Tra attivismo militante, mandato professionale e posizionamento di ricerca

Considerazioni e proposte su l'operatività congiunta nell'accoglienza dei richiedenti asilo

Martina Mugnaini

Institute of Advanced Studies of Koszeg

Table of Contents

Il contesto: i professionisti dell’accoglienza
Correlazione tra esperienza di campo e interpretazione dei dati
Ostacoli alla ricerca: il ruolo gerarchico ricoperto e il fattore lealtà all’organizzazione
Proposte
Bibliografia

Abstract. This contribution attempts to bring into focus an explanation on the categories of professionals involved in the Italian reception system for asylum seekers to unveil the interconnections overlapping their professional actions and to offer a interpretative frame for the following remarks. Through a report of a personal professional experience to disclose the intricacy deriving from dual stances and concepts, I stress three considerations deriving from the figures I simultaneously carried out in a reception centre: the one depicted by the mandate as head of projects for social insertion as intercultural mediator, the other as executive director, and the third one, as researcher, in order to probe the impact of the social planning implemented. Briefly, these assumptions consist on a set up of remarks: a proportional relationship between job experience and capability of interpretation of the research data; an inverse relationship between the hierarchical position covered and the level of trust given from interlocutors, and finally, a high probability to fall into operative clashes due to different professional ethics, which can bring to particular professional positions. Conclusively, as a response of this personal work and research experience, I propose an operational process, which could be carried out in collaboration with all the stakeholders involved in the reception system; this means professionals, migrants and local communities, with the aim to reduce the today's inefficiency of the migrants reception model.

Keywords: Accoglienza; ricerca-azione; operatori sociali; organizzazioni umanitarie; richiedenti asilo

Il contesto: i professionisti dell’accoglienza

L’Italia, coinvolta sin dal 2000 in modo costante nella ricezione di migranti provenienti dalla rotta Libia-Lampedusa, sebbene in numeri e forme ben differenti rispetto a quanto il linguaggio mediatico voglia comunicare (Ciabarri 2013), ha visto molti dei suoi professionisti e studenti intraprendere a vario titolo percorsi di formazione e di conseguente inserimento lavorativo all'interno dei circuiti dell'accoglienza di richiedenti asilo e rifugiati. Sebbene da quasi un ventennio il flusso migratorio risulti un fenomeno tutt'altro che contingente, la perdurante risposta emergenziale dei regimi istituzionali e politici si palesa essenzialmente attraverso due primarie tipologie di effetti. L’uno, di carattere giuridico-normativo, intesse la rete strutturale entro la quale porre in atto pratiche ed interventi, e l’altro, per derivazione, procedurale o tecnico-operativo. Agendo perciò entro una cornice normativa al contempo debole, con falle attuative, e granitica, in ambito sociale l'azione per l'accoglienza delinea fallaci programmazioni per l’interazione tra comunità, in un'assenza di strategie di sviluppo locale che possano definirsi sostenibili.

Da un punto di vista squisitamente operativo, invece, l’inefficienza della gestione dell’accoglienza è causata in via prioritaria da una formazione a basso profilo del professionista di settore. La formazione dei tecnici di campo si presenterebbe invece quale preliminare e non accessoria previsione procedurale per la connotazione di figure qualificate capaci di prendere in carico lo sviluppo di processi socio-politici di elevata complessità. Di fatto, nella pratica di campo, è piuttosto verosimile incontrare figure professionali che vantano scarse conoscenze dei contesti sui quali agiscono, incapaci quindi di dispiegare strumenti professionali efficaci per l'implementazione delle loro funzioni.

Nel sistema dell'accoglienza questa difficoltà operativa viene poi rinforzata da una logica figlia della cultura dell'impresa privata, fondata sul concetto di ottimizzazione delle risorse, in virtù del principio “minore sforzo con il massimo rendimento”.

Nella realtà dei fatti, ciò è consustanziato da incarichi polifuzione o sotto-inquadrati rispetto alla formazione del professionista. Molti tra i cosiddetti “operatori generici”, come anche educatori, psicologi, assistenti sociali, vengono difatti spesso costretti allo svolgimento di complessi e diversificati ruoli simultaneamente. Spesso, potendo fare appello a irrisorie formazioni specifiche di settore, alcuni operatori incontrano dunque consistenti difficoltà operative nello svolgimento delle loro mansioni.

In altri casi, alcuni incarichi generici vengono assegnati a personale altamente qualificato. Da un punto di vista del posizionamento professionale questi meccanismi si palesano nell'incapacità di rappresentare se stessi all'interno del gruppo di lavoro. Molto spesso, durante il mio mandato di responsabile di un centro di accoglienza, ho riscontrato la necessità di molti dipendenti di palesare la loro frustrazione comportata dalla difficoltà di rappresentare la loro funzione all'interno del gruppo.

S., un'insegnante di italiano laureata in pedagogia, entra in ufficio. Sbatte un grande rotolo di carta sulla mia scrivania mentre racconta: «Io sono laureata, ho un dottorato di ricerca, e qui, non mi fate fare niente. O mi fate fare cose che non c'entrano niente con quello che dovrei fare...»[1].

Spesso i responsabili di area non possono apporre modifiche alla strutturazione del personale, dovendo rispondere a inquadramenti e contratti precedentemente stabiliti dai responsabili dell'organizzazione stessa. Da una seconda angolazione, alcuni professionisti ad alto profilo, quali medici e avvocati, seppur dimostrando un’alta preparazione tecnico-professionale, manifestano spesso scarse capacità comunicative e di interazione empatica, competenze non opzionali per la costruzione del sistema di fiducia, funzionale ad un efficiente dispiegamento delle pratiche burocratiche e normative a loro carico. Sia gli operatori generici che i professionisti altamente qualificati dimostrano così scarse competenze “trasversali”, quali i metodi di comunicazione interculturale, i sistemi comunicativi non violenti, la comunicazione non verbale, le tecniche di peace building e le strategie cooperative win-win (Spangler 2013); tutte credibili e sperimentate metodologie funzionali alla riduzione e prevenzione del conflitto sociale, sia sommerso che diretto.

Personalmente ho potuto registrare questo dato in relazione all'operato degli assistenti legali competenti nella presa in carico giuridica dei richiedenti asilo, i quali, non solo in molti casi non riuscivano ad innescare un rapporto di fiducia virtuoso con i propri assistiti, ma non parlavano la loro lingua, portando i beneficiari del progetto a lamentarsi dell'assenza di competenze degli stessi.

Queste carenze “trasversali” nella preparazione professionale, comportano gravi disfunzionalità strutturali delle organizzazioni dell'umanitario (Walkup 1997). Sebbene in buona parte dei casi l’operatore apporti all'organizzazione un contributo leale e sincero e al meglio delle capacità professionali possedute, gli effetti di una scarsa formazione rafforzano il senso d’impotenza tanto degli operatori, quanto dei richiedenti asilo. La responsabilità primaria e diretta di tale disfunzionalità ricade verosimilmente sugli organismi addetti alla promulgazione delle normative sugli standard di condotta operativa dei centri di accoglienza[2]. In secondo luogo sulle organizzazioni appaltatrici, che frequentemente evitano investimenti economici per la formazione del personale, tutelati dal liberismo normativo entro cui operano e dalle logiche delle “gare di appalto al ribasso economico”.

Una terza tipologia di esperto operante nel circuito dell’accoglienza, dimostra invece di possedere competenze professionali diametralmente opposte a quelle del professionista specializzato di campo. Il ricercatore indipendente che opera all’interno dell’organizzazione o di uno specifico progetto, apporta valutazioni teorico-scientifiche di altissimo approfondimento, spesso dispiegando durante la ricerca molti degli strumenti e delle tecniche comunicative sopra menzionate.

In talune elaborazioni teoriche però, tratti di astrazione e generalizzazione caratterizzano le deduzioni conclusive circa “l’esperienza del rifugiato” (Zetter 1991; Malkki 1995) e dell'operatore. Tale effetto è probabilmente in parte dovuto alla scarsa capacità di contestualizzazione delle informazioni rilevate ai mutevoli e sottili effetti che si dispiegano di volta in volta sul campo. Resta da dire che molte delle elaborazioni teoriche potrebbero apportare ingenti miglioramenti al sistema dell'accoglienza, ma non trovano applicazione pratica, scontrandosi con una sostanziale indisponibilità da parte degli enti gestori per una loro attuazione. Le effettive possibilità di applicazione delle proposte accademiche risultano piuttosto sporadiche, relegando la conoscenza scientifica ai margini dell’operatività diretta.

A conferma della complessità della realtà ordinaria, è poi possibile incontrare sul campo professionisti che svolgono simultaneamente mansioni e ruoli professionali diversificati e sovrapposti, i quali non di rado collidono tra loro per ragioni di etica personale e di mandato lavorativo. È il caso del ricercatore affiliato, che riporto in data sede perché vissuto personalmente.

La rassegna delle tipologie di operatori che operano all'interno del sistema italiano di accoglienza che ho voluto fornire fin qui, non intende soltanto offrire una fotografia di alcune falle del sistema operativo dell'accoglienza, né delineare una mera cornice di contesto al fine di inquadrare la mia esperienza, ma intende altresì legittimare le elaborazioni conclusive proposte. Se dunque queste tre categorie di figure professionali, operatori generici, professionisti qualificati e ricercatori operano di frequente in modo scollegato e parallelo, una loro interconnessione potrebbe portare a procedure di campo sperimentali e innovative, forti dell’esperienza pratica ed empirica al contempo.

Ho iniziato a collaborare all'interno del centro di accoglienza straordinaria in qualità di mediatrice interculturale, seguendo nello specifico progetti per la partecipazione attiva e l'inserimento sociale. La seconda fase lavorativa mi ha portato invece a svolgere la mansione di coordinatrice generale del centro. Parallelamente allo svolgimento della prima mansione, ho strutturato un percorso di indagine empirica in qualità di ricercatrice affiliata all’organizzazione. L’investigazione, strutturata dopo sei mesi dall'avvio dei progetti per l’inserimento sociale messi in atto, ha sottoposto ad analisi l’azione intrapresa, al fine di valutarne l’impatto e gli eventuali benefici apportati agli individui coinvolti. A conclusione di questo percorso, volontariamente interrotto all'incrementare della mia posizione gerarchica professionale, l'indagine si è invece focalizzata su un'analisi comparata tra metodologie gestionali di sette centri di accoglienza italiani, in questa fase in qualità di ricercatrice indipendente rispetto alle organizzazioni in studio. Le considerazioni qua apportate riguardano la prima fase di ricerca, condotta dunque come ricercatrice affiliata e mediatrice interculturale.

Le interviste sono state condotte in modo semi-strutturato in una prima fase e con modalità libera nella seconda. Le ragioni di questa scelta saranno trattate in seguito. Il campione d’indagine è di quaranta interviste, condotte ai beneficiari di progetto, operatori e volontari. Il periodo di osservazione partecipante è stato di circa otto mesi.

Il dover adempiere a ruoli lavorativi da un lato, e a posizionamenti di ricerca dall'altro, ha comportato la pianificazione di strategie plurime di governo delle visioni particolaristiche nonché una definizione di priorità tra dovere di mandato, etica personale e oggettività della ricerca. Ma non solo. I personali conflitti interiori, derivanti da una collisione tra ruoli, hanno necessariamente condotto ad una crisi valoriale tra paradigmi del sapere e dell'agire e dunque a scelte definitive di posizionamento professionale. Le principali considerazioni scaturite dall’esperienza di ricerca condotta sul luogo di lavoro sono in via prioritaria le seguenti.

Correlazione tra esperienza di campo e interpretazione dei dati

La prima valutazione rileva un rapporto direttamente proporzionale tra esperienza professionale di campo e capacità d’interpretazione interdisciplinare e trasversale dei dati rilevati. Il vissuto lavorativo quotidiano comporta l'acquisizione di concrete conoscenze sulle procedure amministrative effettive, le quali spesso divergono dalle normative legali di riferimento. In altre parole, l’operatività diretta offre una comprensione sulla disgiunzione tra teoria e prassi. A titolo di esempio, questo è tanto vero sia nello stiramento dei tempi di attesa per le udienze in Commissione Territoriale, per gli eventuali ricorsi ed appelli, che per i processi di inserimento scolastico dei minori da parte degli enti locali. Raramente normativa e procedura convergono, se non per processi di estrema rilevanza, e neppure in ogni caso. I dettami giuridici di riferimento, sebbene facilmente rinvenibili attraverso fonti documentarie, non riescono dunque a dare un quadro esaustivo delle effettive dinamiche socio-politiche che si dispiegano in tali dispositivi[3]. Pertanto, una preparazione teorica approfondita può portare ad una comprensione parziale dei meccanismi in atto all'interno dei sistemi dell'accoglienza. La complessa interpretazione dei dati di indagine necessita perciò di un’alta contestualizzazione di campo, peraltro attraverso l’utilizzo di metodologie e paradigmi afferenti a discipline scientifiche trasversali. In caso contrario, i dati rilevati non solo possono apparire incompleti o poco adattabili a deduzioni finali, ma potrebbero risultare in molti casi fuorvianti, portando a considerazioni erronee.

Il progetto in studio consisteva nella produzione di manufatti da rivendere alla comunità locale, principalmente cestini in vimini, articoli di pelletteria di riciclo e prodotti di falegnameria. I laboratori creativi erano organizzati all'interno del centro di accoglienza e gli elaborati finali venivano commercializzati durante gli eventi sul territorio o all'interno del centro di riferimento in caso di feste aperte alla cittadinanza. Molte delle duecento persone ospitate al centro non hanno preso parte alle attività proposte, mentre i partecipanti erano circa quaranta.

Qui adduco un controverso parametro di analisi che ho incontrato, e ammetto, snocciolato faticosamente.

Sulla variabile “partecipazione al progetto da parte della comunità ospitata dal centro” risultava che i partecipanti attivi appartenessero solo ad alcune nazionalità. Sebbene le valutazioni culturaliste apparissero chiaramente inefficaci, una risposta concreta sulle ragioni di ciò non risultava altrettanto lampante. Essa è emersa non solo dall'analisi delle interviste, ma soprattutto dalle contestualizzazioni trasversali, dalla valutazione di differenti parametri di influenza, comportati da considerazioni di tipo legale, burocratico e socio-politico. Ad esempio, è stato necessario evidenziare l'influenza del racket della criminalità organizzata, che coinvolge molti migranti sul territorio di riferimento, e che ha obbligato in maniera diretta molte persone di origine nigeriana a prenderne parte. Risulta chiaro che tale gruppo comunitario, essendo inserito in modo più o meno forzato all’interno dei circuiti illegali, spesso adempiendo ad obblighi imposti fin dal paese di provenienza, ha scarsamente partecipato ai progetti proposti.

J. non ha mai verbalizzato le ragioni circa la sua scarsa partecipazione alla vita del campo, ma spesso si allontanava dal centro all'alba con alcuni amici e rientrava solo nel tardo pomeriggio. Negli ultimi mesi era ombroso e schivo. Nessuno di noi operatori aveva la certezza di dove andasse. Alcune persone intervistate raccontavano di vederlo in città a chiedere denaro, ma fu la connessione con la rete anti-tratta a confermare quanto il racket nigeriano imponesse, rendendolo obbligatorio, il “lavoro” di J. e della sua comunità di appartenenza.

Inoltre, la volontà di partecipazione ai progetti aveva uno stretto legame con la percentuale di esiti positivi rilasciati dalle Commissioni Territoriali, che è in stretta relazione all’appartenenza nazionale. Una bassa probabilità di ottenimento di tutela internazionale in sede di Commissione, soprattutto nel caso di persone di età adulta, porta a vivere forti sentimenti di frustrazione, paura e senso di impotenza, fattori che predominano su qualsiasi slancio propositivo di investimento personale in progetti di inserimento sociale.

R. parlava spesso con me. Durante un laboratorio mi disse:

You know… what is not functioning, is like that... You know, I don’t know why things are like that, go like that, but you know... I mean in other places, other camps things function like… what we are in for… we are in for, we need papers, I mean, but here, here…. to have a paper is very difficult, like especially for the gambians...[4]

R. faceva parte di una delle comunità con il più alto tasso di esiti positivi. Partecipava assiduamente ai laboratori, e risultava essere un ottimo artigiano. Lasciò i laboratori quando ottenne un verdetto negativo dalla Commissione Territoriale, così come altre persone.

È risultato necessario analizzare anche le ragioni di spinta alla partecipazione di coloro che hanno collaborato attivamente. Ad esempio, molti membri della comunità bengalese, come quella gambiana, hanno in buona parte partecipato, ma per ragioni diverse, e dunque a progetti differenziati. La comunità bengalese ha avviato e condotto autonomamente progetti di sartoria, riuscendo a vendere alcuni prodotti confezionati, mentre, quella gambiana ha partecipato a quasi tutte le attività proposte, soprattutto quelle ricreative, sportive e musicali. Per comprendere le ragioni collettive di partecipazione, è stato necessario analizzare i fattori di spinta migratoria in senso geopolitico, ossia i cosiddetti pushing factors.

La comunità bengalese, costituita principalmente da maschi adulti, porta spesso motivazioni di emigrazione dal Bangladesh di tipo economico. Molti tra i migranti bengalesi, sono i diretti responsabili delle entrate finanziarie per le loro famiglie di origine. La rimessa rappresenta in questo caso l'obiettivo primario in attesa dell'udienza. Per tale ragione, le attività d’interesse erano quelle di tipo economico, che potessero offrire possibilità di guadagno, seppur irrisorio. Infatti, dal momento in cui il progetto ha perso molti dei suoi potenziali acquirenti, a causa dell'impossibilità di vendere i prodotti fuori dal centro di accoglienza per ragioni fiscali, la comunità bengalese ha diminuito la sua partecipazione al progetto d’inserimento sociale, concentrando le proprie energie nella ricerca di un lavoro.

Nel caso di affluenza al progetto da parte della comunità gambiana, è risultato invece che le attività partecipate non erano necessariamente quelle legate ad un ritorno economico diretto. Trattandosi nella maggior parte dei casi di partecipanti tra i 18 e i 25 anni, non rappresentavano quasi mai una fonte di sussistenza finanziaria per le famiglie di origine. Inoltre, tale comunità, ottenendo una forma di protezione internazionale in una buona percentuale di casi, investiva il cosiddetto “tempo dell'attesa” in attività sociali varie, dando priorità alla possibilità di intessere relazioni umane e reti sociali quale strategia collettiva per l’inserimento nella nuova società. Per tale ragione, il gruppo di riferimento ha partecipato ad ogni tipo di attività sociale che potesse dare loro questo tipo di opportunità.

Sebbene queste deduzioni debbano essere considerate come la fotografia parziale, uno spaccato delle molteplici dinamiche interne al centro in studio, non considerando poi le motivazioni e le scelte personali di ogni singolo individuo, esse sono risultate utili all'interpretazione dei dati estrapolati. Nel mio caso, la loro maturazione è avvenuta grazie al coinvolgimento diretto e costante sul campo, non solo in qualità di ricercatrice, ma anche e soprattutto di operatrice. La funzione lavorativa infatti mi ha di fatto esposta a procedure che hanno assottigliato le discrepanze tra norma e prassi, dandomi la possibilità di contestualizzare le dichiarazioni rese dai miei interlocutori.

Ostacoli alla ricerca: il ruolo gerarchico ricoperto e il fattore lealtà all’organizzazione

Una seconda considerazione registra al contrario un rapporto inversamente proporzionale tra fiducia accordata dagli interlocutori, con conseguente capacità di raccolta dei dati ed incremento del ruolo gerarchico ricoperto all'interno dell'organizzazione. La libertà comunicativa degli interlocutori è infatti collegata al ruolo professionale ricoperto dal ricercatore affiliato, nel mio caso quello di mediatore. Voglio qui dare per garantito, sebbene non per scontato, ed esclusivamente ai fini della discussione, che il mediatore culturale possiede avanzate doti comunicative e di facilitazione sociale da dispiegare in campo. In virtù di ciò, tale figura viene spesso considerata dalla comunità migrante come parte integrante della stessa e, spesso, ritenuta quale l'anello mancante tra essa e la società locale, nonché l'unica capace di avanzare a livello pubblico le istanze della comunità stessa. Avendo avviato la mia professione in tale veste, mi è stata accordata una solida fiducia di base, che ha facilitato i processi comunicativi in sede d’intervista, non incontrando atteggiamenti di diffidenza. Questa fluidità comunicativa, palesata dalla raccolta di numerose opinioni e storie personali, è stata controbilanciata però da una certa “forzatura” in molte delle dichiarazioni rilasciate, spesso in un certo senso volte a fornire la “risposta corretta” ai quesiti posti. Il lecito interesse dei miei interlocutori nel fornire la giusta risposta non è risultato correlato al timore di un mio possibile giudizio in merito. Alla base di ciò vi è infatti un’altra motivazione, quella che Walkup chiama “lealtà all'organizzazione” (Walkup 1997), riferendosi però agli operatori dell'umanitario. La lealtà all'organizzazione non appartiene solo agli operatori ma anche, e forse in misura maggiore, ai migranti. Quale atteggiamento esteso e diffuso, è innescato da un sentimento comune di base, la paura, che ritengo essere prodotta da un forte senso di frustrazione, causato dall’impossibilità di agire scelte autonome all’interno di tali contesti. Qui la norma è imposta, la contrattazione sociale flebile se non illusoria. Ebbene, il professionista deve attenersi al codice dell'organizzazione per evitare la paura del licenziamento e il migrante a quello dell'accoglienza per evitare, o in questo caso minimizzare, la paura del probabile diniego in Commissione Territoriale o dell'espulsione dal centro per cattiva condotta. La logica distorta imposta da un'accoglienza assistenzialista, secondo la quale la buona condotta porta a una maggiore possibilità di ottenimento di un esito positivo in Commissione Territoriale mi è stata restituita da molte intervistati.

Ad esempio, nel chiedere a L., un artigiano del progetto, quali fossero gli aspetti che secondo lui avrebbero potuto essere rivisti all'interno dei laboratori la risposta fu: «I like everything in XXX, the project is good. The camp XXXX is good...»[5]. Avevo parlato spesso con L. al di fuori dell'intervista e dunque conoscevo le sue idee per l'innovazione e l'ampliamento del progetto. Nel contesto dell'intervista però non solo erano state adombrate le critiche, seppur costruttive, verso il progetto, ma il mio interlocutore si sentiva chiamato ad esprimere una valutazione qualitativa verso l'organizzazione stessa. Ne deriva che le opinioni apposte risultassero plasmate dal timore di esprimere una valutazione spontanea sul sistema, delineando una artefatta quanto necessaria lealtà all'organizzazione.

In secondo luogo mi è necessario esprimere una valutazione sull'impatto della metodologia utilizzata per la ricerca in tali contesti.

I migranti coinvolti nel processo di richiesta di asilo sono costantemente e letteralmente bombardati da un meccanismo burocratico che può essere considerato il “sistema delle domande” per eccellenza. I richiedenti asilo affrontano domande per la compilazione del noto “Modello C3”, per la stesura della storia personale, per ottenere una tessera sanitaria, una carta di identità, le quali scadranno dopo pochi mesi se non settimane, domande per il loro rinnovo, per un permesso di soggiorno provvisorio, domande in sede di udienza, di ricorso, di appello e così via. Personalmente, ritengo dunque che la procedura di intervista ad un migrante coinvolto nel processo di richiesta di asilo, si situi al limite tra lecito e violenza, sia simbolica che strutturale. Tale processo, rischia di divenire piuttosto lesivo quando essa è condotta da un professionista affiliato, attivo cioè anche in veste di dipendente interno all'organizzazione. Nello specifico, ritengo che tale procedura leda un diritto umano, quello della libertà del migrante di rappresentare a se stesso la nostra funzione in quel dato frangente. In altri termini, il migrante ha il diritto di sapere chiaramente quale figura stiamo ricoprendo in quel dato momento nei suoi confronti, come e per quale ragione. Con l'aumentare del grado gerarchico dell'operatore, la fiducia dell'interlocutore diminuisce esponenzialmente. Dunque, nel caso in cui si ricoprano funzioni di coordinamento, ma anche di diretta influenza nel processo di richiesta di asilo, come quella di consulenza legale, psicologica o di assistenza sociale, ritengo personalmente che la ricerca non debba essere condotta. In tal caso infatti la violenza esercitata risulterebbe di tipo diretto, non lasciando all'interlocutore alcuna scelta nel rispondere o meno alle domande poste, debitamente ad un’evoluzione esponenziale del timore sopra citato.

Interconnessioni tra morale, codice professionale e cultura dell’organizzazione. Un'ultima considerazione riguarda il ruolo dell'etica, non tanto in termini ontologici o puramente soggettivi di origine morale o valoriale, tematiche in questa sede ardite e fuorvianti. La componente etica alla quale afferisco, origina dall’intersezione di tre variabili: i codici etici di condotta professionale, la «cultura etica dell’organizzazione» (Walkup 1997: 39), ai quali è necessario attenersi, e una morale del tutto soggettiva. La tensione che scaturisce tra le due etiche professionali e la volontà personale darà forma all'azione diretta, che risulterà tanto più efficace e distesa quanto più l'affinità tra le tre componenti sarà forte, dando vita, assieme ad altri parametri, a ciò che viene comunemente definito “autorealizzazione professionale”.

Il codice etico del mediatore professionista differisce di gran lunga dal codice di condotta di un dirigente di organizzazione, il quale spesso si trova a dover agire tra imposizioni legislative e “valori” aziendali che lasciano un irrisorio spazio alle interpretazioni personali e a scelte morali soggettive. In questo caso, il codice professionale e la cultura dell’organizzazione prevalgono sui posizionamenti individuali. Sotto questo punto di vista, il mediatore ha una maggiore libertà di scelta etico-procedurale nella conduzione delle proprie mansioni lavorative.

Una caratteristica spesso condivisa dai mediatori che ho incontrato sul campo, è delineata da un elevato livello di militanza, interpretabile in un certo senso come un'espressione diretta dell'etica personale. Spesso però, essa differisce dal codice di condotta dell'organizzazione, portando a gravi “dilemmi etici” (Walkup 1997: 41).

In questo senso, il mio ordine valoriale ed etico ha subito un'influenza ferrea dal codice di condotta imposto dalla posizione di direzione ricoperta. In questa seconda veste professionale è stato pertanto difficile poter esprimere un'azione proporzionale al codice etico personale.

Durante una contestazione interna al centro di accoglienza intervenne la polizia di Stato. Furono registrati nomi e immagini dell'accaduto che determinarono l’espulsione imposta ad alcuni esponenti della manifestazione. Sebbene la mia volontà corresse verso soluzioni meno drastiche per la risoluzione del conflitto, mi sono trovata a dover rispondere, su richiesta istituzionale, al mandato di coordinatrice del centro, gestendo la documentazione ufficiale di espulsione. Pertanto, in molte situazioni di campo, il codice personale si depaupera a discapito della volontà personale. Ciò è tanto vero quando si ricopre un alto ruolo gerarchico, quanto lavorando in qualità di ricercatore affiliato.

Dal punto di vista della ricerca ciò si traduce in una mancanza di libertà di espressione. Nel mio caso specifico, la ricerca si è trovata così spesso assoggettata alle volontà della direzione di organizzazione, che faceva appello alla necessaria lealtà all'organizzazione. Fu così che, ad esempio, la stesura del mio precedente articolo fu sottoposta al vaglio del direttore generale, il quale impose modifiche ai miei testi, pena il divieto di pubblicazione.

Spesso, le ricerche condotte in qualità di ricercatrice affiliata avrebbero subito “revisioni” in corso d'opera, se non mi fossi scardinata, al momento della stesura definitiva dei miei elaborati, dalla dipendenza dall'organizzazione.

Esistono infine tratti comuni tra la militanza etica del mediatore e quella del ricercatore attivista, evidenziati già negli anni Novanta dalle considerazioni di Scheper-Hughes, che rifiuta il distaccamento da passiva oggettività dell'antropologo a favore di un attivismo militante (Scheper-Hughes 1995). Nonostante ciò, vi sono sostanziali differenze tra le due spinte alla militanza e alla conseguente azione diretta, che possono comportare nel tempo definite scelte di posizionamento nel caso si ricoprano entrambi i ruoli.

La militanza del mediatore è caratterizzata da un elevato livello di attivismo empatico e di coinvolgimento emotivo diretto, vissuto in modo costante nel tempo all'interno dell’organizzazione. L'empatia è talmente alta da portare in molti casi a situazioni di burn out. Inoltre, la sua azione deve avere un costante livello di reattività di risposta alle pressanti problematiche che si trova a dover risolvere quotidianamente. Tale militanza risulta così l'effetto di un processo empatico non filtrato e non rielaborato, principalmente per mancanza di tempo, ma anche di strumenti tecnici. Inoltre, sempre in accordo con gli elaborati di Walkup, è necessario aggiungere che, talvolta, l'operatore sociale sceglie di collaborare nel settore dell'aiuto umanitario per ragioni di redenzione personale rispetto a vissuti propri. Così,

molti nuovi operatori umanitari sono entrati a lavorare sul campo per sfuggire al dolore di un rapporto personale fallito recentemente e cercano una personale guarigione, mentre altri hanno sostenuto che essi si sentono come se non si conformassero o fossero accettati dalla loro società di provenienza o dalla famiglia, stando così cercando se stessi[6].

La militanza del ricercatore può utilizzare invece strumenti specifici, al fine di avviare processi di auto-riflessività quale capacità autocritica, e metodi per la corretta elaborazione dei dati raccolti, rappresentati principalmente dal distacco dal campo d’indagine, con l'obiettivo di un riposizionamento personale a conferma delle teorie da proporre. A sostegno di ciò, Mosse ricorda che «come Malinowski ci ha insegnato, è stato necessario consentire una certa separazione dei fatti dalle interpretazioni, per essere certi circa l'effettivo lavoro di indagine (...) su cui si basavano le mie teorie generali» (Mosse 2006: 949) [7].

Le difficoltà effettive incontrate sul campo sono state connesse dunque a duplici binari deontologici. In primo luogo, nel mio caso specifico il codice etico del mediatore ha urtato con il codice di condotta del dirigente. Quello del dirigente con la necessaria neutralità del ricercatore. In quest’ultimo caso essenzialmente a causa delle imposizioni professionali prescrittemi dal mio datore di lavoro, al punto da non poter condurre la ricerca in modo libero e centrato.

Erano passati circa cinque mesi dalla mia promozione di grado gerarchico e decidemmo di frequentare un seminario propedeutico al lavoro di squadra. Durante un esercizio, per me fondamentale per la realizzazione dei miei conflitti interiori, un’assistente sociale mi disse: «Tu non sei più quella di prima, prima eri disponibile e comprendevi... Adesso non è più così. Perché non mi lasci agire come vorrei?». Risposi: «Il fatto non consiste in ciò che voglio o non voglio che tu faccia… Il punto è che non posso lasciartelo fare».

Fu questo avvenimento che mi portò a realizzare quanto i vari posizionamenti concorrono e si fronteggiano, tanto nel caso della militanza e della sfera dei valori, quanto nel posizionamento dei vari ruoli ricoperti.

È dunque alla luce di ciò, ossia in vista della complessa interconnessione tra valori etici personali, codici deontologici professionali e cultura dell’organizzazione, che ho personalmente ritenuto necessario effettuare una scelta di posizionamento. Nel caso specifico, le contrastanti spinte all'azione, definite dalla militanza del mediatore, dalle norme giuridiche alle quale ho dovuto attenermi in qualità di coordinatore, nonché dalla necessità di oggettività intellettuale che ho incontrato in qualità di ricercatore, mi hanno portata ad abbandonare la funzione di ricercatrice affiliata. Non possedendo le “caratteristiche sovrumane” (Slim 1995) richieste dal sistema dell'aiuto umanitario ai propri professionisti, e ritrovandomi in gravi dilemmi etici e procedurali durante il percorso, ho in primo luogo lasciato l’incarico di coordinatore e scelto di scindere la militanza di campo dalla ricerca, che svolgo al di fuori delle organizzazioni per le quali ho prestato e presto servizio.

Proposte

Attraverso la mia personale esperienza, le considerazioni apportate hanno tentato di contribuire alla messa in luce di alcune difficoltà, problematiche e rischi nei quali possiamo incorrere in qualità di professionisti dell’accoglienza, soprattutto nel caso in cui vengano condotte molteplici mansioni al contempo. Sicuramente, le strategie di controllo dei confini tra ruoli ricoperti devono essere attivate attraverso elevate abilità professionali e personali. I confini professionali e le interpretazioni intellettuali da dispiegare, al fine di mantenere intatte sia l'operatività di campo che l'oggettività della ricerca, richiedono caratteristiche non contingenti, ma possono, attraverso tenacia e costanza, essere allenate allo scopo prefissato da coloro che scelgono di ricoprire molteplici posizionamenti di campo.

È altresì vero che, lavorare in un centro di accoglienza per rifugiati significa confrontarsi con sfide di elevata complessità socio-politica, che solo il lavoro di squadra può portare a raccogliere. Le varie figure professionali, tra le altre quelle delineate in principio, potrebbero coordinarsi al fine di apportare sostanziali miglioramenti a un sistema oggi frastagliato e non compatto.

Allo stato attuale, su scala nazionale non esistono tavoli operativi di lavoro congiunti, composti da professionisti di campo, addetti alle policies e al diretto management del sistema dell'accoglienza e professionisti accademici. Una tale soluzione potrebbe altresì condurre a sperimentazioni operative del tutto innovative, forti della conoscenza accademica e dell'esperienza di campo. Il modello qui proposto potrebbe assottigliare da un lato le discrepanze tra “riflessione ed azione” arricchendo in maniera proporzionalmente incisiva le elaborazioni sperimentate, quanto più i suoi componenti saranno competenti nell'analisi trasversale delle tematiche analizzate. Difatti, per quanto sia minuziosa ed evoluta la proposta operativa sperimentata dalla nota manualistica del Sistema SPRAR, essa rimane ancora oggi incardinata all'interno di una struttura analitica granitica, concepita da professionisti del sistema in una dialettica tra imposizione normativa e presa in carico operativa e di fatto rafforzata dalla sola interlocuzione con rappresentanti istituzionali (enti locali) e operatori di campo (enti gestori). Un Tavolo di Lavoro Nazionale (TLN) congiunto e stabile tra professionisti potrebbe da un lato rivedere gli elaborati teorici preesistenti e condurre a proposte sperimentali, forti da un lato dell'analisi antropologica non quantitativa e dall'altro dell'incidenza dei corpi istituzionali e operativi per la loro attuazione effettiva. In questo senso, la rappresentanza del Tavolo viene così concepita: 1. professionisti specializzati di campo (afferenti agli enti gestori dei progetti dell'accoglienza straordinaria), 2. ricercatori accademici, 3. rappresentanti della comunità migrante (Associazioni di tutela dei diritti dei migranti), 4. rappresentanti della comunità ospitante (Enti locali e Associazione Nazionale dei Comuni Italiani), 5. esponenti di organizzazioni non governative umanitarie e sanitarie apolitiche, apartitiche e areligiose, 6. rappresentanti istituzionali (Ministero dell'Interno Dipartimento per le Libertà Civili e l'Immigrazione, esponenti del sistema SPRAR).

Il numero dei rappresentanti delle parti è considerato un prioritario e preliminare parametro di analisi per una democratica strutturazione del Tavolo di Lavoro.

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[1] S.R., pedagogista incaricata in qualità di docente di italiano L2 presso il centro di accoglienza, 15 ottobre 2015.

[2] Per un maggiore approfondimento sulla scarsità di standard di applicazione operativa richiesti agli enti gestori si veda la Direttiva Europea 2013/33/EU del 26 giugno 2013 e il relativo Dlgs 142/2015 18 agosto 2015.

[3] Utilizzo intenzionalmente il termine “dispositivo” di origine foucaultiana (Foucault 2014) per delineare l’aspetto del controllo interno alla gestione dell'accoglienza. Sebbene tali meccanismi di oppressione sociale, supportino la riproduzione di una violenza sia culturale che strutturale (Galtung 1990; Farmer 2006), sostengo però al contempo le visioni di autori che portano alla luce la coesistenza di logiche di dominanza politica e di normalizzazione con quelle di partecipazione sociale e di rappresentanza politica interna (Lecadet 2016), i quali sottolineano l’esistenza di una struttura sociale poligerarchica (Fresia, Von Kanel 2015), per quanto pregna di violenza simbolica (Bourdieu 2004), e ancora connessa ad un processo di detenzione monopolistica del potere di contrattazione sociale.

[4] «Sai, cosa non funziona è questo… Sai, non so perché le cose vanno così ma in altri posti, in altri campi le cose funzionano per... per quello per cui sei lì.. noi siamo qui per i documenti, abbiamo bisogno dei documenti, intendo.. qui.. qui ottenere un documento è difficile, soprattutto per i gambiani..». Intervista a R., 15 luglio 2016. Traduzione mia.

[5] Intervista a L., richiedente asilo accolto all'interno del Centro, 20 ottobre 2015.

[6] «Many new aid workers have entered the field to escape the pain of a recently failed personal relationship and seek healing, while others have claimed that they did not feel as if they fitted in or were accepted by their home society or family, and were searching for themselves» (Walkup 1997: 42), traduzione mia.

[7] «As Malinowski taught us, it was necessary to allow some separation of facts from interpretation, to be explicit about the actual work of inquiry and the material and experiences upon which my generalizations were based» (Mosse 2006: 949), traduzione mia.