissione, la restante cinquantina abbondante in attesa dell'esito, e solo una dozzina con protezioni internazionali e umanitarie riconosciute in via di trasferimento SPRAR. Un bilancio a poco dire desolante, ma non differente da quello di qualunque altro progetto che facesse capo alla Commissione di Ancona, che aveva una percentuale di rigetti che si aggirava intorno al 90%, a quanto riportatoci dall'organizzazione di avvocati legata all'ASGI (Associazione per gli Studi Giuridici sull'Immigrazione) con cui collaboravamo[3].

Anche dopo aver deciso di lasciare l'organizzazione e il mio ruolo nel CAS, ho mantenuto la mia relazione con diversi utenti, che nel tempo si sono ridotti ad una dozzina di persone, con cui continuo a comunicare mensilmente tramite telefonate o messaggi. Da quando mi sono trasferita in Germania sono andata a trovare le stesse persone un paio di volte.

Questo articolo non può essere considerato il frutto di una ricerca sul campo condotta con un metodo etnografico rigoroso, ma piuttosto una riflessione sulla mia esperienza professionale, sia come operatrice generica che legale, che si avvale di alcuni strumenti metodologici e teorici dell'antropologia in vista di una rilettura critica del mio vissuto e delle dinamiche osservate e messe in atto a partire dalla mia posizione privilegiata di osservatrice e attrice nel campo dell'asilo.

Ho deciso di lavorare nel mondo dell'accoglienza perché da tempo sentivo il bisogno di calarmi nella questione relativa alla migrazione e alla cosiddetta emergenza sbarchi, avendone un'esperienza diretta: volevo toccare con mano l'entità del fenomeno e conoscere le persone che lo popolavano. Nella mia ricerca di dottorato avevo preso in esame il ruolo di operatori e assistenti sociali in un contesto molto diverso. Si trattava infatti di un'etnografia del sistema istituzionale dei servizi sociali per minori e famiglie a New York: avevo usato il child welfare system come unità di analisi per identificare sia la morfologia delle disuguaglianze di classe, etnico-nazionali e di genere, sia il modo in cui queste vengono dette e rappresentate dentro e fuori le istituzioni.

Nonostante la radicale differenza fra i due apparati, quello dell'asilo in Europa e del welfare negli USA, questi hanno molteplici aspetti in comune: entrambi sono incaricati del «care, cure and control» (Agier 2005: 50) dei suoi soggetti ed esercitano un certo grado di coercizione; entrambi riproducono processi di razzializzazione, così come forme di disuguaglianza e violenza strutturale (Roberts 2008); tutti e due gestiscono le conseguenze di un ritiro (nel caso dei genitori che perdono la custodia dei loro figli) o di una negazione (nel caso dei richiedenti asilo diniegati) dei diritti umani e civili; entrambi praticano una politica di cittadinanza morale in cui i diritti possono essere (ri)guadagnati attraverso una riabilitazione forzata dei genitori o attraverso una narrativa credibile di sofferenza e vittimizzazione per i richiedenti asilo (Cabot 2011; 2013; Fassin 2011). Infine, entrambi i sistemi istituzionali ignorano la prospettiva dei loro stessi utenti, un disconoscimento che ha comunque delle conseguenze pesanti nella realizzazione dei loro obbiettivi (Castellano 2014).

Più volte, nel corso della mia ricerca, mi sono interrogata sugli enigmi etici a cui assistenti e operatori sociali devono giornalmente rispondere, sottolineando la loro compartecipazione volontaria o involontaria alle dinamiche sopraelencate. Lavorare nell'accoglienza, con tutta la sua irriducibile complessità, mi ha dato l'opportunità di vivere e comprendere tali enigmi in prima persona.

Nel corso della mia esperienza lavorativa ho tentato di costruire un discorso sull'accoglienza e sull'incontro (Faier, Rofel 2014) insieme a degli interlocutori (altri operatori, richiedenti asilo) per ripensare l'attualità della nostra reciproca presenza, per trovare una meta-narrazione ed una via di fuga epistemologica che ci permettesse di oltrepassare lo schema relazionale e narrativo imposto dalla cornice istituzionale. I dati etnografici che presento in questo articolo sono stati estrapolati dalla mia quotidianità professionale e dalle moltissime e preziose occasioni di scambio con migranti e operatori che ho conosciuto tramite il lavoro nel CAS[4].

Nell'analizzare i fenomeni osservati non in veste di ricercatori sul campo, ma di attori professionali, è a mio parere particolarmente necessario assumere criticamente il proprio posizionamento nei confronti delle limitazioni e opportunità legate al proprio ruolo professionale e delle modalità con cui lo si è interpretato e praticato: come ci ricorda Bourdieu (Bourdieu et al. 1993) i modi del conoscere sono infatti anche quelli dello spiegare. Piuttosto che un'auto-etnografia questo contributo si rifà alle opportunità analitiche fornite dalla svolta riflessiva dell'antropologia nel senso indicato da Fabian: «a dialectical position in which analytical procedures and descriptive devices are chosen and determined by reflection on the nature of the encountered phenomena and on the nature of that encounter» (Fabian 1971: 25). La mia discussione muove proprio dai limiti della natura dell'incontro che si dà fra operatori e richiedenti asilo, i cui ruoli reciproci vengono costruiti, oltre che dalla cornice istituzionale, dall'incontro stesso. Nel corso della discussione descrivo come in questo incontro si manifestino le rigidità, incoerenze e forzature delle categorie, ma allo stesso tempo anche le loro porosità, svelando la molteplicità dei processi di significazione a cui ogni relazione, per quanto formalizzata e imbricata in un ordine politico più amplio, dà vita. A livello di postura generale ho cercato di raccogliere l'invito di Scheper Hughes a convertire il ruolo dell'antropologo da osservatore a testimone: «Seeing, listening, touching, recording can be, if done with care and sensitivity, acts of solidarity. Above all, they are the work of recognition. Not to look, not to touch, not to record can be the hostile act, an act of indifference and of turning away» (Scheper Hughes 2014: 407).

Paradossi ed aporie di un sistema apparentemente illogico

Didier Fassin (2014: 3), prendendo in esame il concetto classico di aporia, ovvero una serie di difficoltà logiche che è impossibile aggirare, propone il concetto di aporia antropologica, che fonda a suo parere l'azione umanitaria. Questa non ha soluzione nello stato del mondo attuale, poiché non è un problema di disfunzione organizzativa, ma di una disfunzione intrinseca alla sua stessa funzione: questa è radicata nelle economie morali e nelle gerarchie geopolitiche che, di fatto, negano l'idea dell'eguaglianza di tutte le vite umane.

Le declinazioni locali del sistema di accoglienza per i richiedenti protezione internazionale hanno spesso svelato, nella mia esperienza, la sua natura aporetica[5]. Una delle sue manifestazioni più eclatanti si verificava soprattutto nella vita burocratica a cui sono soggetti i richiedenti asilo. Ai richiedenti asilo del CAS la questura rilasciava un cedolino in attesa del permesso di soggiorno di sei mesi rinnovabile che arrivava dopo almeno un paio di mesi: quel pezzo di carta con una loro foto graffettata e il nome scritto a penna, non sempre veniva riconosciuto come documento valido dalla stessa polizia quando li fermava, né da potenziali datori di lavoro e spesso nemmeno dall'Azienda sanitaria locale. Per quasi metà del loro tempo da richiedenti asilo, calcolando che ad ogni rinnovo del permesso di sei mesi per i primi due o tre questi erano in possesso solo del cedolino, gli utenti del CAS erano sprovvisti del regolare documento di cui avrebbero diritto (art. 4 del decreto legislativo del 18 agosto 2015, n. 142)[6].

Un altro episodio particolarmente illuminante sulla paradossale natura della burocratizzazione identitaria dei richiedenti asilo si è verificato nel caso della, spesso controversa, procedura per la richiesta di residenza. La residenza non è sempre garantita ai richiedenti asilo in un progetto di prima accoglienza, nonostante la legge (art. 43 del codice civile) indica che una persona domiciliata da più di tre mesi nello stesso stabile, con un documento in corso di validità possa legittimamente richiedere la residenza al comune di appartenenza[7]. Questo diritto veniva spesso negato dai piccoli comuni in cui si situavano i centri di accoglienza, in virtù del fatto che le persone lì accolte non erano “stabili”. In realtà, come ho potuto evincere da un incontro con un sindaco di un piccolo paese dell'entroterra, la paura che spingeva i sindaci a rifiutare la residenza era che i migranti, una volta usciti dal progetto di accoglienza, potessero richiedere al Comune delle forme di sostentamento per residenti in stato di indigenza previste dalla legge (Legge 8 novembre 2000, n. 328, art. 2). Questo non solo avrebbe portato una perdita economica per il Comune, ma avrebbe anche attirato le critiche degli abitati autoctoni, che già malvolentieri sopportavano la presenza dei migranti[8]. La residenza offre però la possibilità di ottenere la carta d'identità, un documento che veniva regolarmente richiesto da potenziali datori di lavoro, per iscriversi all'ufficio dell'impiego, ad una agenzia interinale o per un tesseramento sportivo. Ho seguito personalmente le pratiche per le residenze e le carte d’identità e, recandomi quasi settimanalmente al Comune con gli utenti interessati, ho continuato a insistere affinché l'ufficio anagrafe iniziasse le pratiche per una decina di richiedenti asilo redistribuiti in due appartamenti. La questura intervenne e bloccò le procedure avviate successivamente per altri utenti, avvertendo il responsabile dell'ufficio anagrafe di non emettere più certificati di residenza, visto che l'identità di queste persone non era “certa”. La questura era l'organo amministrativo che rilasciava loro il documento d’identità, ovvero il permesso di soggiorno.

In questa sfera di meta-burocrazia, che riflette involontariamente sulla stessa arbitrarietà delle sue procedure attraverso il modo discriminatorio e non formalizzato in cui opera nei confronti di una precisa parte della popolazione, è racchiusa a mio parere la metafora più emblematica dell'accoglienza, e il concetto di aporia antropologica di cui ha parlato Fassin.

Le aporie però non riguardavano solo la vita fuori dal centro, ma erano decisamente parte di quella al suo interno, anzi erano prodotte proprio dalla relazione fra la dimensione esterna e quella interna al dispositivo dell'accoglienza. Durante i controlli, ad esempio, i poliziotti chiedevano spesso ai richiedenti asilo che tipo di rapporto avessero con gli operatori, come mi confessò l’informatore A.[9] in una conversazione in cui mi stava enumerando le ragioni per cui gli utenti del centro avevano sviluppato un atteggiamento pregiudiziale nei confronti degli operatori. Come mi fece capire, le domande della polizia assomigliavano a delle minacce velate, un'ulteriore conferma del grado di sorveglianza a cui erano soggetti. D'altra parte questo interrogatorio rendeva la figura degli operatori ulteriormente ambigua, sia perché veniva direttamente messa in discussione dai poliziotti, sia perché le loro domande dimostravano un legame imperscrutabile fra operatori e la polizia stessa.

Tale mancanza di riferimenti e certezze dal punto di vista della propria posizione giuridica nell'interazione con le istituzioni si riverberava anche all'interno del CAS stesso. Sempre Fassin (2005) sostiene, a questo proposito, che l'aiuto umanitario si concentra solo sui più poveri, sfortunati e vulnerabili e che, quindi, la politica della compassione non può che essere una politica della disuguaglianza[10], mentre altri autori hanno identificato l'etnografia del sistema di asilo come una ethnography of injustice (Verdirame, Harrell-Bond 2005). Vediamo brevemente come questi due concetti di disuguaglianza e di ingiustizia si incarnano nelle prassi quotidiane in un CAS.

La politica della disuguaglianza, che come si è visto è praticata dalle istituzioni che circondano il “campo” (Rahola 2003; Szczepanikova 2005, 2012; Makaremi 2009; Whyte 2011; Rozakou 2012; Pinelli 2014) è ulteriormente approfondita dalla stratificazione che avviene all'interno del gruppo di utenti nei centri di accoglienza. La scarsità di risorse disponibili, dall'insufficienza numerica del personale assunto nel CAS, ai fondi allocati per attività di formazione nei centri di prima accoglienza, faceva sì che esse venissero redistribuite in modo spesso disomogeneo, enfatizzando la già insita tendenza a trasformare l'accesso ad un servizio in un privilegio piuttosto che in un diritto (Vacchiano 2011). La questione dei passaggi fra CAS e SPRAR e all'interno dei CAS, dalle strutture alberghiere agli appartamenti, svelava la scarsa coerenza interna del sistema e lo scarto fra regolamento e prassi: se idealmente non ci dovevano essere fattori discriminanti in base ai quali decidere sulla collocazione dei migranti in centri SPRAR, secondo il Piano Operativo Nazionale del 10 luglio 2014, in realtà la scarsità dei posti disponibili sul territorio creava delle gerarchie di accesso, basate sull'inserimento anche lavorativo del migrante sul territorio e sul suo status giuridico.

Quando il progetto si era aperto nel 2014 era stato promesso agli utenti, come mi dissero ripetute volte, che nel giro di qualche mese sarebbero stati spostati in strutture SPRAR, proprio perché gli operatori in primis erano convinti che l'accoglienza emergenziale sarebbe durata solo qualche mese. Allo scadere del secondo anno gli stessi primi arrivati erano ancora nel progetto CAS, e molti, ad oggi, hanno già compiuto il loro terzo anno in strutture di accoglienza “straordinarie”, programmate per rispondere ai bisogni basilari di un migrante appena sbarcato. Mentre inizialmente c'era la possibilità di essere trasferiti allo SPRAR, anche se non si era avuto l'esito del colloquio in Commissione o questo era stato negativo, nel tempo, per la nuova legislazione (d.lgs. 18 agosto 2015, n. 142) che prevede l'obbligo dell'accoglienza all'interno dei CAS solo ai richiedenti asilo, lo SPRAR divenne l'unica alternativa per coloro che ottenevano forme di protezione internazionale o la protezione umanitaria. La seconda accoglienza divenne così un privilegio di pochi, che dovevano necessariamente fuoriuscire dalla struttura di prima accoglienza dopo l'esito positivo del colloquio in Commissione, ma che non avevano i mezzi necessari per auto-sostentarsi, né ancora una buona conoscenza dell'italiano. I migranti che rimanevano nei CAS si erano sentiti dunque ingannati dall'organizzazione, come puntualmente riaffermavano ogni qual volta questioni di fiducia riemergevano nelle interazioni con gli operatori del CAS quando, nel tentativo di giustificare la mancanza di un piano strutturato per l'integrazione, ricordavamo loro che si trovavano ancora in “emergenza”, espressione che oramai suscitava solo ironia.

Paradossalmente, la vita nei CAS di coloro la cui domanda di protezione internazionale era stata rifiutata dalla Commissione ed avevano intrapreso la strada del ricorso negli eventuali vari gradi di giudizio, si allungava esponenzialmente, mentre coloro che possedevano una protezione internazionale transitavano più velocemente attraverso il sistema SPRAR e uscivano definitivamente dall'accoglienza. Questa infinita attesa bloccava completamente lo stile di vita transnazionale che caratterizza le migrazioni contemporanee (Riccio 2008).

I trasferimenti interni fra le strutture alberghiere e gli appartamenti venivano fatti cercando di rispettare l'ordine di arrivo. Tuttavia, se alcuni immobili avevano una posizione relativamente centrale, che permetteva una mobilità maggiore e la possibilità di intessere relazioni significative al di fuori del progetto di accoglienza, altri erano ubicati in aree rurali e quasi inaccessibili, dove la presenza degli utenti diventava iper-visibile e il senso di isolamento sociale diveniva schiacciante, in comunità locali così omogenee e radicate nel territorio.

In questi momenti di trasferimenti forzati, ad esempio, l'elemento della coercizione, che nella routine giornaliera tendeva ad eclissarsi, tornava prepotentemente ad essere presente, lasciando i migranti delusi e disorientati e gli operatori lacerati da questioni etiche irrisolvibili, disamorati rispetto anche ai momenti di contatto autentico e di scambio che avevano avuto con i richiedenti. Erano queste le occasioni che producevano a lungo andare quell'esaurimento della compassione tipico del lavoro sociale (Sennett 2003).

Un altro esempio di disuguaglianze collaterali all'amministrazione del sistema di accoglienza era costituito dalla scarsità di fondi per la formazione e dall’alto costo di quelle più professionalizzanti: questo aspetto rendeva difficilissimo decidere a chi e in quale modalità tali servizi sarebbero stati erogati. Un criterio importante era ovviamente quello basato sulle competenze dei singoli e sul loro percorso educativo e professionale nei loro paesi di origine. Nello stesso tempo i corsi più praticabili erano dei corsi generici, che in realtà non fornivano alcuna competenza vera e propria, né una certificazione valida sul mercato del lavoro, ma che avevano un costo individuale irrisorio e che potevano dunque essere svolti “in massa”.

In base a questo principio, tutti i beneficiari, a scaglioni di 50 alla volta, presero parte ad un corso sulle norme di sicurezza nel lavoro, specialmente edile, della durata di un'ora e mezza. Il grande salone seminterrato dell'albergo (sull'orlo del fallimento e salvato in extremis dalla riconversione a centro di accoglienza) si riempì da persone provenienti o dall'Africa Sub-sahariana o dal Bangladesh, con uno status giuridico incerto e una conoscenza dell'italiano insufficiente per comprendere veramente il contenuto del corso. Nessuno fra i partecipanti era già inserito nel mercato del lavoro e per molti entrarci sembrava più un miraggio che a una possibilità reale: nonostante questo stavano seguendo un corso sulle norme di sicurezza nel lavoro edile organizzato dall'associazione che aveva in appalto dalla Prefettura la gestione dei loro “bisogni primari”.

La scena, osservata da fuori, sembra non avere alcun senso. L'episodio appena descritto è uno dei tanti momenti formativi della rappresentazione che i richiedenti asilo vanno costruendo sull'accoglienza e la sua vera finalità, in cui il volto pubblico e quello privato (Agier 2011) dell'umanitarismo sono ai due poli opposti.

Mi preme, infine, concludere questo paragrafo riprendendo il titolo del mio contributo. La frase «We only have right over operators»[11] è stata pronunciata in un momento particolare. Era appena stata resa nota la notizia della morte di Emmanuel Chidi Nnamdi[12] a Fermo, ed alcuni miei amici stavano organizzando una manifestazione antirazzista nella stessa città. Non lavoravo più nel progetto da diverse settimane, ma avevo parlato dell'accaduto con alcuni ex utenti con cui ero in contatto e così avevo pensato di informarli ugualmente della manifestazione.

A. mi disse che difficilmente lui e gli altri avrebbero sfilato nel corteo, la paura che potessero succedere disordini con la polizia e che la cosa potesse condizionare la loro posizione giuridica e il tipo di documento che possedevano o per cui avevano fatto domanda era troppo forte, anche se si sentivano profondamente colpiti da ciò che era successo.

Quando dissi che era loro diritto manifestare pacificamente in un corteo autorizzato e che niente sarebbe potuto accadere, lui mi disse che quella di avere diritti nei confronti degli apparati dello stato era una concezione a loro piuttosto estranea. La maggior parte dei suoi compagni pensava di poter avanzare diritti solo nei confronti degli operatori[13].

Cosa ci dice questa affermazione?

1. Che il tipo di interazione che i richiedenti asilo hanno con lo stato è segnato da un'asimmetria e da meccanismi di abuso e prevaricazione così forti da farli pensare che la loro persona giuridica non esista.

2. Per il modo in cui il sistema di asilo è strutturato gli operatori sembrano essere gli unici interlocutori, le uniche figure incaricate della loro gestione, gli unici da cui possono essere visti e che possono renderli visibili.

Le parole di A., in un certo senso, richiamano ciò che è stato elaborato teoricamente da alcuni antropologi delle istituzioni che, discutendo della pervasività dell'azione di alcune macro organizzazioni umanitarie che assumono vere e proprie funzioni statali in alcuni stati africani, li definiscono come entità politiche che non sono “sotto” lo stato, ma sono parte integrante di nuovi apparati transnazionali di governamentalità (Ferguson 2006: 103).

L'affermazione di A. implica la certezza di una differente sfera del diritto che vige solo all'interno dei centri di accoglienza e non al di fuori, riflettendo il mondo totalizzante ed isolato dell'accoglienza, che rafforza ancora di più la condizione di sospensione e anomalia giuridica che i richiedenti asilo vivono. Essi si percepiscono come aventi diritti solo all'interno dello spazio di eccezione del sistema di asilo, una struttura più o meno omologata da direttive europee, quindi sovranazionali, ma si sentono privati di visibilità e diritti nello Stato, in cui la cittadinanza definisce il diritto. In questo senso, il sistema di asilo, seppure nelle sue contraddizioni e differenze fra Stato e Stato viene pensato come un apparato governamentale transazionale di carattere umanitario.

Nel caso del sistema di asilo in Europa le organizzazioni umanitarie non hanno effettivamente un potere così pervasivo, anche se nei tavoli di consultazione con le prefetture e con il ministro dell'Interno, hanno una loro voce in capitolo. Nello stesso tempo è interessante notare come A. scinda le due dimensioni, trasformando i margini dello stato (Das, Poole 2004) rappresentato dai centri di accoglienza in una dimensione governamentale a sé stante, la sola in cui la loro presenza venga, in un certo senso, riconosciuta.

La coerenza logica delle interpretazioni emiche dell'accoglienza e del sistema di asilo

Nel centro in cui lavoravo si era andata affermando nel corso dei mesi un'ostilità dichiarata, una linea di scontro che non accennava a ritirarsi, fra richiedenti asilo e operatori.

Come sottolineato da diversi autori (Van Aken 2005; Vacchiano 2011), la figura del rifugiato o del richiedente asilo, pensato come debole e necessitante aiuto, prevede che questo sia passivo e grato nei confronti di coloro che se ne prendono cura e degli “stati indulgenti” che ne regolamentano la quotidianità in generale, per cui espressioni di risentimento o ostilità vengono viste come qualcosa di oltraggioso.

Vittime di queste disfunzioni quotidiane delle politiche sociali (Lipsky 2010) e soggetti ad un operazione di misframing e rubber-stamping (Sandwick 2011: 27)[14], molti di loro iniziarono a loro volta a riprodurre le stesse dinamiche rispetto all'intenzionalità del progetto e dei suoi professionisti, ipotizzando una connivenza fra operatori e membri della Commissione Territoriale. A loro non sembrava possibile che nel giro di un'ora una Commissione composta da persone che non li avevano mai visti e che non sapevano nulla di loro, potesse essere in grado di decidere sulla loro vita e sul diritto di rimanere in Italia. Sembrava a quel punto molto più razionale che il loro giudizio fosse già pre-orientato dai suggerimenti e report degli operatori, i quali avevano dunque un peso non indifferente nel far piegare l'ago della bilancia da una parte o dall'altra.

Il primo dato su cui centinaia di richiedenti asilo avevano cominciato a costruire questa rappresentazione era quello della schiacciante percentuale di rigetti del tribunale di Ancona, a cui l'ONG faceva riferimento, rispetto a quelle di altre regioni, dove invece gli esiti erano all’epoca assai diversi (Bologna, ad esempio, all'epoca aveva una percentuale molto alta di rilascio di protezioni internazionali ed umanitarie)[15].

Nella lotteria dell'accoglienza, dove i richiedenti non avevano alcuna capacità decisionale sull'ubicazione e sul tipo di struttura in cui sarebbero stati collocati e, di conseguenza, sulla Commissione Territoriale in cui la domanda di protezione internazionale sarebbe stata presa in esame, l'arbitrarietà di linee di condotta così differenti, a fronte di criteri che sarebbero dovuti essere, per loro stessa costituzione, universali o quantomeno condivisi a livello nazionale, era troppo alta per poter essere giustificabile e rimaneva dunque incomprensibile. I parenti, amici o conoscenti che erano stati ricollocati in altre regioni accedevano infatti facilmente a forme di protezione internazionale, presentando storie simili alle loro.

L'eterogeneità delle prassi costituiva un rebus irrisolvibile e, per quanto ci sforzassimo a far prendere loro atto che le condotte delle varie commissioni territoriali fosse così diversificata, le nostre spiegazioni non spiegavano nulla, se non che la Commissione di Ancona stava agendo come un valico di frontiera interno, e che la discrezionalità delle loro decisioni poteva dipendere da dinamiche interne e dalla personalità delle diverse figure preposte all'esame delle domande, variabili ben lontane dalle indicazioni deontologiche fornite dall'UNHCR nelle Linee Guida di Protezione Internazionale.

La dipendenza dall'intermediazione dell'operatore nel processo di richiesta di asilo non poteva avvenire a costo zero: l'umiliazione nel dovere accettare questa condizione di minorità e il modo perverso in cui il sistema tendeva a rafforzarla piuttosto che dissolverla nel tempo erano esperienze talmente frustranti che molti decidevano di tentare la sorte e partire verso altri paesi europei, cercando di ricostruire una direzionalità e di rientrare nella narrativa del migrante di successo. Uno di loro, un uomo ghanese, che aveva sviluppato un atteggiamento particolarmente disilluso nei confronti dell'organizzazione e degli operatori, mi disse che non riusciva più a rispondere al telefono. La sua famiglia non faceva che chiedergli come fosse possibile che dopo mesi in Italia non inviasse soldi in Ghana, quando aveva un posto in cui dormire e cibo da mangiare. Il sospetto fortissimo che lui non volesse più sostenere la famiglia di origine e che magari se ne fosse creata una nuova in Italia, lo rendeva oggetto di continue recriminazioni, sensi di colpa e umiliazioni.

Beneduce (2014) ha messo in relazione i conflitti e le contraddizioni della situazione coloniale e il sospetto del colonizzato con quello che marca i rapporti fra richiedenti asilo e stato, ma in un ordine politico-morale differente. Nell'affrontare un contesto culturale che «treat asylum seekers as criminal suspects until chemical tests can prove them innocent of the presumption of lying and nationality fraud» (Tutton, Hauskeller, Sturdy 2014 : 739-740) in cui anche l'ultimo baluardo di oggettività, che era dato dal corpo e dai suoi segni, viene sempre più ignorato (a questo proposito anche io ho notato come diversi referti medico-legali non avessero avuto quasi nessun peso in sede di Commissione), ai richiedenti asilo non rimane che rispondere con altrettanto sospetto.

Vacchiano descrive il sospetto come la principale lente attraverso cui i richiedenti asilo vengono (ri)conosciuti, monitorati e catalogati, non solo negli organi incaricati di validare la loro domanda di asilo, ma anche e soprattutto nei centri di accoglienza:

Il tema della “verità” si è in questo senso andato estendendo dall’ambito meramente giuridico del riconoscimento dello status (l’audizione presso la Commissione Territoriale ne rappresenta il momento topico) alla pratica quotidiana (...). L’attenzione al rischio del “falso rifugiato” sembra rappresentare un’inquietudine ricorrente e relativamente generalizzata. Il suo modo di vestire, il suo atteggiamento verso l’operatore, le reti informali alle quali appartiene, la sua narrativa del dolore e del viaggio e, soprattutto, l’adesione al progetto che l’amministrazione ha predefinito, rappresentano i criteri di una discriminazione “in fieri” che ha come obiettivo la definizione di chi è realmente meritevole e chi no. Il lavoro di accoglienza diventa così una complessa “macchina della verità”, che da un lato “accerta” e dall’altro “performa” comportamenti consoni a una disciplina collettiva di governo. In questo senso, l’audizione presso la Commissione Territoriale rappresenta solo uno dei momenti (Vacchiano 2011:193).

Prendendo le mosse dalle osservazioni di Beneduce e Vacchiano uso il concetto di “regime di sospetto” per indicare il modo sistematico in cui il richiedente asilo viene pre-compreso come soggetto sospetto, menzognero, teso a sfruttare un apparato di diritto che non gli apparterebbe fingendosi qualcuno che non è. Utilizzo il termine “regime” sia per indicare la pervasività di questo atteggiamento conoscitivo verso i richiedenti asilo, sia per sottolineare la sua estrema funzionalità all'assetto politico che ne configura la “comparsa” come soggetti dello stato. Questa catena del sospetto si incarna nelle prassi giuridico-amministrative, viene riflessa dalla società civile, s'innesta nell'immagine pubblica e nella quotidianità interna ai centri di accoglienza ed infine rimbalza nei rapporti transnazionali fra richiedenti asilo e famiglie di origine: trovare un meccanismo in grado di spezzare in questa circolarità può essere estremamente difficile.

Alla luce di tale analisi la mia argomentazione vuole descrivere come i richiedenti asilo, schiacciati dalla pratica quotidiana del regime del sospetto, se ne riapproprino e la usino come uno strumento per sfuggire all'essere soggetti al sospetto e sottrarsi alla dicotomia fra rifugiato e clandestino. Tale operazione dunque non si configura solo come un atto di agency, ma anche come ultimo atto logico possibile per pensarsi alla mercé della stessa arbitrarietà di cui apparati istituzionali, ma anche l'opinione pubblica, vogliono cancellare traccia attraverso dispositivi morali quali sospetto, merito, e sofferenza.

Parlando sempre con A.[16] delle molteplici disfunzioni del sistema di asilo e della necessità di cambiarlo, e ipotizzando un’alleanza fra operatori e beneficiari che avesse come obbiettivo quello di esporre proprio tali disfunzioni e proporre soluzioni alternative, emerse da parte sua molto scetticismo. Dalle sue parole emergeva che un movimento per l'avanzamento dei diritti di richiedenti asilo e rifugiati non poteva configurarsi come uno sforzo congiunto fra operatori e beneficiari, perché operatori e beneficiari hanno interessi opposti: «the majority of the operators are interested in the money they are making through us while we are only interested in getting a document»[17]. Non si può guadagnare dall'accoglienza se gli utenti ottengono troppo presto e facilmente la protezione internazionale. La sensazione dunque che gli operatori lavorassero contro di loro anziché per loro era fortemente radicata e veniva reiterata quotidianamente in una serie di micro-gesti (come ad esempio la scarsa volontà di ottemperare ai propri obblighi burocratici o seguire le indicazioni medico-sanitarie di medici e operatori) volti a dimostrare consciamente o inconsciamente questo stato delle cose. Questa convinzione era così forte che coloro i quali costruivano dei rapporti più positivi e di collaborazione con gli operatori venivano spesso stigmatizzati ed emarginati dagli altri, come mi dissero M. e AJ.

Quando facevo ricerca nel child welfare system a New York molti utenti o ex utenti erano convinti della compenetrazione dei diversi dispositivi governamentali che, in un modo o nell'altro, facevano parte delle loro vite. Se le madri single con figli a carico potevano in alcuni casi usufruire degli aiuti dello Stato, questo avveniva solo a condizione di uno screening invadente della loro privacy, che poteva portare all'apertura di un caso con i servizi sociali, con accuse di negligenza nei confronti dei minori che potevano andare da un appartamento poco pulito e disordinato a una mancanza di supervisione durante il giorno. Questo faceva sì che gli aiuti finanziari statali venissero immediatamente ritirati, mentre una somma ben più ingente veniva versata all'agenzia privata no profit che si occupava della collocazione del minore e alle famiglie affidatarie. Lo stesso minore, se problematico, poteva poi finire, come spesso accadeva, nel juvenile justice system, e successivamente in carcere, due istituzioni che venivano generalmente percepite dalla popolazione dei quartieri a basso reddito e “razzializzati” come modalità di estrazione di profitto (il sistema carcerario americano è quasi interamente privato) dalla mera esistenza delle classi più povere, la cosiddetta underclass (Bourgois 1998; Abramovitz 2000; Goode, Maskovsky 2001; Roberts 2002; Davis 2006) risolvendo allo stesso tempo il problema politico della loro insostenibile disuguaglianza ed eccedenza rispetto all'economia politica e sociale della metropoli in questione. Per questo nell'opinione comune in questi contesti urbani servizi sociali diventavano “rapitori di bambini” e le comunità povere di colore cash cows tramite un apparato istituzionale progettato “per vederli fallire”.

Appartenere ad una categoria subordinata e soggetta ad un'ingerenza statale molto più invasiva rispetto ad altri gruppi della popolazione, rende le persone particolarmente abili nel leggere la propria condizione, diventando soggetti e testimoni di quella che ho chiamato una “governamentalità stilizzata” (Castellano 2014).

Come sostenuto da Wacquant:

Per gli appartenenti alle classi subalterne, sospinti ai margini del mercato del lavoro, abbandonati dallo stato e presi di mira dalla politica della ‘“tolleranza zero’”, lo squilibrio fra l'attivismo poliziesco, lo sperpero di mezzi che lo supporta e l'intasamento dei tribunali dovuto alla mancanza di risorse assume senza dubbio il volto di una negazione di giustizia organizzata (Wacquant 2000: 32).

Questo elemento, fortissimo nel child welfare system a causa della violenza del dispositivo della rimozione dei minori dalle famiglie in cui i servizi di protezioni conducono le indagini rispetto ad un sospetto di abuso o negligenza, era rafforzato dal fatto che entrare nei meandri delle procedure burocratiche infinite e con lunghi periodi di attesa del sistema, equivaleva nel ritrovarsi non solo impossibilitati a risolvere i problemi reali nel nucleo famigliare, ma anche a ritornare ad una condizione di normalità. Il tentativo di acquisire sempre più difficilmente una genitorialità “giusta”, correggendo senza sosta le forme di devianze che i servizi sociali di volta in volta evidenziavano, allontanava la possibilità del riaffido, per cui era prevista una finestra temporale di 21 mesi al massimo.

I richiedenti asilo del CAS in cui ho lavorato non facevano eccezione e si rivelavano altrettanto capaci di leggere criticamente il complesso istituzionale incaricato della loro gestione. Nella loro ricostruzione dei fatti, l'ipotesi più ragionevole diventava proprio quella dell'interdipendenza dei vari soggetti giuridico-umanitari che popolavano la loro esistenza. La Prefettura era l'organo incaricato di gestire la loro presenza, affidandone la gestione alle organizzazioni no profit, da cui ricevevano i fondi. Gli stessi, in diretta connessione con la Prefettura, monitoravano e circoscrivevano la loro presenza, tenendoli volutamente in una condizione di marginalità volta alla negazione di una possibile forma di integrazione. La Prefettura infine era in contatto con la Commissione, l'organo che doveva giudicare la loro richiesta di asilo e che veniva informata dalla Prefettura rispetto al merito o meno degli stessi, e aveva l'obbiettivo di prorogare quanto più possibile la loro condizione di incertezza, in modo tale da continuare ad alimentare l'industria umanitaria che c'era dietro.

Ovviamente la connivenza fra operatori e Commissione, così come il prolungamento del percorso di richiesta di asilo attraverso ricorsi sono speculazioni completamente errate. Ma invece che rifiutarla come irrazionale e pregiudiziale, bisogna chiedersi come mai si sia generata, soprattutto quando questa ha prodotto delle scelte che si sono ripercosse pesantemente sulla possibilità di successo del percorso di asilo, come il rifiuto di procedere con il ricorso o di avvalersi di certificazioni medico-legali, fino ad arrivare alla rinuncia dell'accoglienza in toto, come estremo atto di rivendicazione di libertà, di svincolamento dalla forma di esistenza sociale da questa messa in atto.

La sensazione è che il centro di accoglienza fosse una specie di finzione. Le persone passavano giorni, mesi e spesso anni abbandonati colloqui ai margini dei centri abitati, in luoghi marginali ed inaccessibili, una condizione che sembrava palesare il tentativo di occultamento di cui anche l'organizzazione si rendeva complice, un tentativo insomma di annullarne la presenza, di neutralizzare il loro peso sociale[18]. L'accoglienza diventava una sorta di dispositivo di invisibilizzazione e le attività che venivano praticate al suo interno una recita o una farsa, un modo per ingannare gli utenti sulle vere finalità del dispositivo stesso.

Spesso ci si chiede come mai richiedenti asilo e rifugiati smettano di andare a lezione di italiano, di interessarsi alle attività ricreative promosse dalle organizzazioni o dalle poche occasioni di interazione con il resto della società: in base a quanto è emerso dalla mia esperienza, è la disillusione rispetto agli obbiettivi di integrazione e cura che è generata dalla macchina dell'accoglienza stessa, insieme al razzismo istituzionale e quello quotidiano (Essed 1991) di cui sperimentano gli effetti tutti i giorni.

In questa circolarità dell'ermeneutica del sospetto, i richiedenti asilo si sentono giudicati dagli operatori incaricati della preparazione per il colloquio in Commissione, scoperti nel caso in cui la loro storia sia palesemente inventata e inconsistente. Gli operatori, consapevoli della severità dei criteri della Commissione, assumono volutamente un atteggiamento inquisitorio, volto a smascherare possibili errori o discrasie nel racconto dei richiedente. Questa pratica viene implementata come una buona pratica, un esercizio volto alla preparazione reale del richiedente, per renderlo consapevole della difficoltà del colloquio in Commissione. Nello stesso tempo tale pratica finisce però per presentare i membri della Commissione come giudici onniscienti, in grado di comprendere immediatamente la veridicità o meno della storia. Gli operatori ricostruiscono e forzano la narrazione a diventare iper-lineare, iper-informata e quasi disumana. La quantità di dettagliate informazioni spazio temporali e di conoscenze topografiche, geografiche e storiche, che in altre circostanze non verrebbero mai richieste a qualcuno intento a raccontare verosimilmente l'evento più traumatico della sua vita, rafforza questa richiesta di presentare una memoria computazionale e disincarnata.

Dall'altra parte, l'estrema superficialità e opinabilità dei criteri di valutazione della Commissione che i migranti si vedevano riportati nei loro dinieghi in cui si svolgevano i colloqui in Commissione, smantellavano completamente questa percezione, dando loro l'impressione che nulla di quello che era stato detto era stato realmente oggetto di analisi approfondita.

In questo clima di opacità diffusa e nell'impossibilità di trovare una chiave di lettura per le aporie del sistema, i richiedenti asilo si concentravano su quello che avevano a portata di mano ogni giorno e su cui potevano intervenire: il loro rapporto con gli operatori. Questi diventavano il simulacro della loro relazione escludente e conflittuale con lo stato, incarnandolo e modulandolo attraverso la loro personalità e i loro stili professionali così eterogenei, essendo il campo dell'accoglienza ancora così poco professionalizzato.

Inoltre, i continui attacchi al sistema di accoglienza e a chi ci lavora era portata avanti da diversi media in quell'anno, all'indomani dello scandalo di Mafia Capitale, spogliando gli operatori sociali di quell'intoccabilità degli attori umanitari a cui si riferisce Fassin (2014) che scaturisce dall'introduzione di sentimenti morali nelle sfere politiche così come nella presentazione del campo umanitario come non politico (Pinelli 2014; Vianelli 2014). La questione dei centri di accoglienza era rappresentata e usata come una vera e propria clava nel dibattito politico e i richiedenti asilo stessi erano permeati da questo tipo di discorsi, che circolavano abbondantemente fra di loro. Erano loro stessi a mostrarmi i video della Camera dei deputati con le interrogazioni parlamentari sul giro di affari del sistema di asilo e a dirmi che anche loro, quando parlavano con i “nativi”, dovevano smentire i falsi miti sull'accoglienza, spiegando ad esempio che i 35 euro al giorno non andavano direttamente nelle loro tasche.

L'eterogeneità delle pratiche, degli atteggiamenti e delle possibilità di relazione e riconoscimento che i richiedenti asilo vedevano rifratti nei dispositivi statali, partiva a mio parere proprio dai centri di accoglienza. La dipendenza, l'ambiguità del vincolo fra assistenza e controllo, l'infantilizzazione dei soggetti iscritta nelle stesse procedure gestionali e il modo informale ed eterodosso di praticarle degli operatori aveva reso il terreno dell'accoglienza fertile alla proliferazione dei regimi di sospetto.

Conclusioni: cortocircuiti etici ed epistemologici

Se gli operatori conoscono le regole e avvertono i migranti dei limiti entro i quali possono muoversi, i connazionali e le reti di migrazione transnazionale presentano degli schemi interpretativi ben diversi, molto più pragmatici e orientati verso un uso strumentale dei dispositivi dell'asilo e allo sfruttamento delle sue debolezze. Questo in realtà viene fatto anche dagli operatori che spesso giocano con le regole per tentare di accomodare bisogni particolari o esigenze personali che la griglia rigida che modella la condotta nei centri di accoglienza non prende minimamente in considerazione. Questi sforzi erano generalmente apprezzati dai migranti e riconosciuti come un comportamento che si smarcava dalla prassi istituzionale, un avvicinamento anche umano a loro, che li persuadeva che ci potesse essere fra di noi una complicità e non solo un rapporto di assistenza/dominazione.

Sandwick (2011) nella sua etnografia di un campo per richiedenti asilo a Kampala, ha notato quanto l'elemento dell'informalità e di pratiche proibite sia un aspetto costitutivo della natura emergenziale di simili luoghi. L'elemento dell'informalità era inevitabile anche nel mio progetto, l'intimità forzata in cui operatori e utenti erano obbligati e la sua durata tutt'altro che emergenziale, rendeva il presentismo (Agier 2011) tipico di questi luoghi la condizione per l'insorgenza di forme di relazioni inedite e di modalità interpretative del dispositivo dell'accoglienza radicalmente diverse da quelle volute dalla narrazione statale-umanitaria.

Nello stesso tempo però, la figura dell'operatore era co-costruita attraverso il paradigma dell'incertezza di Whyte (2011) dai migranti e dagli operatori stessi, per cui sciogliere il nesso fra potere e incertezza poteva rappresentare un rischio non indifferente, quello di perdere il controllo della situazione. Dare informazioni precise su scadenze, regolamenti e futuri avvenimenti era sempre un rischio, come si evince dal caso delle errate informazioni date all'arrivo dei primi migranti, visto la fluidità della cornice giuridica delle politiche dell'asilo. Così, spesso si preferiva dare risposte vaghe, per arginare un malcontento più profondo dell'esasperazione dell'attesa, anche se questa a volte si rivelava più dannosa di una spiegazione su come un regolamento fosse stato modificato a distanza di pochi mesi.

Presi in questa dimensione aporetica, operatori sociali e richiedenti asilo si trovavano spesso accomunati dalla necessità di dare senso, di orientarsi e ricostruire una teleologia della macchina istituzionale in cui si muovevano quotidianamente. Nonostante i differenti e quasi opposti posizionamenti, le due parti a volte finivano per farlo insieme, lasciati in una parziale oscurità rispetto alle decisioni che venivano prese a livello più alto, costretti ad affrontare le contraddizioni del sistema d'asilo ogni giorno, in una lotta estenuante per affermare la propria esistenza politica e la propria legittimità professionale (Vianelli 2014).

La permeabilità e predisposizione rispetto al fenomeno dei migranti e dei centri di accoglienza dipende ovviamente anche dal territorio in cui questi si collocano. La provincia in cui ho lavorato da questo punto di vista era piuttosto ostile e gli attori istituzionali sembravano non voler registrare del tutto la nostra presenza, negando la possibilità di accedere ad alcuni servizi, ancora prima di verificarne la possibilità e evidenziando unatteggiamento di rifiuto molto ben definito. Questo elemento rinforzava la sensazione di abbandono, quasi di irrealtà che ci circondava e paradossalmente creava nello stesso tempo la possibilità di avvicinamento e solidarietà. In questi momenti di intensa negoziazione, quando ci fermavamo ben al di là del nostro orario di ufficio per discutere con loro di questi aspetti e rispiegare ancora una volta l'organigramma del sistema di accoglienza, nonostante il tono spesso piuttosto vivace delle conversazioni, sembrava effettivamente di dialogare. Altre volte invece non c'era nessuno spazio discorsivo, e il sospetto diventava l'unica modalità relazionale e il rifiuto dei servizi una affermazione di indipendenza e di libertà.

Quando ho iniziato a lavorare la dimensione totalizzante dell'accoglienza era iper-visibile. Andare al lavoro era quasi una sofferenza, vivevo come un imbarazzo la mia stessa presenza in quell'albergo dimesso in cui le persone non sapevano che fare di se stessi. Cinicamente dicevo al mio collega che aveva iniziato il mio stesso giorno che non riuscivo a capire l'atteggiamento di premura delle mie colleghe, il modo informale e amichevole di interagire con gli utenti. «Non siamo altro che carcerieri gentili», gli ripetevo spesso. Nel corso dei mesi questa mia ferrea posizione cambiò radicalmente, senza che io potessi controllarne il cambiamento. Lo stare a contatto mi ha inevitabilmente portato a riconoscere la soggettività dell'altro e la mia apertura ha determinato un grado di fiducia reciproco che inizialmente giudicavo impensabile.

Nel tempo ho anche pensato che proprio questo elemento fosse il più difficile da accettare, e vedendo il sistema di accoglienza collassare e avvitarsi sempre di più su se stesso e sulle sue aporie sono arrivata alla conclusione che proprio questa ricerca di parità, la spontaneità e premura nella relazione praticate da alcuni operatori ed in parte auspicati da regolamenti e normative (Manuale Operativo SPRAR), sono i reali aspetti problematici dei centri di accoglienza, perché danno sempre l'illusione di poter evadere dai ruoli prestabiliti e dalle asimmetrie del mandato istituzionale.

Quello che rende i centri di accoglienza e in generale il mondo dell'asilo dai CARA, ai CAS agli SPRAR, dei luoghi politicamente controversi non è l'ovvietà della loro natura di dispositivi di sorveglianza e controllo, ma la possibilità e l'esistenza di relazioni che non si allineano con la loro teleologia: in altre parole ciò che viene dato per scontato nella professione dell'assistenza alla persona nella narrativa generale del lessico umanitario, l'aiuto, lo scambio l'arricchimento reciproco finiscono per diventare gli elementi problematici del lavoro nell'accoglienza.

Dopo aver affiancato la psicologa negli incontri con alcuni migranti, dopo essere passata in biblioteca a prendere i classici della letteratura francese per un professore francofono traumatizzato dalle carceri libiche, dopo aver devoluto giornate intere al perfezionamento della documentazione per un audizione o un caso in tribunale, rimanevo una testimone impotente del modo in cui il sistema disconosceva pedissequamente ogni nostro sforzo e ogni speranza delle persone per cui lavoravo di superare lo stato paludoso, destrutturante ed incerto dell'attesa. Ci sono state anche delle vittorie, dei margini di successo che, per quanto risicati, rendevano la situazione molto più sopportabile e rafforzavano i rapporti migliori che alcuni di noi operatori avevano con gli utenti. Sono stati i momenti in cui ho seriamente dubitato se andarmene o meno, perché ho avuto la sensazione che il mio lavoro potesse cambiare effettivamente qualcosa per qualcuno. Nel tempo sono arrivata però a delle conclusioni simili a quelle di Didier Fassin per cui: «the few victories which are won increasingly appear as episodes of compassion […] as privileged moments of collective redemption eluding the common law of their repression» (Fassin 2005: 375).

Investita del ruolo di operatrice legale con alle spalle un solo esame di diritto internazionale risalente al lontano 2007, temevo continuamente di poter fare degli errori, anche solo distrazioni, che potessero compromettere definitivamente lo status, le aspettative, le speranze non solo di un utente ma anche della rete di relazioni che si portava dietro. Anche il mio lavoro era diventato impraticabile: avere la responsabilità della gestione delle pratiche amministrativo-legali di 155 persone sulle proprie spalle[19] e faticosamente cercare di sollecitare l'attenzione degli altri attori istituzionali che, nella maggior parte delle volte, delegavano quasi completamente le loro funzioni agli operatori nelle strutture di accoglienza, era diventato un lavoro che non mi lasciava tempo per coltivare le relazioni informalmente e non essere solo una street level bureaucrat. Come mi disse K., io ero una brava operatrice sociale «perché io ridevo con loro», ma con 12 ore di lavoro alle spalle, la disponibilità allo scherzo precipitava vertiginosamente.

Inoltre, la nostra équipe era profondamente attraversata da conflitti interni, in cui alcuni operatori (me compresa) sposavano una linea di condotta che vedeva in modo problematico il rapporto con le istituzioni e si alleava più dichiaratamente con i richiedenti asilo stessi, mentre altri valutavano questo un comportamento controproducente e preferivano un’impostazione più rigida, in cui rafforzare la propria autorità anche richiamandosi a quella di organi come la Prefettura.

Nello stesso tempo la vicinanza reiterata, la condivisione di luoghi altri, come piazze locali e stazioni balneari, che spezzavano la temporalità anomala dell'asilo, portava i migranti a conoscere sempre più approfonditamente i propri “guardiani” e le loro abitudini. La modalità del rapporto che si instaurava finiva completamente per tradire il distacco e de-personalizzazione voluta dal sistema stesso (Masocha 2015) e favorire, nei casi migliori, un riconoscimento della reciproca umanità. Questo ha reso il rapporto con gli operatori carico di segni e significati difficilmente controllabili, in cui le personalità individuali, diversi stili professionali, diverse idee delle istituzioni stesse per cui si lavorava si mischiavano all'interno di rapporti estremamente complessi.

Come sostenuto da Sennett (2003: 104), «La disuguaglianza è un elemento così fondamentale dell'esperienza umana che gli individui sono costantemente impegnati a darle un senso». In questo caso alla disuguaglianza si univano i sentimenti provati dai richiedenti asilo di ingiustizia e quelli relativi alla frustrazione delle aspettative disattese e il bisogno di dare senso al paradosso della propria presenza in Europa, in Italia e in quel luogo geografico specifico. Non sempre il senso si costruiva insieme, ma a volte, incredibilmente, succedeva.

Quando ho deciso di lasciare il lavoro, sia per ragioni personali legate ad uno spostamento in un altro stato, sia per ragioni più eminentemente professionali, legate principalmente al senso di impotenza e nello stesso tempo compartecipazione non voluta alle dinamiche di erosione progressiva delle tutele nei confronti dei richiedenti asilo, la notizia ha lasciato molti utenti estremamente rattristati.

D'altra parte, però, come mi disse S., «era solo questione di tempo prima che anche le persone del centro si stancassero della solita storia dell'autonomia della Commissione che dici sempre»[20]; prima o poi anch’io — come mi disse Y. — avrei smesso «di dire la verità» e sarei diventata «like this»[21], mimando un serpente con la mano, perché tutti gli operatori prima o poi lo diventavano a suo parere.

A volte ripenso ancora alle parole di A. che, nonostante la sua forte critica del sistema di accoglienza, quando a distanza di 6 mesi dalle mie dimissioni gli dissi che il lavoro mi mancava, ma che non volevo tornare nel sistema di asilo mi disse: «We badly need people like you who can stand for us in making our voice heard»[22], oltre a ricordarmi con grande acutezza che in Italia probabilmente quello era l'unico campo in cui avrei potuto trovare un impiego. In questa ennesima ambiguità, in questa impossibilità nel decidere cosa sia giusto o cosa non lo sia sta l'enigma dell'accoglienza, la sua sfida quasi impraticabile.

Il decreto Minniti, fra le altre altamente discutibili modifiche del regolamento sull'asilo che apporta[23], ha trasformato il responsabile della struttura di accoglienza in pubblico ufficiale.[24] Quest'ultimo, oltre che ottemperare alle funzioni di vigilanza connesse al ruolo di pubblico ufficiale, è la persona incaricata della comunicazione dell'esito del colloquio con la Commissione Territoriale al richiedente asilo. É facile vedere come questa nuova configurazionecompia completamente la sovrapposizione fra gli apparati istituzionali e sintetizzandola nella figura chiave dell'operatore, punto d’intersezione in cui Commissione, Prefettura e Questura convergeranno, simbolicamente e pragmaticamente.

Se da una parte questo decreto palesa definitivamente il ruolo dell'operatore, dall'altra il potenziale di supporto e “azione con” che era ancora presente nell'accoglienza corre il rischio di essere completamente annullato e le rappresentazioni dell'economia politica dell'asilo che ne hanno i richiedenti impossibile da smentire, creando una frattura insanabile e un rapporto irreversibilmente asimmetrico.

Se le migrazioni forzate rappresentano una sfida che ci porta a ridiscutere radicalmente i concetti di stato-nazione, di sovranità territoriale e, soprattutto, di cittadinanza è evidente quanto queste ci chiedano di ricomporre la cornice istituzionale attraverso cui tali concetti vengono prodotti, sanciti e legittimati.

Pina Cabral ha descritto l'azione dell'istituire come una pratica che affonda le sue radici, più che su un pensiero razionale basato su un processo decisionale linguisticamente fondato, su una dimensione dell'inter-soggettività anteriore: in questo senso, «instituting has less to do with thinking than with being in company» (Cabral 2011: 492). Mi piacerebbe che questa diventasse una linea concettuale per ripensare l'accoglienza e che i momenti di mutualità e comprensione che ne fanno, malgrado tutto, ancora parte, fossero i mattoni su cui iniziare a costruire un'idea diversa delle politiche migratorie.

Sono convinta che per farlo sia fondamentale cercare di avere una comprensione alternativa del mondo, che sia situata nell'esperienza quotidiana di gruppi marginalizzati e che trasformi la loro capacità situata di vedere le strutture di dominazione sociali in un vantaggio epistemico (Collins 2000; Harding 2004). In questo senso, ritengo il ruolo delle scienze sociali, e dell'antropologia in particolare, cruciale, così come la responsabilità politica che inevitabilmente ne consegue.

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[1] A questo proposito può essere utile una breve panoramica delle diverse tipologie di strutture di accoglienza in Italia. CARA: Centri di Accoglienza per Richiedenti Asilo, istituiti per procedere all’identificazione e all’avvio delle procedure relative alla protezione internazionale. I richiedenti asilo dovrebbero restare fino a un massimo di 35 giorni in attesa che la loro richiesta di protezione venga esaminata dalla Commissione Territoriale competente. Si configura come un sistema caratterizzato da centri di grandi dimensioni, costi elevati, bassa qualità dei servizi erogati e isolamento dai centri urbani. CAS: Centri di Accoglienza Straordinaria. Sono pensati per sopperire alla mancanza di posti nelle strutture ordinarie di accoglienza o nei servizi predisposti dagli enti locali, in caso di arrivi consistenti e ravvicinati di richiedenti. Ad oggi costituiscono la modalità ordinaria di accoglienza. Tali strutture sono individuate dalle prefetture, in convenzione con cooperative, associazioni e strutture alberghiere, secondo le procedure di affidamento dei contratti pubblici, sentito l’ente locale nel cui territorio la struttura è situata. La permanenza dovrebbe essere limitata al tempo strettamente necessario al trasferimento del richiedente nelle strutture seconda accoglienza. SPRAR: Il Sistema di Protezione Richiedenti Asilo e Rifugiati rappresenta la cosiddetta “seconda accoglienza”, è istituito dal Dipartimento per le libertà civili e l’immigrazione del Viminale e gestito dall’ANCI (Associazione Nazionale dei Comuni Italiani).

[2] Il nome dell'organizzazione così come i luoghi specifici in cui il CAS era ubicato non verranno menzionati per proteggere l'anonimato degli informatori e non contravvenire la regola di confidenzialità sottoscritta al momento dell'assunzione.

[3] A questo proposito l’associazione Melting Pot (http://www.meltingpot.org/Ancona-Manifestazione-per-i-diritti-dei-rifugiati.html#.WOivaumgZrM) riporta i dati raccolti dal Ministero dell'Interno e la percentuale del 73% di non riconoscimento di alcuna forma di protezione (internazionale e umanitaria) nella Commissione di Ancona fra il 2014 e il 2015, con un incremento di oltre il 30% nell'intervallo di un anno. Se pensiamo che la maggior parte degli utenti nel CAS in cui ho lavorato provenivano da paesi come la Nigeria (7% di protezioni riconosciute nelle commissioni del Nord Est) o il Gambia (4%), è facile immaginare che il dato del 73% fosse ulteriormente accresciuto (fonte: http://www.meltingpot.org/IMG/pdf/quaderno_statistico_numeri_asilo_1990-2015.pdf).

[4] Vorrei ringraziare in particolare Alessandro Iotti e Francesca Mignini per le intense e significative discussioni sull'accoglienza che abbiamo avuto, per il loro supporto e consigli fondamentali per l'elaborazione di questo contributo.

[5] L’approccio emergenziale e privo di programmazione ha da sempre contraddistinto le politiche di accoglienza in Italia, ostacolando il consolidamento di pratiche di accoglienza efficaci sui territori. Bisogna infatti attendere l'emanazione del decreto legislativo di attuazione della direttiva europea 2003/9 (d.lgs. 140/2005) prima di arrivare all'elaborazione di sistema di accoglienza per i richiedenti asilo e rifugiati nel territorio nazionale in linea con gli standard europei e con il diritto internazionale dei rifugiati. Malgrado l'incapacità, protrattasi negli anni, di realizzare una rete di accoglienza funzionale e rispondente ai flussi migratori, a partire dall'approvazione del Piano Operativo Nazionale del 10 luglio 2014 per fronteggiare il flusso straordinario di cittadini extracomunitari, adulti, famiglie e minori non accompagnati, si è cercato di superare lo logica emergenziale, che ha da sempre dominato nelle scelte politiche nazionali di accoglienza. Il 17 giugno del 2015 è stato approvato il Piano operativo nazionale che, tra i vari obiettivi, persegue quello di monitorare il sistema di accoglienza e di innalzare gli standard qualitativi offerti nelle varie strutture. A confermare la strategia del Piano Nazionale è stato il recepimento delle due direttive europee in materia di procedura e accoglienza con d.lgs. 18 agosto 2015, n. 142, che introduce alcune novità e riordina le precedenti disposizioni legislative consolidando così una nuova disciplina dell'accoglienza. A partire dal vertice di Bruxelles del 14 settembre del 2015, che ha riunito i ministri dell'Interno dei 28 Paesi dell'UE, si è dato il via alla realizzazione degli hotspot, in un'ottica di rafforzamento della politica dei rimpatri e del FRONTEX. La richiesta di istituire hotspot proviene dall'Europa, in particolare dalla voce della cancelliera tedesca Angela Merkel e dal cancelliere austriaco Werner Faymann, che hanno ribadito la necessità di allestire nei "punti caldi" dell'UE (Italia, Grecia e Ungheria) strutture finalizzate all’individuazione e registrazione degli stranieri appena arrivati sul territorio. Si ricorda infine l'approvazione del Decreto Minniti, il decreto-legge 17 febbraio 2017, n. 13, che contiene "disposizioni urgenti per l'accelerazione dei procedimenti in materia di protezione internazionale, nonché per il contrasto dell'immigrazione illegale".

[6] Nonostante l'art. 40 comma 3 del D.L. 6 dicembre 2011 n. 201, che ha trasformato in legge la circolare emanata nel 2006 dal Ministero dell’Interno, con cui si è voluto dare valore legale al “cedolino”, sono stata testimone di innumerevoli episodi in cui uffici pubblici si sono rifiutati di riconoscergli alcun valore legale, così come ho raccolto le testimonianze di diversi utenti che sono stati fermati per dei controlli casuali dalla polizia, la quale metteva in discussione la validità del cedolino, trattenendoli per qualche minuto e successivamente lasciandoli andare.

[7] Recentemente, il Ministero dell’Interno, Direzione Centrale per i Servizi Demografici, ha diramato la circolare n. 5 del 18 maggio 2017, relativa all’iscrizione anagrafica dei richiedenti protezione internazionale, in cui si conferma, come da regolamento precedente che “l’istituto della convivenza anagrafica, di cui all’art. 5 del regolamento anagrafico (DPR 223/1989) possa essere applicato sia nell’ipotesi in cui l’interessato sia ospitatonei centri di prima accoglienza, che nei casi in cui esso sia ospitato nelle strutture temporanee ovvero nei centri di accoglienza del sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati (SPRAR), sempre che non sia registrato individualmente in anagrafe”.

[8] A questo proposito ci sono stati diversi episodi che hanno chiaramente dimostrato l'avversione di alcuni cittadini per la presenza del CAS e dei suoi utenti, fra cui un'interpellanza al Consiglio Comunale nel 2014 a seguito dell'apertura del centro CAS nel suddetto comune, a cui sono seguite diverse polemiche sui giornali locali. Inoltre, nel corso dell'anno lavorativo, sono state tante le volte in cui abitanti dei palazzi limitrofi e gestori di attività commerciali si sono lamentati con noi, la dirigenza dell'organizzazione o il responsabile delle politiche sull'immigrazione del Comune dell'estrema “visibilità” degli utenti, che, deambulando sul lungomare o nel centro o semplicemente affacciandosi ai balconi, creavano “degrado” e allontanavano i turisti della stagione estiva.

[9] A tutela della privacy e anonimato vengono utilizzate solo delle iniziali fittizie.

[10] Non sono particolarmente propensa a pensare i richiedenti asilo come i soggetti più vulnerabili: piuttosto credo che essi siano costruiti come vulnerabili da una serie di dispositivi governamentali e giuridici e da dinamiche di regolazione dei confini nazionali e dei flussi migratori.

[11] A., 7/7/2016, comunicazione personale.

[12] Il 5 Luglio 2016, il richiedente asilo nigeriano Emmanuel Chidi Nnamdi è stato ucciso da Amedeo Mancini, fermano di 38 anni e simpatizzante di Casa Pound, come conseguenza di una colluttazione scaturita dagli insulti che Mancini aveva rivolto alla moglie di Nnamdi.

[13] Nell'utilizzare la categoria di “richiedenti asilo” sono consapevole dello schiacciamento delle profondissime differenze di provenienza e traiettorie di vita. Nello stesso tempo, prendendo in esame la loro visione dell'apparato istituzionale che ne amministra e regolamenta la presenza, non posso che considerarli come un soggetto politico collettivo. Accolgo quindi sia quella che Agier ha chiamato comunità esistenziale dell'esodo (Agier 2002), di cui parla diversamente anche Mezzadra (2006).

[14] Con misframing e rubber stamping si intendono le rappresentazioni standardizzate di una categoria di persone (beneficiari di welfare, richiedenti asilo, madri single etc.) la cui categorizzazione viene prodotta dal loro rapporto con lo Stato che finisce per inghiottire completamente la possibilità di riconoscimento dell'individualità. Questa dinamica era forse più forte fuori dai centri di accoglienza che dentro, dove il rapporto quotidiano fra beneficiari e operatori riduceva l'effetto di tali generalizzazioni.

[15] La Commissione di Bologna ha avuto nel 2015 un 84% di esiti positivi, mentre quella di Ancona solo il 27% (Rapporto sulla protezione internazionale in Italia, 2016).

[16] I miei numerosi riferimenti ai miei colloqui con A. conseguono il ruolo particolare che questo aveva assunto nel CAS: proveniente da uno dei progetti abitativi di cui il CAS si componeva con la più alta conflittualità interna, A. aveva assunto un ruolo di rappresentante delle istanze avanzate dagli altri utenti e traduttore, specialmente nelle nostre conversazioni informali, delle forme di risentimento e sfiducia che circolavano fra di loro.

[17] A., Aprile 2016, comunicazione personale.

[18] A questo proposito Diken e Lausten (2006) ricordano quanto i campi, seppur definiti come strutture di protezione dei richiedenti asilo, hanno di fatto la funzione di garantire la sicurezza di chi sta fuori (cittadini) dai soggetti (non cittadini) che vivono all’interno di essi.

[19] La gestione manageriale delle organizzazioni no profit nel campo dell'asilo e l'ottica di massimizzazione del profitto che ne consegue è stata analizzata da James and Killick nel loro studio sui dilemmi etici affrontati dai caseworkers di una Ong inglese che si occupava di rappresentazione legale dei richiedenti asilo. I caseworkers erano costretti, per mancanza di risorse e di tempo e a causa di carichi lavorativi eccessivi, a scegliere i casi più “meritevoli”, mettendo in atto un processo di selezione discriminatorio e soggettivo (James, Killick 2010). In Italia Lorenzo Vianelli ha rimarcato quanto tale elemento intervenga fortemente nella depoliticizzazione del ruolo dell'operatore sociale (Vianelli 2014).

[20] A., comunicazione personale, aprile 2016.

[21] Y., comunicazione personale, novembre 2015.

[22] A., comunicazione personale, settembre 2016.

[23] Per una discussione completa delle problematiche emerse a seguito dell'entrata in vigore del Decreto Minniti consultare le “prime riflessioni interpretative” pubblicate dall'ASGI: https://www.asgi.it/wp-content/uploads/2017/07/Scheda-pratica-legge-Minniti-DEF_2.pdf.

[24] «Il responsabile del centro o della struttura è considerato pubblico ufficiale ad ogni effetto di legge» (Capo II, Art. 6 del Decreto Legge 17 febbraio 2017, n° 13 – “Disposizioni urgenti per l’accelerazione dei procedimenti in materia di protezione internazionale, nonché per il contrasto dell’immigrazione illegale”.