La storia di Mamadou

Memorie in dialogo sulla frammentazione della vita di un giovane rifugiato

Daniela Benemei

sociologa e ricercatrice indipendente

Francesca Scarselli

antropologa e ricercatrice indipendente

Virginia Signorini

psicologa e ricercatrice indipendente

Indice

Introduzione
Atto I
Atto II
Atto III
Epilogo
Conclusioni
Bibliografia

Abstract.  In the following pages we propose a patchwork of our memories related to the life of Mamadou, a young refugee who lived and died in Italy. The paper is focusing on the definition of disillusion towards the Italian reception system that not only has been unable to take in charge Mamadou, but became a producer of labels and fragmentation.

Keywords: trauma; refugees; unaccompanied minors; disillusion; memory.

Introduzione

«La tradizione degli oppressi ci insegna

che lo “stato di emergenza” in cui viviamo è la regola.

Dobbiamo giungere a un concetto di storia

che corrisponda a questo fatto» (Benjamin 1981:79).

«Disincanto: situazione spirituale che implichi il superamento di un’illusione, di una visione deformata della realtà. Scioglimento da un influsso magico» (Devoto Oli 1995: 613).

Le illusioni si sono perse in un mattino di ottobre. Il nostro disincanto rende impellente narrare una storia che è stata volontariamente nascosta. Il nostro disincanto ci impone di raccontare la storia di Mamadou e di portare questa narrazione nei luoghi sommersi «dei profili della vulnerabilità, delle biografie divise, della sofferenza» (Beneduce 2007: 253)[1].

Con questo contributo proponiamo di narrare una vicenda avvenuta a cavallo tra quella dimensione che si trova tra il dentro e il fuori dei progetti dedicati all’accoglienza dei richiedenti asilo in Italia e che decidiamo di riportare tramite spezzoni della nostramemoria, poiché all’epoca degli eventi rivestivamo ruoli professionali nell’ambito dell’asilo politico.

Le pagine che seguiranno non hanno la pretesa di essere un’analisi esaustiva di un intervento di presa in carico socio-sanitaria, ma vogliono essere un atto di ricucitura che dia un senso alle nostre memorie legate alla storia di un giovane rifugiato di nome Mamadou[2]. Proprio per rispettare il senso manuale, artigianale e in progress dell’atto di ri-cucire scegliamo di lasciare la forma dialogica presentando un testo collage (Clifford 1999), come una coperta patchwork che ci consenta di rappresentare la frammentazione della realtà che abbiamo condiviso, incrociando Mamadou nei nostri percorsi professionali. Ma prima di poterci addentrare nella ricostruzione di ciò che ognuna di noi ha deciso di condividere è necessario accompagnare il lettore nella analisi di quei dispositivi e processi che hanno portato la storia di Mamadou ad un punto estremo.

La storia di Mamadou parla del percorso di un giovanissimo ragazzo proveniente da un Paese dell’Africa Occidentale, che giunge in Italia come richiedente protezione internazionale e che viene accolto in un progetto per richiedenti e titolari protezione internazionale. Durante il suo periodo in accoglienza dichiara di essere minorenne e vengono attivate una serie di azioni volte a supportare il suo passaggio ad un contesto di accoglienza dedicato ai minori. In questa complessa commedia della vita, la scena vede la presenza sul palco di mediatori, avvocati, operatori, psicologi, assistenti sociali, referenti di progetti, agenti di polizia, personale sanitario, personale delle istituzioni quali Comuni, Prefetture, Questure, Tribunali dei minori, Ministero degli interni. E Mamadou. Da qualche parte c’è anche lui.

Decidiamo di raccontare quello che ricordiamo di Mamadou attraverso le nostre memorie di operatrici al fine di tentare di rimettere assieme quei pezzi che, nel corso del suo vivere in accoglienza, abbiamo potuto osservare nel loro lento ma anche rapido frammentarsi, sgretolarsi. In questa sede decidiamo di non approfondire la dimensione emotiva del nostro essere operatrici[3] poiché scegliamo di usare il nostro ruolo come uno strumento per portare l’analisi ad un livello più esterno alle stanze dell’accoglienza, come di fatto è stata la stessa vita di Mamadou, a cavallo tra il dentro e il fuori di quelle stanze.

La storia di Mamadou parla di abbandono, di silenzio, di quelle “misure non repressive” (Pinelli 2013: 10) che modellano e amministrano soggetti-assoggettati da relazioni di potere che governano la società di nuovo approdo dei migranti forzati[4]. Col nostro tentativo di ricostruzione delle fasi del suo percorso di accoglienza ci proponiamo quindi di «individuare tanto le forme eclatanti e violente di esercizio del potere, quanto le misure che regolano e controllano la vita dei soggetti legate ad una violenza quotidiana e sistematica» (Pinelli 2013: 11), soffermandoci sulla «esperienza emozionale di un soggetto politico” (Luhrmann in Pinelli 2013: 12)[5] per «gettare luce sulle dinamiche strutturali che producono esclusione, vulnerabilità, marginalità» (Pinelli 2013: 12).

I poteri esercitati dai soggetti istituzionali e para-istituzionali coinvolti dimostrano come il sistema di asilo odierno stia portando avanti politiche di amministrazione e controllo basandosi su strategie che Zachary White, in relazione al sistema d’asilo in Danimarca, ha brillantemente riassunto nel concetto di myopticon; esso è una forma di potere che, distinguendosi dal panopticon di cui scrive Foucault, si radica «più sull’incertezza che su conoscenza accurata o disciplinamento dei suoi soggetti, e che per ciò ha ben altre conseguenze per le persone sottoposte al suo sguardo miope» (White 2011: 36). Il myopticon dell’asilo si basa su varie tecniche di esercizio del potere, non limitandosi quindi ai soli spazi fisici ma altresì a «pratiche legali e burocratiche, i saperi e le istituzioni» (White 2011: 45). Il dispositivo del myopticon si sviluppa attraverso la creazione di relazioni di potere in cui i richiedenti asilo non sono in grado di fissare i limiti del loro essere effettivamente visti, presi in carico e, pertanto, portatori di diritti. Tutt’altro: essi si trovano immersi in una sensazione diffusa di incertezza, che non è riconducibile ad una «conseguenza sfortunata delle procedure di determinazione, quanto un elemento fondamentale per il funzionamento del sistema come tecnologia di potere» (White 2011: 57-58).

La storia di Mamadou racconta di strategie di potere e di de-storicizzazione volte ad amministrare e confondere o, più precisamente, ad amministrare confondendo, facendo leva su categorie apparentemente chiare come “minore non accompagnato”, “richiedente asilo”, “centro di accoglienza per minori”, e via dicendo, ma che nella vita quotidiana si sono tradotte in episodi di annebbiamento e costante insabbiamento. Uno degli aspetti più interessanti che emergeranno dalle vicende dei soggetti che incarnano le istituzioni che dovrebbero tutelare la vita di Mamadou è la responsabilizzazione del minore rispetto alla miopia che il suo “caso troppo difficile” provoca. Accanto ad un processo di de-umanizzazione del giovane si assiste quindi ad una parallela condanna che de-responsabilizza i soggetti che, nello stato di diritto in cui operano, ne avrebbero tuttavia piena titolarità. La dimensione di miopia e di abbandono diventano dunque speculari e parte di un procedimento di “incorporazione” (Csordas 2003), di pratiche e politiche che costituiscono quella cosa che definiamo “stato” (Das, Poole in Pizza, Johannessen 2009: 18).

In un panorama reso foschia dalle incongruenze del sistema asilo ecco che si formano zone di abbandono sociale ed istituzionale (Pinelli 2017: 15), zone marginali che devono essere considerate locations in termini sia politici sia di resistenza (De Laurentis in Pinelli 2013: 14); ed è in un anfratto di quei luoghi marginali che anche Mamadou è stato lentamente accompagnato, sebbene sia stato facile definirlo un “sé in fuga” (Taliani 2011).

Atto I

«I nostri ricordi sono i fragili ma potenti prodotti

di ciò che rievochiamo del passato,

crediamo del presente

e immaginiamo del futuro» (Schacter 1996: 336).

Francesca: Sto per andare a dormire, sono esausta, a Tijuana le mie giornate sono intense e dense e la sera non riesco a fare le ore piccole. In Italia è mattina presto, penso ai miei cari che si alzano ed iniziano la loro giornata, mentre io me ne vado a dormire. Ultimamente capita spesso che Virginia mi chiami via Skype, quando per me è sera e per lei è l'inizio di un nuovo giorno. C'è un ragazzino nel progetto dove lavora, è chiuso e silenzioso: è stato per un anno nell'emergenza profughi e recentemente lo hanno trasferito da lei.

Virginia: Mamadou è entrato da poco nel progetto dove lavoro come operatrice. La Commissione Territoriale[6] competente gli ha recentemente riconosciuto la protezione umanitaria. Una mattina passo a prenderlo a casa per andare a fare un controllo del sangue in ospedale; ci troviamo in sala di attesa quando il mediatore mi dice un po’ stupito che il giovane gli aveva appena confessato di avere 14 anni e non 22, come scritto sul suo permesso di soggiorno. Decidiamo di non approfondire in quel momento, anche perché capiamo che per Mamadou fare le analisi del sangue è una esperienza che gli crea enorme tensione e paura. Usciti dall’ospedale dice che non vuole più farsi rubare il sangue e che sta bene

Il giorno seguente per timore del percorso canonico con la radiografia del polso, familiare alle storie dei minori, prendo contatti con l’équipe di un’associazione che fra le sue attività realizza certificazioni per l’accertamento dell’età.[7] Inizio quindi a confrontarmi con loro e con i legali che affiancano il progetto per cui lavoro, al fine di programmare un percorso il più possibile attento ai passi da compiere per supportare il minore. Insieme al progetto viene deciso quindi di proporre al giovane degli incontri con l’équipe della Ong al fine di produrre documentazione a supporto della sua dichiarazione.

Facciamo molti colloqui con Mamadou con l’aiuto dei mediatori per spiegare il percorso di certificazione ed essere sicuri della sua comprensione. Tramite la voce della mediatrice mi ripete sempre che sì, ha 14 anni e che gli va bene fare un incontro con i medici. Gli spieghiamo anche che questo percorso è fatto perché lui non dovrebbe stare in una “casa di grandi”, ma in un progetto dove lo potranno seguire e meglio tutelare. Arriva quindi il giorno in cui io, Mamadou e la mediatrice ci rechiamo alla sede della Ong per fare un primo incontro di orientamento e conoscenza.

Daniela: In questo primo e in realtà unico incontro Mamadou appariva molto riservato, con brevi momenti di apertura, dove incrociava i nostri sguardi e sorrideva parlando di calcio[8].

«Lo sguardo rappresenta lo strumento più efficace per la comunicazione interpersonale ed è noto che la percezione delle espressioni facciali è il canale più efficace per la comunicazione non verbale» (Schore 2008: 38). Queste erano le conoscenze della mia formazione professionale, ma questi anche i limiti che per non trasformarsi in errori hanno bisogno di consilienza, di processi epistemologici che consentano la formazione di nuovi paradigmi attraverso lo scambio con ricercatori e professionisti di ambiti conoscitivi diversi. Così la storia di vita e la sofferenza portata da Mamadou non avrebbe dovuto trovare riconoscimento soltanto attraverso la dimensione sanitaria, perché, come ricorda Beneduce, «nodi sociali, economici e storici si stringono intorno alle biografie, ai desideri e ai progetti dei singoli» (Beneduce in Taliani, Vacchiano 2006: 13)

Durante il colloquio l’impressione era di avere davanti un ragazzo serrato, come postura del corpo e come atteggiamento con noi adulti, che a nostra volta lo serravamo nel setting del colloquio.

Alla fine dell’incontro, quando la dottoressa della nostra équipe ha restituito a Mamadou l’esito della visita che sosteneva la sua collocazione in una fascia d’età minore di 18 anni (il range era fra 16+/-2), l’espressione di Mamadou si è chiusa, ha cominciato a guardare in basso e non ha più sorriso. Da allora ha respinto le proposte di incontrare l’équipe nuovamente per concludere il percorso.

Il momento di tale comunicazione è stato il momento di rottura, con una mancanza di recupero della sintonizzazione che costituisce uno dei predittori del fallimento della relazione terapeutica. Questo è stato anche il segnale di come le nostre narrazioni di operatori, impegnati ad attribuire un’età presunta, avessero prevalso e interrotto un possibile processo co-costruito con Mamadou, che lo accompagnasse a trovare un senso all’essere definito “minore”.

Virginia: Dopo la certificazione Mamadou viene segnalato ai servizi sociali e viene ipotizzato un trasferimento in un centro SPRAR[9] per minori. Viene anche avviata la nomina del tutore. Un pomeriggio organizziamo il primo incontro con una persona referente per i servizi sociali per spiegare e ribadire cosa vuol dire essere minori in Italia e che presto cambierà progetto. In quella occasione Mamadou si comporta in modo diverso, si allontana dalla stanza e passa molto tempo al telefono con qualcuno. Sembra quasi che si stia confrontando in diretta su quello che stava accadendo nonostante ci fosse anche la mediazione con noi.

Mamadou in questi giorni inizia a cambiare atteggiamento e inizia a cambiare dichiarazione, dicendo che non ha mai detto di avere 14 anni e che siamo stati noi operatori del progetto ad averlo detto. Mi sento spiazzata e vivo il costante bisogno di non restare sola in questo percorso.

Mi confronto quindi spesso con il medico della Ong, la mediatrice e Daniela. Pensiamo che forse la prospettiva reale e sempre più vicina di cambiare casa possa aver creato timore in Mamadou tale da ritrattare sulla sua dichiarazione. Cerchiamo con Daniela di organizzare un incontro con l’assistente sociale per capire se possiamo ricreare il collante che nella prima giornata delle perizie aveva portato Mamadou a raccontarsi. Ma il giorno dell’incontro lui non si fa trovare.

A quel tavolo ci sono tutti: referenti di progetto, mediatori, servizi sociali, tutori, operatori, psicologi. Si parla di Mamadou, si fanno ipotesi su Mamadou, si esprimono giudizi e si decidono strategie per lui. Viene espressa anche l’ipotesi che Mamadou abbia problemi cognitivi, seppure senza una diagnosi, senza un percorso di osservazione clinica, però il semplice fatto che lui oggi non si sia fatto trovare è sintomo di “qualcosa”. Ricordo la camminata verso la fermata del bus con Daniela quella mattina e di come risuonassero le parole dell’assistente sociale che definiva Mamadou come un ragazzo con problemi cognitivi; però il suo comportamento ricordava anche quello di un giovanissimo che si trova in un turbine di eventi “da grandi”.

Forse l’assenza di Mamadou a quel tavolo può essere letta come un atto di presenza attraverso l’assenza, contro una burocrazia che è diventata improvvisamente troppo difficile da comprendere ed incorporare nella propria quotidianità, o di cui semplicemente Mamadou non sente il bisogno[10].

Dopo questi eventi aumentano in me le perplessità al pensiero di aspettare la segnalazione allo SPRAR minori che è vincolata ad avere le nuove impronte digitali e la nomina del tutore.

Francesca era sempre in Messico in quel periodo e continuavano le chiamate Skype fatte per capire quale potesse essere la via migliore per aiutare Mamadou e non perdere il legame che lo aveva portato inizialmente a dichiarare la sua minore età.

Ricordo una mattina, mi sono alzata molto presto e ho preso la macchina perché a casa mia non funzionava quasi mai il segnale di internet. Sono sola in un parcheggio, dentro la mia auto, a cercare un segnale per parlare in Skype con lei, saranno le 6 di mattina. Dopo la nostra chiamata Francesca mi fornisce il contatto di una sua amica che da anni lavora in un centro per minori. Magari parlare con lei mi aiuterà a capire meglio come supportare Mamadou. Non perdo tempo e il giorno stesso la chiamo; mi suggerisce di provare a spostarlo quanto prima in un centro protetto per minori, così da poter evitare che venga spostato in uno Sprar lontano.

Francesca: Ci sentiamo ancora molte volte, io sono sempre dall'altra parte del pianeta. Le cose precipitano, la situazione con Mamadou non è semplice e sento Virginia dall'altro capo di Skype sempre più preoccupata e sola nella presa in carico complessa di Mamadou.

Virginia: Nel frattempo Mamamdou conosce il suo tutore. Ricorderò sempre l’impressione strana che ebbi durante il colloquio. Quando lui si stava rifiutando di collaborare nel dialogo, il tutore gli dice che se non si comportava bene poteva anche essere rimandato nel suo Paese. Il primo pensiero ricade sul fatto che, non avendo ancora aggiornato il suo permesso di soggiorno e dovendo rifare l'audizione con la Commissione, Mamadou è ancora richiedente asilo e di fatto inespellibile. Glielo sussurro.

Nel frattempo passano i mesi. Resta salda la scelta che la cosa migliore per Mamadou sia venir trasferito in un progetto SPRAR per minori.

Alla mia proposta di seguire i suggerimenti derivati dal mio confronto con altri professionisti, e, quindi, di non lasciare Mamadou nella “casa dei grandi”, di non aspettare troppo tempo per mandarlo in uno SPRAR minori, visto che nella nostra regione non era presente, e di spingere con le istituzioni affinché sia accolto sul territorio dove è già presente una rete più vicina al suo periodo in Italia, non ricevo che silenzi. Si susseguono una catena di pratiche della sfera burocratica che lentamente si aggrovigliano attorno a Mamadou[11].

Mamadou viene convocato nuovamente dalla Commissione, ma lui quella mattina non sale in macchina e mi ripete più volte che non vuole ridire quello che ha già raccontato. Ma la Commissione vuole assolutamente risentirlo e così due commissari verranno di persona nelle stanze dei servizi sociali dove già Mamadou era stato per alcuni colloqui, per ripetere l’audizione.

Finalmente, dopo molte settimane si ottiene un nuovo esito della Commissione per portare Mamadou in questura, ma Mamadou non accetta di farsi foto-segnalare per i nuovi documenti da minore. Più volte tentiamo di andare in questura assieme; una mattina ci andiamo assieme al tutore ma Mamadou scappa: non vuole cambiare il suo permesso, lui già ce l’ha e non lo vuole cambiare. Ricordo che quella mattina, dopo la sua breve fuga dagli uffici della questura e dopo aver salutato poliziotti e tutore, lo chiamo. Era lì vicino. Accetta di mangiare un bombolone assieme, restando in silenzio e nascondendo lo sguardo in qualche sorriso.

Intanto proseguono gli incontri con l’assistente sociale, il tutore, il mediatore e me. Avvengono sempre nella cucina del centro di accoglienza. Arriviamo sempre insieme in casa, prepariamo noi le sedie in cerchio, ma quando Mamadou entra nella stanza prende la sua sedia e la sposta un po’ fuori dal cerchio, ed è sempre più evidente che non è contento di questi incontri dove tutti parlano, ma lui sta in silenzio e a malapena guarda negli occhi.

Daniela: I mesi passano e la dimensione del tempo è spesso evocata nella clinica delle migrazioni in particolare da Losi e Beneduce:

«un perenne rimanere in mezzo al guado una protratta liminalità: un non più e un non ancora che i ritardi delle istituzioni e le contraddizioni delle leggi dei paesi ospiti amplificano a dismisura e che come ha notato Malkki in rapporto all’esperienza particolare dei rifugiati e dei richiedenti asilo producono gradi intollerabili di incertezza e quello che ho altrove definito un tempo sotto assedio» (Beneduce 2007: 248).

Losi parla di uno stato di limbo per morti viventi perché inchiodati in uno statuto giuridico ed esistenziale non definito per lungo tempo (Losi 2010: 38). Ma il tempo sospeso è anche il tempo interno, il tempo dei processi affettivi e sappiamo che quanto più a lungo una persona si trova in solitudine ad affrontare la gestione di intensi stati ad affettività negativa, più aumenta il rischio di manifestazioni psicopatologiche.

Atto II

Virginia: Non sono più operatrice di Mamadou perché per motivi organizzativi del progetto vengo spostata di zona. L’ho rivisto, ma sempre meno. Sento però continui racconti su di lui e commenti del tipo: è solo un rompiscatole, fa i capricci, più di così noi cosa possiamo fare? Se dice di essere maggiore che se ne vada. E come in una profezia che si auto adempie un giorno Mamadou scompare. Penso a dove possa essere andato e lo immagino incastrato in un labirinto, generato da barriere che impediscono una effettiva presa in carico, a conferma di quanto «la modernità e la democrazia esercitano il proprio dominio attraverso l’amministrazione della quotidianità e attraverso la sorveglianza sui corpi individuali e sul corpo sociale, adattandoli entrambi a gerarchie normalizzanti» (Ong 2005: 88).

Daniela: Losi (2010) porta l’attenzione su come la coerenza della rete dei servizi psico-sociali può favorire la coerenza interna della persona. Quanto invece l’incoerenza del funzionamento dei servizi e della rete, la mancanza di coordinamento negli interventi, può rafforzare i processi dissociativi nella realtà intrapsichica della persona?

Francesca: È passato del tempo, sono tornata in Italia e adesso lavoro in un CAS. Un giorno ci chiamano di urgenza: pare che un ragazzino si sia introdotto in uno degli appartamenti che gestiamo. Si è piazzato sul divano e non si vuole muovere. La coordinatrice parla con l'operatrice di riferimento dell'alloggio: è Mamadou.

Mamadou non vuole uscire dalla casa. È scappato dalla comunità per minori dove era stato di recente accolto, e si è rifugiato nel primo alloggio dove ha dimorato in Italia, nel nostro appartamento del progetto CAS.

Sottili fili si tessono nella mia mente: è lui, è il ragazzino delle telefonate preoccupate di Tijuana. Chiamo Virginia e le dico che Mamadou è qui e non si vuole muovere dall'appartamento. E lei mi racconta. Mamadou è stato lasciato per mesi in un progetto per adulti dopo svariato tempo, non essendo potuto entrare nello SPRAR minori in tempi brevi perché senza documenti da minore, è fuggito dal progetto dove lavorava Virginia per poi essere ritrovato e infine inserito in una comunità per minori non accompagnati. Lì Mamadou ha iniziato a manifestare sempre più segni di sofferenza, che esternava con continue fughe, il rifiuto di partecipare ai corsi di italiano e alle attività proposte dal progetto. Compare e scompare, a volte cerca di entrare nel primo appartamento dove era stato accolto. Un giorno spacca un vetro di una finestra per introdursi all’interno. Riportato in comunità per minori iniziano le visite a psichiatria, un trattamento sanitario obbligatorio, ancora fughe, giorni e giorni di cui non si hanno sue notizie.

Daniela: Sappiamo che sentirsi soli, senza via di uscita, non capire quello che ci sta succedendo e sentirsi traditi sono quattro condizioni con cui si attiva un assetto di vita psicopatologico. E nel momento in cui gli eventi critici sono importanti, ripetuti e/o multipli, i sistemi dissociativi guidano il funzionamento del sistema persona, nel tentativo, pur se disfunzionale, di difendersi da intensità non altrimenti fronteggiabili, di angoscia e paura.

Atto III

Francesca: Estate 2016, fa un caldo pazzesco, fra luglio ed agosto siamo rimasti in pochi a lavoro, le nostre teste rallentate dalla canicola. Una operatrice chiama allarmata, pare che Mamadou sia di nuovo lì. Non entra perché gli ospiti non aprono la porta, hanno ricevuto dalle istituzioni competenti una diffida a farlo entrare: se gli aprono la porta loro perdono il posto. Se lo aiutano perdono il diritto ad essere accolti. Mamadou si è piazzato sul pianerottolo, non si muove. Indossa due piumini, ha le unghie molto lunghe ed evidentemente non si lava da giorni. I ragazzi e l’operatrice preparano del cibo e dell’acqua. Tentano di farlo parlare o mangiare, ma lui è una statua. Tutto sudato sotto i due piumini, ci saranno 35 gradi, ma lui non se li toglie. Non accetta né cibo e né acqua. L’operatrice è preoccupatissima, Mamadou è in evidente stato di denutrizione e con quel caldo rischia di collassare se non assume dei liquidi. Viene deciso di chiamare l’ambulanza e nel frattempo di avvertire i servizi sociali del comune dove è situata la comunità che ha in affido Mamadou. Sono le 16 e dal centralino rispondono che l’assistente sociale non è in ufficio e che bisogna richiamare domattina. L’ambulanza arriva, ma senza medico a bordo e i due volontari dopo un colloquio frettoloso decretano che Mamadou non sta male e che non è da ricovero. Poco importa se l’operatrice spiega che è un minore affidato ai servizi e che si trova in queste condizioni da giorni.

Vengono avvisate a quel punto le forze dell’ordine. Intervengono i carabinieri di un paesotto dove di queste scene non se ne vedono spesso. A quel punto chiamano loro stessi la comunità e viene inviato un operatore stanco e poco informato, che non conoscendo Mamadou ha paura a “caricarselo” in macchina. Viene decisa una scorta dell’auto dei carabinieri.

Mamadou però non si muove. È un pezzo di marmo, completamente ibernato nel suo isolamento. Vuole stare lì, la sua prima “casa” in Italia. Dopo vari tentativi di dialogo i carabinieri lo spostano di peso, Mamadou inizia a opporre resistenza e volano calci e morsi. Mamadou nei suoi due piumini che lotta disperatamente per non farsi spostare. Ha solo il suo corpo per opporsi ai percorsi proposti, essendo assente la sua voce in tutta la vicenda della presa in carico fallita. Proprio attraverso il suo corpo mette in pratica tattiche oppositive che si manifestano in fughe e resistenze[12] (Saitta 2015). Queste apparentemente contrapposte si incorporano negli atti ossimorici dell’immobilità totale associata all’erranza continua che hanno caratterizzato l’ultimo tempo di Mamadou a noi conosciuto. L’operatrice e gli ospiti interdetti guardano i tre uomini in divisa che atterrano Mamadou e lo spingono nell’auto dell’operatore: ce l’hanno fatta, caricato in macchina lo rispediscono al mittente. In questo confronto è assente qualsiasi “via terzista” e il campo assume la valenza di uno scontro di volontà impari, assoluto e a somma zero dove «le politiche pubbliche e private non sembrano volte al compromesso: esse patologizzano le istanze di campo» (Saitta 2015: 13).

Ci giunge voce che in quel viaggio verso la comunità Mamadou non abbia emesso suono e che all’arrivo non si sia voluto muovere dalla macchina. Ci giunge voce che Mamadou non sia voluto rientrare in struttura e che si sia incamminato da solo verso destinazione ignota. Circolano e-mail con scritto che “il caso è troppo complesso”. Ci giunge voce che Mamadou sia scappato e sia stato ritrovato innumerevoli volte. Ci giunge voce che gli ultimi incontri con le forze dell’ordine non siano stati semplici e non siano volate carezze. Ci giunge voce che Mamadou è stato avvistato alla mensa dei poveri, poi ai giardinetti su una panchina, poi di nuovo nel paesotto. Ci giunge voce che pian piano Mamadou non se lo è ricordato più nessuno, perso fra interventi e percorsi spezzati in un panorama in cui «le terapie che si susseguono si distribuirebbero lungo la storia come dei mezzi di guarire, curare o sopprimere, ma rimarrebbero in definitiva sempre e soltanto modi di nascondere» (de Certeau 1975: 354-355). A settembre 2016 nessuno sapeva dove fosse, nessuno si chiedeva perché non ricomparisse[13]. Fino a quella mattina di ottobre.

Virginia: Entro in ufficio. È il 3 ottobre. Sono le 8 di mattina. Mi chiama Francesca. Solo lei mi chiama a queste ore, sappiamo che è probabile essere tutte e due già in ufficio, o quanto meno in viaggio. Mi chiede se ho letto il quotidiano. Un giovane migrante trovato morto in un bosco. Il corpo staccato dalla testa. Viveva in un rifugio di fortuna. Non se ne conosce la causa, ma probabilmente è un suicidio.

Chiamo subito Daniela e il medico della Ong. Poi, piango di rabbia. Ci sentiamo via messaggio. Non sappiamo se sia lui ma sappiamo tutte che lo è.

Di nuovo un suicidio. Di nuovo un migrante che non regge le difficoltà della vita in Italia.

Daniela: Quello che a me rimane di questa storia, l’aspetto dolente e il carico di riflessioni non ancora concluse è l’incapacità da parte di tutti noi che con lui siamo entrati in contatto, di accompagnarlo nel passaggio “dall’erranza alla stabilità” (Idris 2016). Quel passaggio dal contesto in cui Mamadou era cresciuto e diventato un giovane al nuovo contesto, in cui il tempo non si è però aperto. E se i ricordi di questa storia si proiettano nel futuro professionale, lo fanno richiamandomi alla necessità, negli interventi, di saper riconoscere i processi che nel tempo e a tutti i diversi livelli sono in atto; perché se il suicidio si rende evidente con la morte del corpo, la morte dei legami, delle relazioni e l’impossibilità di trovare e attribuire un senso agli eventi, anche in Mamadou, sempre precedono l’evento finale.

Epilogo

Virginia: Minore, maggiore, bugiardo, plagiato, con problemi cognitivi, pauroso, migrante, rifugiato, clochard, da tso, suicida... Come nel labelling di Zetter (2007: 2), Mamadou ed il suo corpo hanno subìto un processo di formazione, trasformazione e (de)politicizzazione tali da poterlo ridurre ad un trafiletto di giornale dove le notizie si confondono col silenzio.

Ma, ripensando alla vita e alla morte di Mamadou, gli strati di classificazione che sono stati prodotti nel tentativo di governarlo hanno portato ad una frammentazione tale da renderne impossibile la sopravvivenza all’interno di un sistema che diviene «specchio delle regole, delle necessità e delle paure dell’Occidente» (Manocchi 2012: 32).

E da qui scaturisce il disincanto. Esso non risiede soltanto nella rottura dell’illusione che Mamadou avrebbe potuto forse avere una vita dignitosa in Italia. Il disincanto rappresenta la cruda consapevolezza di trovarci all’interno di un sistema che non solo non è stato in grado di prendersi cura di lui, ma che lo ha espulso perché non si è incasellato come doveva.

Francesca: In questo momento il corpo senza vita di Mamadou giace in una cella frigorifera dell’obitorio a Firenze[14]. Dopo il ritrovamento del suo cadavere c’è stata un po’ di agitazione da parte di chi avrebbe dovuto, qualche scambio di email in cui chi doveva e poteva alzava le mani sui fatti accaduti, qualche telefonata concitata per capire quanto si sapeva e cosa si sapeva. Sono comparsi trafiletti sulle cronache locali, anche di testate importanti, in cui si decantavano le lodi dei servizi che nulla hanno potuto contro il “male oscuro” di Mamadou. Tutte le figure coinvolte, l’illustre psichiatra, il maresciallo dei carabinieri, il compassionevole assistente sociale, come in un Pinocchio allucinato e dal finale tragico che sentenziano “non era minore”, “era psichiatrico”, “era troppo difficile”, a cercare l’etichetta più pesante da potergli affibbiare, nel tentativo di camuffare «dimensioni morali e politiche della sofferenza e della cura, dimensioni spesso occultate da una psichiatria alla ricerca di un frettoloso consenso» (Beneduce 2010: 14).

Perché nel nostro stato di amnesia culturale, come molti autori hanno messo in luce, è lo «spazio egemonico della nozione di trauma» (Beneduce 2010: 13) che guida i nostri interventi, la produzione della condizione di vittima che permette una rappresentazione del conflitto sociale e del dolore in cui «non sono più i popoli oppressi dallo sfruttamento e dal dominio, ma le conseguenze psichiche e i traumi a attirare sempre più la nostra attenzione» (Fassin in Beneduce 2010: 14).

In questo impero del trauma, siamo tutti assolti, poiché il corpo della vittima reso muto ci permette di «eludere la questione morale e promuovere di fatto una alienazione dalla Storia» (Beneduce 2010: 10). Quindi, in definitiva nessuno è responsabile, perché il “male” di Mamadou era troppo grande, troppo oscuro, per permettere ai servizi di prenderlo in carico adeguatamente. Comodamente camuffante, per permettere di vedere le connessioni e gli interstizi della storia, nella sua storia. Mamadou adesso è quello che è sempre stato per l’Europa della democrazia: un corpo. Il corpo imperante della vittima, stoccato e numerato, ancora in attesa.

Conclusioni

La storia di Mamadou è fatta di un assordante silenzio: quello di un giovane che è approdato in Italia per chiedere asilo e che in questo Paese vi è morto solo e in un modo tanto triste quanto violento. Ma una «forma di comprendere il silenzio risiede nel verificare come frammenti della società possono essere silenziati, come può essere amministrato il silenzio attraverso l’esilio, l’imprigionamento, l’esclusione, l’isolamento» (Pereira, Gomes 2005:199).

Rimettere assieme i brandelli della storia di Mamadou rappresenta il tentativo di rileggere ciò che di lui abbiamo conosciuto al fine di poter analizzare e smascherare quei processi di silenziamento prodotti dal sistema asilo, e di come miopia e solitudine abbiano condotto la vita del giovane ad un epilogo estremo:

Nel caso dei richiedenti asilo, parlare di abbandono – particolare nel suo essere strettamente connesso ad una forma di estremo controllo – significa mostrare come lo stato con le sue istituzioni non sia esterno alla vita delle persone, ma responsabile nel lasciar penetrare violenza e sofferenza nella vita quotidiana di soggettività già marginali (Pinelli 2013 a: 93).

La storia di Mamadou ha «un intento politico, dunque, oltre che scientifico» (Pinelli 2013a: 14), ovvero quello di ri-collocare quei processi che, producendo miopia, creano e giustificano un reiterarsi di meccanismi di abbandono ed isolamento. Questi ultimi, andando di fatto in netto contrasto con quanto la letteratura e l’eredità di oltre vent’anni di esperienze nell’ambito dell’accoglienza e della presa in carico dei migranti forzati, trovano una giustificazione alla loro stessa esistenza nelle vulnerabilità di richiedenti asilo e rifugiati, oscurando quelle che in verità sono le vulnerabilità del sistema asilo, dello stato e dei suoi tentacoli burocratici che ne dettano politiche e pratiche quotidiane.

Il Servizio Centrale della rete SPRAR - citando Taviani ormai quasi dieci anni fa - sottolinea come i bisogni dei migranti forzati «sono bisogni complessi, che includono bisogni materiali (casa e lavoro), bisogni affettivi e di socializzazione, bisogni di cura, bisogni di significato» (SPRAR 2010: 27); la storia di Mamadou tuttavia non racconta di un sistema che parte dalla premessa di complessità in quanto strumento di elaborazione di un progetto individuale.

Papadopoulos (Renos, Papadopoulos 2006: 61) si interroga sul fatto che «poiché essere rifugiato non è una condizione patologica, a che titolo si è terapeuti?». Dalla storia di Mamadou la risposta che sembra emergere indica l’importanza di interrogarsi ogni volta non come singoli professionisti, ma come rete di servizi, sulle interrelazioni, sulla continua intersezione della sofferenza, del dolore e del disagio soggettivi con i nodi prodotti dai fattori storici, politici, giuridici, organizzativi. Si può così costruire una capacità di riconoscere, comprendere, testimoniare le modalità peculiari in cui quei fattori si incarnano, prendono corpo, parlano o tacciono e solo a partire da tale consapevolezza intervenire se necessario.

Nella storia di Mamadou il dispositivo del myopticon entra in gioco tramutando la complessità dei bisogni di un giovane nella complessità di governare e gestire un giovane, che si trova ad essere isolato e frammentato in un crescendo di etichette troppo pesanti per poter essere assolte in una scelta lineare e compliante, con un sistema di accoglienza che diviene espulsivo con quei soggetti che non si lasciano assoggettare, o non sono in grado di farsi assoggettare.

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[1] Il presente contributo nasce da un intervento a tre voci presentato durante il IV Convegno della Società Italiana Antropologia Applicata di Trento nel dicembre 2016 in cui abbiamo riportato le nostre riflessioni, nate da una esperienza comune di lavoro nel campo del sistema di accoglienza dei rifugiati in Italia.

[2] Rispetto all’utilizzo di una singola storia – genericamente indicabile come case-study, termine che decidiamo volontariamente di non utilizzare – si vedano Bellagamba (2013) e Jourdan (2012).

[3] Sono numerose le pubblicazioni e la letteratura specificatamente dedicata alla dimensione emotiva ed individuale del ruolo di operatori che lavorano nei centri di accoglienza. Si veda a tal proposito Graham (2003), Kobelinsky (2011), Sorgoni (2011a).

[4] In questo testo useremo il concetto di migrante forzato per specificare la condizione del sistema di accoglienza entro cui si avvicendano gli eventi narrati, ma vogliamo sottolineare come oggi sempre di più la distinzione imposta da categorie come migrante economico e migrante forzato siano sempre più messe in discussione e separate da sottili confini.

[5] Per approfondimenti relativi al concetto di soggettività si vedano: Das e Kleinman (2000), Ortner (2006) e Moore (2007). In questo testo ci limiteremo a chiarire la nostra accezione più fortemente connotata dalla dimensione politica sebbene «la soggettività sia descritta (anche) come un’esperienza intimamente vissuta dal soggetto» (Pinelli 2013: 12).

[6] In Italia gli istituti competenti per la determinazione della protezione internazionale sono le Commissioni Territoriali per il Riconoscimento della Protezione Internazionale che si trovano su tutto il territorio nazionale. Per maggiori informazioni e approfondimenti si veda il sito http://www.interno.gov.it.

[7] L’accertamento dell’età non si basa soltanto sulla produzione di documentazione anagrafica, ma laddove è ritenuto necessario, anche sullo svolgimento di accertamenti clinici, che si concentrano sulla lettura dello sviluppo del corpo del presunto minore.

[8] Il mio incontro con Mamadou avviene attraverso la collaborazione con una Ong ed il mio lavoro nell’équipe multidisciplinare che svolgeva gli incontri di ascolto con richiedenti e titolari protezione internazionale per preparare relazioni relative alla minore età di ragazzi segnalati in accoglienze CAS e SPRAR.

[9] SPRAR sta per Sistema di Protezione per Richiedenti Asilo e Rifugiati, istituito con l’art. 32 l. n. 189/2002; al momento in cui sono avvenuti gli eventi narrati in questo brano, la rete SPRAR contava all’incirca 21mila posti di accoglienza a livello nazionale. I progetti SPRAR si suddividono nell’accoglienza di categorie ordinarie e vulnerabili. Le categorie vulnerabili vengono indicate nella Direttiva 2013/33/UE del Parlamento Europeo e del Consiglio, recante norme relative all’accoglienza dei richiedenti protezione internazionale (rifusione)”. Essa riporta, nel Capo IV all'Art. 21, la seguente definizione riguardante le categorie vulnerabili: «gli Stati membri tengono conto della specifica situazione di persone vulnerabili quali i minori, i minori non accompagnati, i disabili, gli anziani, le donne in stato di gravidanza, i genitori singoli con figli minori, le vittime della tratta degli esseri umani, le persone affette da gravi malattie o da disturbi mentali e le persone che hanno subito torture, stupri o altre forme gravi di violenza psicologica, fisica o sessuale, quali le vittime di mutilazioni genitali femminili». Nella specifica esperienza dell’accoglienza SPRAR i minori stranieri non accompagnati vengono accolti in progetti debitamente dedicati. Per maggiori approfondimenti si rimanda al sito http:www.sprar.it.

[10] Questo episodio rappresenta uno dei primi momenti che si susseguiranno tra loro come in un’ascesa verso il culmine. La dimensione della vulnerabilità di Mamadou in quanto minore non accompagnato viene sempre più sopraffatta da altre etichette che meglio ne giustificano la fuori uscita dal sistema di presa in carico. In particolare, e come vedremo di seguito, partendo da “soggetto con problemi cognitivi” a “soggetto affetto da disturbi psichiatrici”.

[11] Per avviare la segnalazione ufficiale allo SPRAR minori è necessario che Mamadou sia in possesso del permesso di soggiorno aggiornato con la data di nascita corretta, che lo identifichi come minore. Diviene fondamentale e urgente quindi che Mamadou ritorni in questura per ottenere il rilascio di un nuovo permesso con la data corretta, sottoponendosi alla foto segnalazione, necessaria per l’archiviazione svolta dalle questure che registrano le impronte digitali e le foto dei migranti presenti sul territorio italiano. Al fine di potersi sottoporre alla nuova foto-segnalazione Mamadou deve consegnare alla questura l’esito della Commissione Territoriale con la data corretta, perché la certificazione medica non è sufficiente.

[12] Saitta (2015) ci ricorda che nell’etimologia della parola resistenza è presente l’idea di restare fermo.

[13] Riferendosi ai percorsi dei richiedenti asilo Ciabarri e Pinelli parlano di un vero e proprio «abbandono istituzionale» che imbriglia in «maglie feroci» fatte di «attese protratte, rituali burocratici, abbandono, marginalità sociale ed economica» (Pinelli, Ciabarri 2015: 11)

[14] Al momento della presentazione presso il Convegno SIAA 2016 non era stata ancora svolta la cerimonia di sepoltura di Mamadou, cosa avvenuta alcuni mesi dopo.