Accoglienza dei migranti e turismo sostenibile nelle Alpi

Il ruolo dell'impresa sociale

Andrea Membretti

Università di Pavia e Associazione Dislivelli

Giulia Galera

European Research Institute on Co-operative and Social Enterprises (EURICSE)

Indice

Premessa
Il ruolo dei “migranti economici” nel neo-popolamento alpino
Rifugiati e richiedenti asilo nelle Alpi: l'accoglienza nei piccoli comuni di montagna
Quando i rifugiati favoriscono il turismo: due buone pratiche a confronto
Alpi Biellesi: l'accoglienza dei rifugiati come risorsa per la cura del territorio
Cadore: la sperimentazione di una “nuova economia” dell'accoglienza
I rifugiati, da minaccia a risorsa per le comunità alpine: l'importanza di radicare nel territorio le politiche di accoglienza
Bibliografia

Abstract. The authors analyze the link between two distinct phenomena that are increasingly related in Italian Alpine localities: tourism development and foreign immigration. Special attention is paid to asylum seekers, who have gradually started to repopulate mountain localities, following the policy decision to distribute migrants across the whole national territory. After an introductory analysis, the article focuses on two good practices of welcome initiatives that, while experimenting innovative social inclusion strategies in the tourism domain, have managed to overcome the emergency rationale that inspires most reception policies. Thanks to their embeddedness in local communities, the selected organizations have restored mountain trails, revitalized mountain agriculture through innovative crops and committed to the promotion of a welcome culture through sensitization activities. Based on the good practices investigated, the authors’ hypothesis is that some of the “forced highlanders” could become “highlinders by choice”, contributing to the survival and the sustainability of the tourism system, put at risk by the population decline and ageing of local inhabitants. Adequate policies are however needed to fulfil this hypothesis on a wider scale and to pave the way for the transformation of welcome initiatives into development opportunities for receiving communities. Welcome policies should reject the logic of placing large numbers of recipients in abandoned barracks and residences and the selection and financing mechanisms of managing entities should be redefined so as to select managing organizations that are rooted at the local level and draw on the participation of different stakeholders of the receiving community in their governing bodies.

Keywords:  rifugiati; turismo sostenibile; sviluppo locale partecipativo; impresa sociale; economia dell’accoglienza; migranti stranieri.

Premessa

Sviluppo del turismo e immigrazione straniera sono due fenomeni tra di loro in relazione da tempo in molte località delle Alpi italiane: in quelle più rinomate la presenza dei “migranti economici” è ormai consolidata, dal settore alberghiero alla ristorazione, dalle pulizie ai servizi alla persona, fino alla costruzione e manutenzione degli impianti di risalita. In anni più recenti, poi, i migranti hanno raggiunto anche le località montane meno note, ma connotate comunque da qualche forma di turismo, spesso caratterizzato per numeri contenuti di ospiti e dimensione slow dell'accoglienza: in questi luoghi gli stranieri trovano impiego in misura più ridotta nel comparto turistico, mentre perlopiù lavorano nel settore primario (agricoltura, taglio del bosco, pastorizia...), nell'edilizia, nel commercio (Convenzione delle Alpi 2016; Dematteis, Membretti 2016; Osti, Ventura 2012).

A questo fenomeno, ormai consolidato, si aggiunge da qualche tempo una novità di rilievo, che viene di fatto ad interfacciarsi con la dimensione turistica alpina: una seconda categoria di stranieri, definiti in senso lato come rifugiati (richiedenti asilo e protezione, che poi possono essere o meno riconosciuti con la status di rifugiato), comincia infatti a popolare alcune località montane “minori”, in conseguenza di politiche nazionali di smistamento e ricollocazione su tutto il territorio italiano, per alleggerirne la presenza nei contesti urbani e di pianura (Membretti 2015a). Un numero crescente di richiedenti asilo va dunque trovando collocazione (per periodi di tempo solitamente di 6 mesi/2 anni, in attesa di compiere l'iter legato al riconoscimento o meno dello status di rifugiato) nelle aree montane del Nord Italia: questi cittadini stranieri sono ospitati in progetti di accoglienza (CAS, Centri di accoglienza straordinaria o SPRAR, Sistema di Protezione per Richiedenti Asilo e Rifugiati ), nelle città pedemontane e nei piccoli comuni di valle.

Era dunque facilmente prevedibile che, da più parti, si sarebbe individuato proprio nel fenomeno dei rifugiati una minaccia per il turismo alpino, in un periodo già connotato da perdurante crisi economica e calo delle presenze nelle strutture ricettive: sebbene ancora limitate, già da un paio d'anni si segnalano proteste in diversi comuni montani (che partono di solito da problemi reali della popolazione residente mai affrontati in passato e che ora alcune forze politiche strumentalizzano a fini elettorali) contro la collocazione degli immigrati sul territorio, anche laddove si tratti di piccoli gruppi, alloggiati in strutture dismesse o sotto-utilizzate.

L'arrivo dei rifugiati nell'arco alpino pone dunque nuovi interrogativi rispetto al nesso — già in atto e potenziale — tra immigrazione straniera e turismo: questa nuova popolazione di immigrati, che appartiene più che mai alla categoria dei “montanari per forza” (essendo normativamente costretti a vivere, almeno temporaneamente, in montagna), viene infatti ad insediarsi in zone in cui spesso si vanno investendo risorse e aspettative per il mantenimento (o la costruzione) di identità montane “per scelta”, funzionali (almeno in parte) alla preservazione o invenzione di determinate immagini turistiche, nell'ambito di economie locali decisamente dipendenti dal mondo urbano (Salsa 2007). La dialettica tra costrizione e scelta rischia allora di assumere le forme della contrapposizione tra economia turistica (basata sull'offerta ai cittadini di beni culturali, come il paesaggio, e di servizi ad alto contenuto simbolico, come quelli ricettivi di tipo “sostenibile”) ed economia dell'accoglienza (legata invece alla sopravvivenza materiale in loco degli stranieri ospitati, con una caratterizzazione materiale e simbolica di segno ben diverso).

La presenza dei rifugiati nelle Alpi italiane, al di là dell'effettiva consistenza numerica del fenomeno, è dunque oggi un dato di fatto. Oltre a consentirci di indagare più da vicino la relazione tra l'arrivo dei rifugiati e la dimensione turistica montana, l’accoglienza dei richiedenti asilo offre utili spunti di riflessione sulla capacità delle comunità locali[1] di reagire a shock esterni e auto-organizzarsi. Tuttavia, in questa sede non ci occuperemo delle proteste o delle campagne mass-mediatiche contro la presenza dei rifugiati in zone montane; ci soffermeremo sui percorsi di crescita collettiva che possono essere intrapresi dalle comunità chiamate ad accogliere rifugiati nell’ottica di trasformare la sfida migratoria in un’opportunità di sviluppo per i territori riceventi. A questo scopo, analizzeremo due casi studio di imprese sociali[2] che si occupano di accoglienza di richiedenti asilo in due distinti territori montani: il territorio biellese e quello cadorino. La domanda di fondo, che tornerà anche nelle conclusioni, è questa: da “montanari per forza” è possibile che, perlomeno alcuni degli stranieri accolti nelle Alpi, diventino infine “montanari per scelta”, contribuendo così alla rinascita delle località alpine “marginali”?

Il ruolo dei “migranti economici” nel neo-popolamento alpino

Dopo decenni di fortissima crisi, in cui la capacità di resilienza dei popoli alpini è sembrata venire meno, schiacciata tra l'emorragia da spopolamento e la colonizzazione (simbolica oltre che socio-economica) operata dai popoli di pianura, oggi sappiamo, da diversi studi e ricerche, che le Alpi sono (di nuovo) in trasformazione (Varotto 2013; Bätzing 2005). Sicuramente uno degli aspetti più rilevanti di questo mutamento è proprio quello demografico (Demochange 2012): la popolazione è tornata a crescere in molte aree montane (i dati per l'Italia indicano innanzitutto gli assi di Val d'Aosta e Val d'Adige, i comuni periurbani e più prossimi alla pianura, i principali centri sciistici, ma anche alcune “aree interne”), cambiando gli equilibri al ribasso che lo spopolamento e lo “scivolamento a valle” avevano creato. Il tasso medio annuo di incremento della popolazione alpina tra il 2003 e il 2013 è stato pari infatti a +0,49%: sebbene non si tratti di un valore elevato, esso rappresenta comunque un indicatore rilevante rispetto alle dinamiche in corso, la cui caratteristica è quella di manifestarsi tuttavia a “macchia di leopardo” sul territorio; a livello disaggregato, infatti, la situazione è molto variegata ed emergono aree in cui lo spopolamento rappresenta tuttora un grave problema, laddove il 42,1% dei comuni dell’arco alpino italiano presentano tassi di crescita della popolazione nulli o negativi (Convenzione delle Alpi 2015).

Dove presente, l'incremento registrato non è comunque di tipo endogeno — la maggior parte dei comuni alpini mostra infatti un tasso di crescita naturale stabile o negativo — quanto piuttosto di tipo esogeno, ovvero dovuto a quel fenomeno migratorio che riguarda quella categoria che è stata chiamata dei “nuovi montanari” o “montanari per scelta” (Dematteis 2013). All'interno di questa ampia e variegata popolazione di nuovi abitanti alpini, sembra rilevante allora indagare il peso numerico e il ruolo che stanno avendo, o potranno avere, nei processi di trasformazione in corso, coloro i quali provengono da ambiti etno-culturali molto distanti, geograficamente ed antropologicamente, dalle terre alte italiane.

Quasi 350.000 stranieri, provenienti in gran parte da Paesi extra-UE (dell'Europa Orientale, del Nord Africa e dell'America Latina, principalmente), risultano residenti, a gennaio del 2014, nei 1.749 comuni italiani il cui territorio è ricompreso nella Convenzione delle Alpi. L’incidenza della popolazione straniera su quella totale appare addirittura superiore, nelle Alpi italiane, rispetto al valore medio nazionale: al 1° gennaio 2013 essa era pari al 78,6 contro il 73,5 per mille, mentre solo in 31 comuni alpini non risultava a tale data risiedere neppure un cittadino straniero (ISTAT e Convenzione delle Alpi). Secondo le elaborazioni effettuate invece dalla Strategia Nazionale Aree Interne[3], nei comuni montani del Nord Italia gli stranieri residenti (esclusi dunque i richiedenti asilo e i rifugiati, così come, ovviamente, quelli irregolarmente presenti) arrivavano, nel 2013, a quasi 400.000 unità, distribuiti come si evince dalla tabella che segue:

Tabella 1 - Stranieri residenti nei comuni montani dell'Italia Settentrionale (solo regioni con territorio alpino)

Fonte: UNCEM; elaborazioni SNAI su dati Istat (bilancio demografico, 31.12.2013)

Da recenti ricerche (Corrado et al. 2014), si evince come tra i “nuovi montanari” siano numerose le provenienze direttamente dall'estero (Romania, Albania, Marocco, tra i primi), le quali risultano più consistenti nei comuni montani più urbanizzati, in quelli più turistici o con particolari specializzazioni produttive (ad es. settore estrattivo, edilizia, artigianato industriale, dove si creano vere e proprie “economie etniche”) e nelle fasce periurbane; tra i fattori di attrazione per gli stranieri, si rilevano innanzitutto, oltre naturalmente alle possibilità di lavoro, la disponibilità di alloggi a prezzi contenuti, il minor costo della vita e anche l'opportunità di fuggire il caos delle metropoli (Membretti 2015b; Dematteis 2010).

Per quanto concerne il nostro Paese nel suo complesso, al 1° gennaio 2015 erano regolarmente presenti 3.929.916 cittadini non comunitari (Ministero dell'Interno). In 13 province, tutte nel Centro-Nord, i soggetti non comunitari (giova ricordare che sono esclusi dal computo i cittadini della Romania, tra gli stranieri più rappresentati in Italia) sono oltre il 10%, confermando questa parte d'Italia come area particolarmente interessata dalla presenza di immigrazione straniera; nello specifico, il 36,5% dei soggetti regolarmente presenti nel Paese ha un permesso di soggiorno che è stato rilasciato o rinnovato nel Nord-Ovest, in regioni che hanno parti rilevanti del proprio territorio nell'arco alpino.

Secondo l’ISTAT, tra il 2014 e il 2015 il numero di cittadini non comunitari regolarmente soggiornanti in Italia (esclusi i richiedenti asilo) è aumentato di circa 55mila unità (+1,4%); i minori rappresentano ben il 24% dei cittadini non comunitari regolarmente soggiornanti: il dato è particolarmente rilevante, specie considerando l'elevato invecchiamento della popolazione italiana, che colpisce in particolare proprio le aree montane. L’Italia senza gli immigrati sarebbe infatti un Paese con 2,6 milioni di giovani under 34 in meno e sull’orlo del crack demografico: gli immigrati, come è noto, sono mediamente più giovani degli italiani e mostrano una maggiore propensione a fare figli. Le nascite da almeno un genitore straniero in Italia fanno registrare un costante aumento: +4% dal 2008 al 2015, a fronte di una riduzione del 15,4% delle nascite da entrambi i genitori italiani (CENSIS 2016).

A fronte di questi dati sul fenomeno migratorio verso il nostro Paese, è utile parallelamente ricordare come il numero degli emigrati italiani all’estero, pari nel 2015 ad oltre 4.600.000, stia raggiungendo quello degli immigrati stranieri in Italia, stimati nel complesso in circa 5 milioni: se l'Italia non si sta spopolando (nelle terre alte come in pianura e nelle città), è ormai dunque solo e unicamente in virtù dell'apporto di popolazione connesso all'immigrazione dall'estero (IDOS 2015).

Rifugiati e richiedenti asilo nelle Alpi: l'accoglienza nei piccoli comuni di montagna

Se ormai si è consolidato il fenomeno dell'immigrazione cosiddetta “economica”, l'Italia negli ultimi anni è sempre più terra di arrivo di nuovi flussi migratori, composti innanzitutto da soggetti in fuga da guerre, catastrofi naturali e condizioni socio-politiche intollerabili[4]. Secondo l’UNHCR, nel corso del 2015, sono sbarcati sulle nostre coste più di 150.000 migranti e sono state ricevute quasi 90.000 richieste d’asilo. Tra questi nuovi arrivi, si registra un'impennata nelle richieste d'accoglienza indirizzate a ottenere lo status di rifugiato: al 1° gennaio del 2015, secondo l’ISTAT, gli immigrati presenti in Italia, con regolare permesso di soggiorno rilasciato per motivi umanitari, d'asilo o protezione, erano 100.138 maschi e 17.682 femmine (sono esclusi dal conto i soggetti con permessi di lungo periodo, carte di soggiorno e i minori non accompagnati): ad ottobre del 2016 la stima complessiva delle presenze in oggetto è arrivata a oltre 150.000.

Appare difficile fare una fotografia realistica dell'attuale distribuzione di questi soggetti nei territori alpini italiani: infatti i dati ISTAT sugli stranieri regolarmente presenti, in base al tipo di permesso di soggiorno in loro possesso (nel nostro caso, quello per ragioni umanitarie/di asilo/protezione) sono relativi al comune di registrazione del permesso stesso; successivamente il migrante può spostarsi o essere ricollocato in altro luogo e, per i successivi 1-2 anni, non viene di nuovo censito il suo comune di residenza: per conoscerne l'effettiva ubicazione, servirebbe dunque incrociare le informazioni di diverse banche-dati — quali ad esempio quelle degli enti previdenziali o socio-assistenziali — con quelle in possesso delle varie prefetture ed enti locali.

Non ci è stato possibile finora effettuare questo tipo di ricerca[5], motivo per cui ci limitiamo intanto a quantificare la presenza di permessi di soggiorno per ragioni umanitarie nelle regioni che hanno (anche) territori alpini, al 1/1/2015 (dato di stock ISTAT): nel Nord-Ovest si tratta di 24.053 unità e nel Nord-Est di 17.892 unità (escludendo dal computo i permessi di lungo periodo, le carte di soggiorno e i minori non accompagnati), per un totale dunque di 41.945 persone, in grandissima parte di sesso maschile.

A differenza di altri paesi europei, in Italia il sistema di accoglienza dei richiedenti asilo vede un forte coinvolgimento di organizzazioni private, che si configurano come enti responsabili della gestione in virtù di convenzioni stipulate direttamente con le prefetture secondo una logica intrinsecamente emergenziale oppure all’interno del circuito SPRAR, che presuppone un rapporto di partenariato con l’ente locale.

A prescindere dai meccanismi di selezione e finanziamento degli enti gestori, il panorama delle organizzazioni coinvolte è molto composito. Accanto a organizzazioni virtuose che si adoperano per facilitare l’inclusione sociale dei beneficiari, ve ne sono altrettante che hanno colto le opportunità offerte dall’economia dell’accoglienza per “fare cassa”, promuovendo un’accoglienza low cost, che si fonda sulla generazione di economie di scala, l’offerta di servizi di scarsa qualità e l’invio di lavoratori allo sbaraglio (Galera 2016: 32-35). Il modello di accoglienza che ci interessa considerare in questa sede è quello che offre più possibilità per un inserimento effettivo (temporaneo ma anche, in alcuni casi, con prospettive di insediamento stabile) degli stranieri nei contesti locali, in rapporto poi, in particolare, alla dimensione turistica (e, più in generale, di sviluppo) dei territori alpini in questione. Come vedremo dall’analisi delle due pratiche selezionate, fare accoglienza in quest’ottica presuppone la promozione di un modello di ospitalità micro e diffuso sul territorio da parte di enti gestori fortemente radicati a livello comunitario e contraddistinti da un’ampia partecipazione, in qualità di soci, di diversi portatori di interesse[6].

Quando i rifugiati favoriscono il turismo: due buone pratiche a confronto

Nell'ambito dei contesti territoriali appena considerati, concentriamo allora l'attenzione su due esperienze di accoglienza dei rifugiati la cui caratteristica comune è quella di aver favorito l'inserimento sociale degli stranieri ospitati tramite la loro attiva partecipazione alla cura del paesaggio culturale e alla promozione turistica delle località montane di destinazione (Membretti 2016). I dati di seguito presentati sono il frutto di una ricerca qualitativa, di carattere socio-antropologico, condotta dagli autori nel corso del 2016, nell'ambito di un più ampio progetto di indagine relativo al ruolo dell'immigrazione straniera nei processi di neo-popolamento montano: i due casi di studio di seguito presentati sono stati investigati rispetto alle modalità di accoglienza e di inserimento socio-lavorativo dei richiedenti asilo nell'ambito di progetti gestiti da imprese sociali in contesti alpini, in relazione alla dimensione turistica, alla cura del territorio e alla resilienza delle comunità locali.

Dal punto di vista metodologico, si sono dapprima effettuate una serie di osservazioni sul campo nelle realtà considerate, secondo un classico approccio di matrice etnografica, che ha portato ad evidenziare le principali dinamiche riguardanti l'operato quotidiano delle organizzazioni analizzate in rapporto agli immigrati ospitati e al territorio di insediamento. Si è poi proceduto a realizzare 12 interviste semi-strutturate, a carattere narrativo che hanno coinvolto i direttori delle due imprese sociali, 4 operatori, una coordinatrice di struttura, una psicologa e 4 rifugiati ospiti. I dati così raccolti sono stati dunque analizzati dal punto di vista qualitativo, nel quadro di riferimento costituito dalle informazioni socio-demografiche inerenti i territori considerati.

Alpi Biellesi: l'accoglienza dei rifugiati come risorsa per la cura del territorio

A Pettinengo, località nota come “il balcone del biellese” e fino a pochi anni fa connotata dalla presenza di lunga data dell'industria tessile legata ai maglifici, l’associazione culturale “Pacefuturo” nasce per promuovere temi legati alla pace e al futuro con un’attenzione particolare ai soggetti fragili, come i malati psichiatrici e gli ex carcerati in semilibertà. L’associazione viene costituita contestualmente alla crisi del settore tessile, che vede la chiusura nel 1998 dello stabilimento Liabel di Pettinengo, e ottiene in comodato una villa signorile ottocentesca. L’associazione ha una ricca base sociale (200 soci di cui 20 lavoratori) e spazia in vari settori: oltre alle attività culturali in senso stretto, offre un servizio di foresteria nella villa e realizza una serie di attività finalizzate a valorizzare le conoscenze tradizionali del territorio, come ad esempio il ripristino dei sentieri che consentivano di raggiungere i lanifici. L'iniziativa “Sent-ieri, oggi e domani”, che ha origine nel 2008 dalla collaborazione con l’Amministrazione Comunale e che vede il coinvolgimento fin da subito della comunità locale, è stata finalizzata a riportare alla luce oltre 10 km di vecchi “sentieri operai”, valorizzando nel contempo i boschi e il paesaggio culturale da essi segnati; in questo modo, si è inteso dare vita alla trasformazione responsabile di un territorio in crisi socio-economica e identitaria, coniugando crescita culturale, valorizzazione turistica e solidarietà sociale. Nel territorio comunale, infatti, si diramano camminamenti, oggi ignoti ai più, che collegavano le cascine e le varie frazioni più alte del paese (da cui provenivano i contadini-operai, nel loro pendolarismo lavorativo quotidiano) ai siti degli opifici oggi dismessi, tra cui spicca l'ex Maglificio Bellia (famoso per il marchio Liabel).

L’obiettivo di questa azione è quello di promuovere un modello partecipativo di valorizzazione e di gestione del paesaggio, da un lato creando itinerari turistici legati alla pratica di attività outdoor ed alla fruizione di percorsi culturali e, dall'altro lato, contribuendo alla salvaguardia dell’ambiente dal degrado e dal rischio idrogeologico, dovuti all'abbandono. Allo stesso tempo, l'intervento mira a favorire la riscoperta delle radici identitarie locali, attraverso il recupero delle testimonianze storico-artistiche presenti (sentieri operai, archeologia industriale, cappelle votive, ecc.), restituendone così alla memoria collettiva gli antichi saperi.

Nell'ambito di questa progettualità, dal 2014, l’associazione “Pacefuturo”, in convenzione con la Prefettura di Biella, ha iniziato a dare accoglienza ad un gruppo di Richiedenti protezione internazionale di origine africana di diverse nazionalità. Ad oggi l’associazione ha ospitato più di 350 persone, di cui 103 attualmente in carico, che sono ospitate in 8 distinte strutture a Pettinengo: la più grande, di proprietà della diocesi, ospita 25 persone (distribuite in base a lingua, desideri e peculiarità individuali).

Un numero rilevante di beneficiari è stato progressivamente inserito nel progetto di recupero della sentieristica e dei manufatti architettonici rurali (grazie ad un accordo quadro sul volontariato dei rifugiati, firmato tra Enti pubblici e soggetti gestori), contribuendo alla cura e manutenzione dei percorsi, nonché alla loro promozione turistica (apposizione di segnaletica, ecc.). Nel contempo, diversi richiedenti asilo sono attivi in modo continuativo nella pulizia del bosco, nella raccolta di legna da ardere (che viene poi consegnata gratuitamente agli anziani del paese) e in altre attività socialmente utili, finalizzate tanto a sostenere il turismo locale, quanto a favorire la permanenza in montagna dei residenti più fragili, specialmente nei mesi invernali. Molta attenzione viene posta al raggiungimento dell’autonomia dei beneficiari attraverso percorsi formativi e laboratori di apicoltura, ceramica e maglieria, aperti anche agli abitanti di Pettinengo e dei paesi limitrofi. Il progetto di accoglienza si avvale di lavoratori selezionati sul posto, molto motivati e in grado di tessere reti con la comunità locale, e vede il coinvolgimento di un numero significativo di volontari.

Cadore: la sperimentazione di una “nuova economia” dell'accoglienza

Come l’associazione “Pacefuturo”, la cooperativa sociale Cadore non nasce specificamente per occuparsi di accoglienza. Viene costituita nel 2008 in seguito alla delocalizzazione del settore dell’occhialeria, grazie alla trasformazione di una cooperativa di consumo costituita a fine ‘800 nell’area delle Dolomiti orientali, contraddistinta dalla presenza di imponenti rilievi e ampie vallate. Per scongiurare la liquidazione della cooperativa di consumo, che per legge avrebbe comportato il trasferimento del patrimonio della cooperativa al fondo mutualistico nazionale, la comunità locale decide di dar vita ad una nuova impresa cooperativa (una cooperativa sociale di tipo B) specificamente finalizzata a creare opportunità di lavoro per persone svantaggiate e deboli e a promuovere strategie di sviluppo territoriale.

La nuova cooperativa vanta una base sociale eterogenea, essendo composta non solo da persone fisiche, ma anche da enti locali, altre cooperative e un’associazione. I settori di intervento sono diversi e spaziano dalla manutenzione ambientale contro il dissesto idrogeologico per recuperare l’edilizia tradizionale (tra cui ad esempio i muretti a secco) alla realizzazione di progetti territoriali, fino all’offerta di servizi alla comunità, che non sarebbero altrimenti garantiti (rientrano tra questi, ad esempio, la gestione di un impianto di risalita per lo sci e di un cinema).

L’accoglienza di richiedenti asilo inizia nel 2011, previa richiesta della disponibilità ad accogliere da parte della prefettura di Belluno in risposta all’arrivo di un flusso significativo di migranti sul territorio bellunese. Ad oggi la cooperativa sociale Cadore ha accolto circa 150 richiedenti protezione internazionale, di cui 60 sono al momento ospitati dalla cooperativa sul territorio cadorino attraverso un modello di micro-accoglienza diffusa in piccole strutture affittate da privati. I migranti vengono normalmente distribuiti in gruppi omogenei per lingua e etnia. Il modello operativo della cooperativa Cadore, finalizzato a promuovere l’autonomia dei beneficiari, pone molta attenzione alla formazione presso enti di formazione, come la scuola Edile e il Centro Consorzi di Sedico e il Centro Provinciale Istruzione Adulti, e incoraggia i beneficiari a seguire corsi scolastici per l’ottenimento del diploma di scuola media inferiore. Inoltre, grazie ad un efficace lavoro di rete, i richiedenti asilo sono coinvolti attivamente nella vita della comunità.

Da un punto di vista delle risorse umane coinvolte, il progetto di accoglienza occupa stabilmente sei operatori, molto motivati e costantemente supervisionati. Il progetto si avvale altresì della collaborazione di professionisti (alcune infermiere e insegnanti e un dentista) che prestano il loro lavoro gratuitamente.

A conclusione del progetto di accoglienza, un numero crescente di beneficiari ha deciso di stabilirsi in Cadore ed è occupato stabilmente in diversi settori (panificio, ristorante, manutenzione del verde). In fase di start up ci sono inoltre alcune iniziative volte a favorire la formazione in ambito agricolo e alcune collaborazioni spontanee con gli abitanti (falegname).

Oltre all’impegno della cooperativa in ambito ambientale, sono da sottolineare la rigenerazione del territorio attorno all’ex convento di Pieve di Cadore, precedentemente in stato di abbandono, dove ora sono nati un orto, un frutteto e un pollaio e la sperimentazione in ambito agricolo della coltivazione del carciofo alpino. Mettendo a frutto i saperi e le conoscenze, individuali e collettive, presenti nel territorio, la cooperativa si adopera per migliorare l’attrazione turistica dell’area e, attraverso le sue numerose attività, valorizza e rende fruibili le originalità naturalistiche, ambientali, culturali e di architettura rurale di quest’area alpina.

I rifugiati, da minaccia a risorsa per le comunità alpine: l'importanza di radicare nel territorio le politiche di accoglienza

Le buone pratiche sopra discusse ci insegnano qualcosa di importante sia rispetto alle caratteristiche che dovrebbero contraddistinguere gli enti gestori che si occupano di accoglienza, sia rispetto al contributo che l’accoglienza può potenzialmente apportare in termini di rilancio di aree che, per quanto “marginali” e “interne”, non sono prive di potenziale sul versante turistico.

A differenza di molti altri CAS che operano sul territorio italiano, le due organizzazioni esaminate hanno saputo superare la logica emergenziale sperimentando percorsi di inclusione sociale e sviluppo territoriale. Entrambe le imprese sociali sono fortemente radicate a livello locale: gli organi di governo e le basi sociali hanno natura multi-stakeholder e tra i soci si annovera un numero significativo di volontari, che presta con regolarità il proprio contributo.

Il radicamento territoriale si traduce nella realizzazione di numerose iniziative di interesse per il territorio ricevente, tra cui il ripristino di sentieri di montagna e il rilancio dell’agricoltura di montagna attraverso la sperimentazione di coltivazioni innovative. I legami con il territorio si traducono altresì nell’impegno per promuovere una cultura dell’accoglienza a livello locale attraverso iniziative culturali e di sensibilizzazione, che alimentano la coesione sociale e consentono di superare barriere culturali e linguistiche.

Un altro aspetto che accomuna le due organizzazioni è il coinvolgimento di diverse professionalità che, sebbene talvolta prive di formazione specifica, si adoperano empiricamente per tessere reti tra la comunità locale residente e i nuovi abitanti e per definire progetti educativi trasversali che pongano attenzione anche agli aspetti relazionali e formativi. Aspetto da non trascurare è il fatto che entrambi gli enti gestori offrano una gamma di servizi più ampia rispetto a quanto previsto dalle convenzioni con le prefetture nell’ottica di favorire l’autonomia dei beneficiari. Infine, entrambe le organizzazioni analizzate spiccano per la loro forte inclinazione all’imprenditorialità e all’innovazione, sia sociale che territoriale.

L’analisi delle due buone pratiche conferma in primo luogo come l’accoglienza, quando gestita coinvolgendo la comunità ricevente, possa potenzialmente contribuire allo sviluppo locale, ad esempio attraverso la cura del territorio e la preservazione del paesaggio culturale, entrambi requisiti fondamentali per uno sviluppo montano sostenibile e turisticamente attrattivo in zone soggette a rischio idrogeologico e caratterizzate spesso da significative risorse ambientali e culturali da preservare.

In secondo luogo, l'inserimento lavorativo dei rifugiati, facilitato dalle imprese sociali responsabili della gestione dell’accoglienza, può rappresentare un fattore importante nel rilanciare attività ricettive e di servizio eco-turistiche, la cui sostenibilità sia basata sulla logica del reinvestimento degli utili a vantaggio della comunità.

In terzo luogo, nell'immediato l'accoglienza dei rifugiati rappresenta un supporto ad economie turistiche che, nelle località “minori” e a quote medio-basse, appaiono oggi in crisi, con strutture spesso obsolete e non più in grado di riciclarsi nel mercato attuale (anche se esiste il rischio che l'accoglienza degli stranieri possa, a lungo andare, trasformarsi in un freno proprio al rinnovamento dell'offerta turistica locale).

Ma i rifugiati rappresentano soprattutto una risorsa potenziale per favorire la resilienza di comunità di montagna in crisi economica e identitaria: la sfida socio-culturale posta dagli stranieri (laddove la loro presenza sia gestita con accortezza rispetto al loro numero e alle modalità del loro inserimento) può infatti rappresentare un'occasione per il ripensamento di identità locali altrimenti a rischio di “museificazione folkloristica”. Come ci ricorda infatti Montandon (2004: 17): «Lo straniero evidentemente viene a sconvolgere le cose, l’immobilità, la stagnazione, l’inerzia, il marasma, il torpore, l’abbattimento, la letargia che regnano nella piccola società. Egli introduce un movimento, una turbolenza [...]. Lo straniero ha un ruolo rivelatore». Ripensare queste identità territoriali, e le loro necessarie progettualità, in una direzione innovativa e inclusiva delle diversità, può anche avere un impatto turistico, come ci mostra il caso (agli antipodi delle Alpi) di Riace in Calabria, che ha sviluppato un “turismo dell'accoglienza”, centrato proprio sull'inserimento intelligente dei migranti nel tessuto socio-economico locale (Corrado, D'Agostino 2015).

Non da ultimo, la permanenza durante tutto l'anno dei rifugiati nei comuni alpini ad offerta turistica può contrastare quella desertificazione sociale, tipica della “stagione morta”: i migranti possono costituire un presidio del territorio che può valere dal punto di vista del controllo del dissesto idro-geologico, dell'offerta di servizi ai residenti storici (spesso anziani) e, più in generale, dell'antropizzazione di luoghi altrimenti a lungo spopolati.

Se dunque le Alpi torneranno ad essere “terra d'asilo”, come storicamente sono state tante volte rispetto ai “forestieri” (L’Alpe 2001), non è insensato ipotizzare che, in prospettiva, alcuni di questi stranieri, oggi “montanari per forza”, potrebbero divenire in futuro “montanari per scelta”, contribuendo a quel ripopolamento delle terre alte, senza il quale non possono esistere né identità locali vive, né tantomeno alcun sistema turistico attivo e sostenibile.

Tuttavia, per sostenere lo sviluppo delle aree alpine marginali nel senso sopra richiamato sono necessarie politiche adeguate. A questo proposito va contrastata la logica della “discarica sociale”, che porta al parcheggio passivo di larghi numeri di richiedenti protezione in caserme e residence dismessi e vanno ridefiniti i meccanismi di selezione e finanziamento degli enti gestori, che tendono a non premiare gli enti gestori radicati sul territorio e con pregressa esperienza nel settore dell’inclusione sociale di persone in difficoltà, ma premiano al contrario aspetti quantitativi, come il numero di persone accolte.

Cambiare direzione è necessario e possibile. Richiede non solo la maturazione delle organizzazioni impegnate nell’accoglienza, ma anche la capacità della pubblica amministrazione di mettere in discussione le proprie procedure, valorizzando adeguatamente aspetti come l’insieme dei servizi di formazione resi alle persone inserite, il radicamento sul territorio, l’esperienza maturata nel promuovere l’inserimento lavorativo di persone in difficoltà e la capacità di fare rete con altri soggetti della comunità. Caratteristiche, quest’ultime, che consentono di preparare le comunità riceventi all’accoglienza da un lato e possono portare, come si è visto, alla rigenerazione di risorse comunitarie che rimarrebbero altrimenti inutilizzate, con un impatto positivo sull’intera comunità, dall’altro.

Bibliografia

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[1] Sebbene il concetto di comunità evochi spesso un sentimento positivo, è evidente come esso sia anche a rischio di derive identitarie nella sua versione più radicale. Ciò avviene quando l’unità comunitaria poggia sulla premessa della semplificazione che, portata al suo limite logico, si traduce in “un livello minimo di varietà in un mare d’identicità” (Bauman 2007).

[2] Coerentemente con la letteratura, sono definite imprese sociali le organizzazioni che, indipendentemente dalla forma giuridica adottata, svolgono attività produttive, perseguono un’esplicita finalità sociale che si traduce nella produzione di benefici diretti a favore di un’intera comunità o di soggetti svantaggiati e sono contraddistinte da una natura inclusiva e partecipativa (Borzaga, Galera 2016: 8-13).

[3] http://www.agenziacoesione.gov.it/it/arint/, consultato il 25/11/2016.

[4] Non è questa la sede per discutere la crescente inadeguatezza della distinzione tra “migranti economici” e “rifugiati” (ovvero richiedenti asilo/protezione), laddove tra questi ultimi sono solo una parte quelli in fuga da guerre o da persecuzioni politiche, mentre, in moltissimi casi, si tratta semplicemente di persone che cercano una vita migliore di quella — caratterizzata da livelli di miseria elevati e da assenza di prospettive per il futuro — condotta nel Paese di origine.

[5] Segnaliamo che è in corso in questi mesi una ricerca condotta dall'associazione Dislivelli di Torino, finalizzata a georeferenziare la presenza di richiedenti asilo sul territorio montano nazionale (www.dislivelli.eu). I primi risultati saranno disponibili da maggio 2017.

[6] L’”esogeno che si aggiunge all’esogeno” (ente gestore non radicato che gestisce accoglienza) è un fattore di disturbo che induce molte comunità ad opporsi all’iniziativa di accoglienza.