Introduzione a «Etiche della ricerca»

La responsabilità di esser-ci

I dilemmi etici della ricerca in antropologia applicata

Angela Biscaldi

Dipartimento di Scienze Sociali e Politiche, Università Statale di Milano

La dimensione etica della ricerca applicata: un non-detto pervasivo

Le riflessioni proposte in questo numero nascono dalla costatazione di una assenza. Raramente nei nostri corsi di laurea e di dottorato affrontiamo le questioni etiche che ci interpellano sul campo in un insegnamento dedicato. Esistono insegnamenti di metodologia ma i corsi di etica della ricerca sono praticamente inesistenti nelle università italiane. Nei manuali, la questione etica è – se c’è – confinata in un paragrafetto di voluminosi testi di metodologia o di storia dell’antropologia; i momenti in cui ne parliamo pubblicamente sono, poi, fugaci, spesso a margine di rassicuranti presentazioni ufficiali o in risposta alle richieste a volte curiose, a volte ingenue, a volte disarmanti dei nostri studenti a fine lezione. Domande sui problemi del campo che non di rado ci trovano impreparati.

Inoltre, in ambito applicato, è richiesto pubblicamente il nostro intervento come esperti, come formatori, come depositari di un sapere che dovrebbe risolvere problemi (e non crearne) fornire basi operative (non distruggerle), dare certezze (non destabilizzare) e quindi i problemi etici sul campo non “interessano”, anzi, rischiano di compromettere la credibilità della nostra figura professionale. Ci vengono richiesti dati, indicazioni, direzioni di lavoro, saperi spendibili e non certo di «scuotere il mondo, tirando da sotto i piedi i tappeti, rovesciando i tavolini da tè, facendo esplodere petardi» (Geertz 2001: 81).

Questa invisibilità istituzionale e pubblica dell’etica della ricerca antropologica stride con il fatto che da sempre gli antropologi si occupano – studiano, scrivono e insegnano – di questioni etiche (i sistemi di valori, di rappresentazione, di classificazione delle comunità), elaborano e affinano strumenti gnoseologici di natura etica (come ad esempio il relativismo culturale), si interrogano sulla valenza etica dei concetti; stride ancor più con il fatto che la dimensione etica è ovunque nel campo. Essa poi assume una centralità ineludibile in antropologia applicata, ambito in cui costituisce l’ossatura stessa della ricerca e, in fondo, la sua ragione di essere, in più momenti:

  • nella decisione, definizione e costruzione dell’oggetto di studio;

  • nelle diverse modalità di fare ricerca, di accedere e partecipare alla vita delle comunità e di rapportarsi agli interlocutori sul campo;

  • nella gestione dei conflitti e dei molteplici condizionamenti esterni, politici ed economici;

  • nella restituzione dei dati attraverso la scelta di temi, linguaggi, strategie testuali.

In tutte queste fasi la posizione del ricercatore, ben lontano dall’essere oggettiva, neutra, ovvia, è sempre il prodotto di un’intenzionalità conoscitiva – fatta di pre-comprensioni, aspettative, pregiudizi, investimenti personali e professionali – carica di implicazioni etiche, non sempre facilmente prevedibili e controllabili. In quanto tale l’essere sul campo è sempre un essere compromessi ed essere esposti e la sua restituzione attraverso la scrittura un atto politico forte. Quella che varia però è la consapevolezza e l’attenzione rivolta alle condizioni grazie alle quali la descrizione dell’oggetto di studio diventa possibile e quindi la sensibilità alla qualità della relazione che riusciamo a instaurare sul campo, alla responsabilità di esser-ci, così come la capacità di rendere i lettori – i destinatari – partecipi di questo complicato intreccio di fattori. Stimolare questa sensibilità e questa capacità è uno degli obiettivi che si prefiggono i contributi di questo numero.

La dimensione etica della ricerca applicata: un disagio necessario

L’assenza di uno spazio istituzionale dedicato, specificamente, alla presentazione e discussione dei dilemmi del campo è senza dubbio sintomo di un disagio che, in misura maggiore o minore, è presente nei ricercatori ma che affonda in parte anche nello stesso metodo etnografico. Il disagio, l’inquietudine degli antropologi di fronte alle questioni di etica della ricerca può essere letto come il prodotto di opposte, permanenti tensioni, ben radicate nella storia della disciplina, e ampiamente documentate, a livello teorico, nella letteratura critica. Credo infatti che esso si situi al centro di una serie di impasse mai completamente risolte:

  • tra la volontà epistemica di oggettivazione e desiderio di rispetto della differenza (Borutti 1993, 1999; Harstrup 1993; Piasere 2002);

  • tra la paura di proiezioni etnocentriche nell’utilizzo di termini e categorie concettuali e la paura di cadere nel relativismo estremo (Strathern 1983; Fabietti 1993);

  • tra il desiderio di conoscere e la consapevolezza delle implicazioni storiche, politiche, economiche che rendono sospetto il nostro desiderio (Clifford 1993; Marcus, Fisher 1998; Kilani 1997);

  • tra la volontà di intervenire e il continuo interrogarsi sulla legittimità di tale intervento (Malighetti 2005; Campbell 2010; Atlani-Duault 2016);

  • tra la certezza che i contesti sono mobili, dinamici, aperti al cambiamento, che gli attori sociali sono “capaci” e la contemporanea sensazione che certe situazioni richiedano una qualche forma di intervento esterno o di denuncia (Scheper-Hughes 2005; Pasquinelli 2007; Biscaldi 2009; Jourdan 2010).

Si legge tra le righe, infatti, in tutti gli articoli presentati in questa sezione, un’insoddisfazione di fondo, nel momento in cui il ricercatore avverte che tutte le decisioni che prende sul campo sono comunque parziali, i giudizi limitati, le ragioni espresse non del tutto e non sempre condivisibili, le argomentazioni non ugualmente soddisfacenti per i diversi interlocutori. Che si è optato per una soluzione ma “avrebbe potuto essere diversamente”, che alla fine si è scelta una strada ma restano ben presenti le alternative possibili, che, necessariamente, ad un certo punto la ricerca si conclude ma la conclusione è provvisoria e incerta. Che il dubbio sul proprio operato e sulla sostenibilità del proprio tema di ricerca è «il più fedele compagno di cammino del ricercatore» (pag. 46). Che le regole di condotta «sono così generiche da essere difficilmente spendibili nel momento in cui il ricercatore si trova a dover concretamente dirimere un dilemma etico» (pag. 108).

Crediamo però che questo disagio, questa inquietudine, e questo perenne “stare tra”, essere sospesi tra opposte ragioni, non debba essere minimizzato, taciuto o nascosto ma abbia una forte valenza conoscitiva e dentro a questa valenza, dentro a questa tensione si collocano le riflessioni contenute in questo numero che muovono nella direzione di utilizzare i dilemmi etici come una vera e propria «bussola per il comportamento» (pag. 48), per scongiurare il rischio di un’antropologia applicata come un sapere operativo, neutro, relativista, «una verità senza significato» o al contrario di un’antropologia applicata come un esercizio di intimismo, compassionevolezza, mea culpa, senza adeguata epistemologia, cioè un’«etica senza sapere» (Stoczkowsky 2008: 351).

La dimensione etica della ricerca applicata: una particolare responsabilità

Nei testi qui proposti decidiamo di mettere sotto la lente di ingrandimento questa sensibilità etica e di fare un particolare esercizio di analisi tematizzando alcuni dilemmi incontrati nei diversi campi di ricerca e l’utilità – teorica, metodologica e applicativa – di rendere questi dilemmi parte integrante della ricerca e fonte di riflessione sia per i colleghi che per il pubblico più ampio, anche non specialistico.

Ci sembra infatti che la natura etica dell’antropologia applicata abbia una particolare rilevanza “pubblica”, nel momento in cui fa emergere il complicato gioco di sguardi, intenzionalità, linguaggi che oppongono la figura del ricercatore a quella dell’operatore, del dirigente, dell’amministratore, del politico, portando alla luce pregiudizi, categorie analitiche e valoriali, parametri di valutazione, obiettivi da realizzare molto differenti e talvolta incommensurabili. Ma anche nel momento in cui affiorano quelli che al ricercatore appaiono i vincoli strutturali, i sistemi di disuguaglianza, gli esercizi di potere che impediscono l’espressione e la realizzazione delle intenzionalità di una parte dei soggetti in campo - siano essi i migranti in un ufficio comunale, i pazienti in un ospedale, gli studenti in un’aula scolastica. Come ridare loro una voce? Una voce credibile, espressa in un linguaggio intellegibile per il più ampio contesto sociale?

I dilemmi che, allora, emergono – dire o non dire? privilegiare la denuncia di alcuni aspetti o la tutela di altri? mettere in evidenza con coraggio le criticità o attestarsi su posizioni più compiacenti? scrivere o non scrivere? – ci raccontano una parte nascosta del vissuto delle comunità, degli uomini e delle donne di cui finiamo per sentirci, durante la ricerca, sempre più responsabili. Ma questi dilemmi non mancano di porre l’osservatore, anche il più scaltro, di fronte ad una serie di perplessità: a che titolo lo sguardo del ricercatore dovrebbe essere più “legittimo” di quello dei soggetti indicati? Dalla parte di chi, in quale posizione, osservare e descrivere la realtà che vogliamo studiare? Non sarà forse l’ottica pragmatica dell’operatore o dell’amministratore altrettanto plausibile di quella critica del ricercatore? E se non lo è, di quali argomentazioni autorevoli e spendibili disponiamo? Quale orizzonte di valore, quale condivisione è possibile?

Si apre quindi una riflessione sulla particolare natura della responsabilità politica presente nell’antropologia applicata che si esprime attraverso scelte di posizionamento che vanno dalla faticosa e continua ricerca di dialogo, all’accettazione, quando possibile, di compromessi, alla denuncia, nonché alla rinuncia al lavoro sul campo se le condizioni sono giudicate inaccettabili. Tentiamo di analizzare le categorie etiche che attiviamo – un esercizio di etnocentrismo critico demartiniano – nel momento in cui sentiamo di trovarci coinvolti in situazioni che urtano il nostro “sentire” (come persone e come ricercatori) così come le nostre aspettative, per valutare quanto e a che condizioni è possibile aprire spazi di confronto con operatori, amministratori, politici e portare avanti strategie di inclusione nel progetto critico dell’antropologia.

Una parola, infatti, si ripete con insistenza, con sfumature di significato diverse, negli articoli proposti, vero e proprio filo rosso che percorre la narrazione: responsabilità. Responsabilità delle nostre parole, dei nostri gesti, delle scelte, non solo metodologiche, compiute quotidianamente nei contesti di ricerca, delle relazioni che instauriamo, delle aspettative che generiamo, delle valutazioni che compiamo e dei possibili modi in cui possono essere interpretate, di ciò che decidiamo di scrivere e degli effetti che il nostro scrivere può avere sul pubblico di lettori. Responsabilità delle emozioni che proviamo, delle risonanze che esse possono avere nei cuori degli altri, e, persino, dei codici sensoriali che abbiamo incorporato nel nostro processo di socializzazione primaria, che possono agire come filtri inadeguati alla comprensione e all’instaurarsi di nuove relazioni.

Per evitare di essere travolti dal peso di queste molteplici responsabilità, fino alla paralisi, credo sia importante sottolineare che il senso di responsabilità così spesso evocato ha, in tutti gli scritti proposti, una forte carica “agentiva” (Duranti, Goodwin, 1992): si lega in maniera propositiva al desiderio dei ricercatori di ribadire l’importanza politica del ri-orientare il pensare in direzione del «fare spazio alla diversità» (Shweder 1990: 210), alla fiducia nella loro di capacità di osservare, documentare, farsi interpreti autorevoli di situazioni in cui è in gioco la condizione esistenziale di altri esseri umani, al vincolo di impegnarsi in contesti che possono sembrare, a prima vista, definitivamente compromessi da logiche di sfruttamento e oppressione, per scommettere sulla possibilità di un’antropologia come «piccola pratica di liberazione umana» (Scheper-Hughes 2005: 293).

La dimensione etica della ricerca applicata: dal posizionamento sul campo alla formalizzazione di un codice etico

Con la consapevolezza che molteplici intricate reti di significati, interessi, intenzionalità, posizionamenti, linguaggi, narrazioni (Biscaldi, Matera 2016) pervadono l’etnografia, scegliamo di isolare alcuni momenti problematici e di seguire e proporre al lettore un percorso – dal primo posizionamento sul campo alla discussione inerente la stesura di un codice etico per l’Antropologa Applicata – che lo guidi nel porre la propria attenzione di volta in volta su uno specifico aspetto della ricerca, nelle sue implicazioni teoriche e pratiche.

Stefania Spada riflette sul lento processo di costruzione e legittimazione del proprio ruolo sul campo – un vero e proprio «rodaggio relazionale» (pag. 43) – a fronte di atteggiamenti di chiusura, rifiuto, pregiudizio o semplice ignoranza, che portano i nostri interlocutori a chiedersi chi siamo noi antropologi, che cosa studiamo e, soprattutto, perché improvvisamente siamo lì tra loro, a cosa possiamo mai servire:

Il comportamento delle professioniste nei miei confronti varia a seconda di cosa loro immaginano di me e più in generale dell’antropologia; più o meno tutte pensano che io sia una sorta di mediatrice culturale con svariate competenze linguistiche, esperta di usanze e tradizioni “etniche”. C’è chi mi racconta dei viaggi in giro per il mondo, probabilmente sia per trovare un punto di partenza per il dialogo che per verificare il mio grado di competenza; chi cerca conferme su tipizzazioni culturali – gli africani come fanno? – Alcune frasi però mi hanno proprio ferito - “Non capisco come tu mi possa essere di aiuto” o “Ma se non parli tante lingue cosa ci fai qui” - e hanno iniziato a rimbombarmi nella testa. Come fare per rispondere a questi interrogativi? Come superare la fase culturalista? Come raccontare cosa può fare un antropologo in reparto? (pag. 43)

Al di là delle autorizzazioni formali, la comprensione del significato della nostra presenza e del nostro agire da parte dei soggetti coinvolti nella ricerca (nel caso di Spada gli operatori sanitari e i pazienti in ospedale) è la premessa indispensabile per avviare il dialogo e, quindi, il processo di negoziazione e reciproca comprensione; l’analisi delle conseguenze generate dal nostro esser-ci – paure, pregiudizi, aspettative, usi strumentali delle nostre dichiarazioni, richieste, se non ritorsioni e minacce – è una fonte di dati che, pur se straordinariamente «faticosa da vivere» (pag. 46), è senza dubbio uno degli aspetti più fecondi del nostro lavoro. Essa apre, lentamente, la strada a quella proposta di lettura critica dei contesti esperienziali, che resta il nostro contributo maggiore, presupposto di apertura a nuove prospettive e, quindi, “spazio di possibilità” affinché si generi un cambiamento (Low, Merry 2010).

Claudia Magnani, riflettendo sulla sua esperienza tra i Maxakali nel Nordest dello Stato di Minas Gerais, in Brasile – una piccola comunità inserita vivacemente nel traffico globale di significati tipico della post-modernità (Canclini 1998) – evidenzia l’incrocio di aspettative e prospettive simboliche che portano i diversi interlocutori in campo (“l’antropologo” e “il nativo”) a ri-significarsi continuamente in un processo di costruzione reciproca, che varia in base ai contesti e alle contingenze (Wagner 1992).­

L’attenzione analitica rivolta a questo gioco di sguardi ha permesso all’antropologa una maggiore consapevolezza dell’importanza del processo di apprendimento corporeo e intellettuale, attraverso il quale è arrivata a trasformare progressivamente i propri codici espressivi – la percezione di gusto, olfatto, tatto, ascolto – così come le categorie epistemologiche ed etiche utilizzate. Questa metamorfosi intrapresa sul campo – indispensabile per rendere possibile l’incontro umano ed etnografico – la porta a porsi – e a discutere – una serie di domande sul significato della propria presenza e sulla natura del particolare “patto” che lega l’antropologo ai nativi:

Le più ampie politiche del campo si riproducono, infatti, nelle relazioni particolari tra il ricercatore e i suoi interlocutori, a partire proprio dalle dimensioni più intime e personali dell’esperienza di ricerca; dagli aspetti sensibili e intellettuali con i quali il ricercatore si confronta sul campo (e che vive sul proprio corpo). Le relazioni di potere, i legami affettivi, le aspettative in gioco, i propositi scientifici, le diverse sensibilità a confronto, s’intrecciano facendo emergere l complessità delle implicazioni interconnesse all’esperienza di ricerca.

Come fare i conti con i propri limiti intellettuali, fisici, sensibili, morali? Come includere il sé e quegli aspetti ampi dell’esperienza umana che fanno parte del processo epistemologico della ricerca? Come accogliere e includere nella ricerca le dimensioni “soprannaturali” e l’interazione con soggettività non umane? Fino a che punto la parola e l’esperienza nativa sono inquadrate, tradotte, tradite (anche inconsapevolmente) dalle nostre griglie teoriche? E, dunque, come allargare i preconcetti per far davvero spazio al discorso (e al mondo) dell’altro? In quale grado l’interazione con i soggetti della ricerca è mediata da relazioni ed interessi personali, storici o sociopolitici più ampi? Quali sono le posizioni, proiezioni e aspettative reciproche in gioco? E, infine, come ricambiare quello scambio ontologicamente asimmetrico che soggiace alla ricerca? (pag. 61)

Il patto etnografico, esito di questa capacità di mettersi radicalmente in discussione, diventa allora espressione di una particolare forma di responsabilità etica: l’antropologa si impegna a svolgere con onestà una «mediazione diplomatica tra mondi» (pag. 73) a costruire un’antropologia più simmetrica, cercando di scrollarsi di dosso il peso delle tassonomie occidentali (e della storia che le ha prodotte) e dello «scetticismo razionale sedimentato nelle nostre categorie di pensiero» (pag. 73), con la consapevolezza di una parzialità residuale ineliminabile ma anche dell’obbligo umano di riconoscenza che la lega ai soggetti che l’hanno accolta fornendo il materiale di ricerca.

Corinna Sabrina Guerzoni – impegnata in una ricerca sulle tecniche di procreazione medicalmente assistita in coppie omogenitoriali in Italia e in California – riflette sulla vulnerabilità dei soggetti coinvolti nelle ricerche at home e quindi sulla necessità di trovare forme adeguate di tutela dei dati sensibili anche attraverso strategie testuali che non arrechino danni alle famiglie protagoniste della ricerca, esponendole eccessivamente.

Proprio su questo difficile tema del sottile equilibrio tra i diritti alla privacy e alla tutela della comunità da un lato e il diritto alla libertà di ricerca e di critica dall’altro, si muovono i due testi seguenti, di Marta Villa e Francesca Crivellaro. Marta Villa analizza la dimensione privata e “intima” delle informazioni raccolte, chiedendosi quanto è possibile (e lecito) svelare di una cultura e quanto invece sia meglio tenere celato, anche a costo di ripercussioni negative sulla propria carriera scientifica. Francesca Crivellaro si concentra sulle difficoltà che possono sorgere nel processo di restituzione della ricerca ai soggetti studiati, soggetti che oggi – ben lontano dai primitivi delle isole sperdute del Pacifico – «circondano la scrivania dell’antropologo» (pag. 104), leggono con attenzione quello che scriviamo e possono sentirsi traditi, se non infastiditi o aggrediti, dalla lettura “urticante” (Herzeld 2006) proposta dal ricercatore. Le domande che pone sono di grande interesse:

Come gestire, ad esempio, il difficile equilibrio fra la responsabilità che l’antropologo ha – nei confronti della disciplina, della comunità scientifica e di eventuali stakeholder – nel non «dare rappresentazioni falsificate della realtà» (ANUAC 2010: 3) e quella di «prevedere in anticipo gli effetti sulla popolazione oggetto di studio» dei risultati del proprio lavoro (AISEA 2000, art. 11)? Come può evitare che questi danneggino – anche in termini di giudizi negativi da parte di terzi – i soggetti coinvolti nell’etnografia (ANUAC 2010)? Se – ad esempio – per non danneggiare i nostri interlocutori omettiamo dal resoconto etnografico alcune delle loro pratiche, stiamo distorcendo la realtà e contribuendo ad una sua mistificazione? Qual è, in sostanza, il confine fra libertà ed etica nella ricerca? (pag. 108)

Sempre sul potenziale conflitto tra ricercatori e committenti, Chiara Costa e Rossella Tisci – a partire da un lavoro sul campo realizzato a Phoum Thmey, uno slum di Sihanoukville (una cittadina nel sud-ovest della Cambogia) – mettono in luce le discrepanze e la tensione tra le logiche della cooperazione internazionale e l’etica professionale e personale delle ricercatrici. In particolare, l’articolo si concentra sull’ambiguità del linguaggio dei diritti umani, che definisce spesso «gli attori in gioco in opposizione gli uni agli altri, “salvatori” e “da salvare”, trasformando i beneficiari in vittime passive delle proprie difficoltà, incapaci di riflettere sui propri bisogni e di esprimerli» (pag. 117), «soggetti statici, passivi, bisognosi» (pag. 118).

Le antropologhe impegnate nel campo dell’aiuto umanitario si trovano quindi a denunciare la tendenza degli enti locali e delle organizzazioni internazionali ad enfatizzare le esperienze individuali e collettive di disagio sociale, concependo i soggetti narrati esclusivamente come categorie deprivate – a fini di auto-promozione e auto-legittimazione – ed espropriandoli del tutto della loro capacità di agency.

Si chiedono come sia possibile reagire alla richiesta della committenza di “nutrire” l’immaginario occidentale con rappresentazioni generalizzate e semplificate di persone sofferenti – spesso bambini – con lo scopo di far leva sulla commozione e di indurre a sostenere economicamente gli interventi umanitari. Si chiedono se, e in che modo, le scelte metodologiche operate dal ricercatore possono diventare scelte etiche, cioè scelte che contribuiscono a reindirizzare l’operato delle ONG e a restituire ai soggetti la capacità di resilienza e la capacità di decidere della rappresentazione di se stessi e del loro futuro.

Seguono due riflessioni che si concentrano sul rapporto tra epistemologia ed etica della ricerca in antropologia applicata. Chiara Dolce si interroga radicalmente sul significato dell’antropologia come sapere etico, sulla sua capacità di avere qualcosa da dire (e da fare) sull’umano, “sull’universalmente umano”. Nel suo intervento l’antropologia applicata, come possibilità di agire e di dotarsi di strumenti per intervenire sulla realtà, sembra invitata a rivolgersi alla filosofia e alla riflessione teoretica e avere bisogno di mettersi in un dialogo costruttivo con essa.

Per Ferdinando Fava la necessità di elaborare un codice di condotta emersa nell’ANPIA – la nascente Associazione Italiana di Professionisti Antropologi – ci offre l’occasione di ripensare dall’interno il rapporto tra l’epistemologia della nostra pratica di ricerca e la dimensione etica in essa presente e – fatto ancor più degno di interesse – di ripensarlo in relazione alla sfera pubblica.

All’interno di questo ripensamento, il suo contributo individua l’originalità dell’etica dell’antropologia applicata nel suo essere un’“etica nella ricerca” prima ancora che un’“etica della ricerca”, cioè nel suo essere un’etica costitutivamente ancorata ai “beni” conseguiti nella processualità del conoscere:

L’istanza etica del gesto antropologico è ben anteriore al presentarsi del dilemma (in cui l’interrogazione etica certamente si manifesta senza però in questo esaurirsi), indipendente dal suo oggetto (per cui non esisterebbero oggetti etici - a scapito di altri non-etici - che renderebbero ipso facto etico il conoscere antropologico), non determinata dall’onestà e dall’integrità dell’antropologo (caratteristiche di base necessarie ma non sufficienti per connotare la dimensione etica specifica del gesto) o dalla sua personale militanza politicamente corretta (“correttezza” per definizione variabile secondo l’esprit du temps). L’etica del gesto antropologico, è quanto mi sono proposto di illustrare in queste poche pagine, è un’etica iscritta prima di tutto nella sua processualità, rapidamente disegnata qui sopra, che diventa la fonte primaria del discernere etico, necessaria proprio quando si presenta il dilemma, che, paradossalmente, nessun codice di condotta deontologica, potrà risolvere interamente. È la ricerca del bene interno così compreso che viene in aiuto alla decisione etica in situazione. E’ un’etica allora nella ricerca prima ancora di un’etica della ricerca. Il legame emergente, l’implicazione, il sapere critico maturato nel dispositivo sono un “bene interno”, fanno “bene” al corpo sociale e sono il luogo d’incontro personale, tutti noi ce lo auspichiamo, del “bene” per l’antropologo. Tutti questi elementi possono così concorrere per costruire un’etica professionale centrata sulla “ricerca della vita buona, con altri e per altri in istituzioni giuste” (pag. 156).

Arriviamo così, in conclusione, più nello specifico, alla questione dell’adozione di codici etici da parte delle associazioni di antropologi. Marco Bassi analizza i principi di base che sottendono ad alcuni codici etici, selezionati per la loro valenza paradigmatica, e considerando alcuni dei nuovi contesti applicativi: lo Statement of Problems of Anthropological Research and Ethics dell’AAA (American Anthropological Association), il Codice Etico dell’AISEA (Associazione Italiana per le Scienze Etno-Antropologiche) e il Codice ISE (Società Internazionale di Etnobiologia).

L’analisi evidenzia come i codici stessi sono il prodotto di particolari contesti, momenti storici, campi di interesse; in quanto tali, mettono a fuoco alcune questioni e ne tralasciano altre, concorrendo a orientare l’azione dell’antropologo nel momento stesso in cui si prefiggono di normarla. Diventa, quindi, io credo, evidente che il problema del come “darsi codici etici” necessiti del supporto di quello stesso sguardo indagatore e critico che l’antropologia ha da sempre rivolto ai sistemi normativi delle comunità studiate. Nel momento in cui ci poniamo delle regole di condotta siamo dunque consapevoli del fatto che stiamo delineando lo stesso perimetro concettuale e valoriale nel quale intendiamo muoverci e che stiamo di nuovo dentro ad una doppia responsabilità - quella del pensare le regole del gioco e del continuo interrogarsi sulla validità di tale regole e sulle loro possibili conseguenze nel nostro modo di rappresentarci i problemi e muoverci in essi.

Conclude la sezione un ricco contributo di Antonino Colajanni nel quale, dopo una rassegna della letteratura esistente e dei codici etici delle più importanti Associazioni di Studi e Ricerche Antropologiche, vengono proposte alcune considerazioni sui principi più comunemente adottati (anche in vista della costituzione di un codice etico per la SIAA, Società italiana di Antropologia Applicata). Piuttosto che una forma rigidamente “prescrittiva”, scritta al modo imperativo, Colajanni sembra indicare la strada di un Codice Etico in cui le norme specifiche siano accompagnate da una discussione critica delle stesse. Suggerisce, inoltre, di inserire nel codice, oltre a divieti e cautele, anche un elemento propositivo: l’impegno dei ricercatori impegnati nel campo applicato ad “esercitare influenza” sulle agenzie che progettano ed eseguono iniziative di cambiamento che hanno per destinatari i gruppi sociali marginali e minoritari. In questo modo Colajanni ci richiama e ci esorta alla vocazione specifica dell’antropologia applicata:

L’antropologia applicativa, in fondo, si giustifica come orientamento specifico dell’antropologia generale proprio perché intende impegnarsi in questo esercizio di influenza, con le armi della sua conoscenza specifica, prodotta preventivamente ed anche ad hoc nelle situazioni di consulenza, utilizzando le virtù dell’argomentazione e la capacità di comunicazione con gli attori esterni e le istituzioni. Il suo è dunque un orientamento critico costruttivo che ha ovvie implicazioni politiche, ma che non si limita a utilizzare il consueto linguaggio della politica (che spesso è un linguaggio “abbreviato” ed esplicitamente orientato da impostazioni ideologiche il più delle volte frettolose). La misura dell’importanza dell’antropologia applicata, in altri termini, sta nella sua efficacia, nella sua capacità di modificare i piani di azioni delle istituzioni; e non principalmente nella sua attitudine a giudicare, stigmatizzare gli errori o le perversità della politica.

Dilemmi della coscienza del singolo o dilemmi della comunità antropologica?

Tutti gli interventi sono omogenei nel mettere in evidenza il fatto che i dilemmi sul campo sono il modo in cui la dimensione etica si manifesta nella ricerca e la tiene in vita, orientandola epistemologicamente e determinandone processualità e risultati. Non è quindi pensabile una distinzione tra teoria e prassi, tra etica antropologica e etica della ricerca applicata in antropologia, dal momento che la dimensione etica si concretizza nelle scelte operate sul campo e nelle ricadute di tali scelte sui contesti oggetto di indagine. Tuttavia, emergono, a questo proposito, orientamenti differenti.

Per Stefania Spada, la sfida sta nell’adozione di una metodologia appropriata, in grado di coniugare riflessività, umanità, ricerca di strade percorribili per il progetto antropologico. In questo percorso l’antropologo è solo, dal momento che indicazioni operative e moduli di consenso informato appaiono sempre insufficienti e inadeguati. Similmente, per Claudia Magnani il problema etico è un problema da porre sul piano della soppressione dei propri pregiudizi, delle proprie reti teoriche, delle categorie pronte all’uso, per fare spazio all’epistemologia dell’Altro. Anche in questo caso, nessuna appartenenza comunitaria o codice prefissato può apportare un aiuto determinante.

Chiara Costa e Rossella Tisci trovano nell’adozione dei metodi della ricerca partecipata uno strumento di analisi in grado di permettere all’antropologo di svincolarsi dalla retorica “dell’aiuto umanitario” e quindi uno strumento etico che consente all’antropologo il suo esercizio critico dentro al sistema.

Ancora più radicalmente, per Chiara Dolce, il lavoro del ricercatore consiste in una personale assunzione continua di responsabilità del giudizio, talvolta pioneristica.

Rispetto alla solitudine del ricercatore, più compatto appare invece, in questi quattro casi, il fronte nel quale le antropologhe operano: l’istituzione medica, con i suoi tempi, la sua burocrazia, le sue consolidate opacità; la comunità ospitante dei Maxakali con la sua volontà di “interpretare” la presenza del ricercatore sulla base di interessi contingenti; le agenzie di cooperazione che mirano a produrre “risultati oggettivi” e a conseguire utili. È l’agire dell’antropologo nella sua dimensione etica condannato alla solitudine? È, necessariamente, inserito in un rapporto “uno contro molti”?

Nell’intervento di Sabrina Corinna Guerzoni sembra invece di poter collocare la domanda etica dell’antropologia applicata non solamente nello spazio della riflessività del singolo o di strumenti teorici e metodologici, ma anche entro un ambito di comunità: i codici etici, i comitati etici, i moduli di richiesta di autorizzazione e di consenso informato. La comunità antropologica è chiamata a supportare l’antropologo adoperandosi per rendere questi strumenti – se pur parziali e in divenire – non semplici elementi cautelativi o strumenti di un rapporto di forza ma contributo ad un esercizio “condiviso” di responsabilità. In questo senso la solitudine del ricercatore si attenua e la ricerca di soluzioni pare ricollocarsi entro la comunità scientifica, prima ancora che nella coscienza del singolo.

Anche nell’intervento di Marta Villa i codici etici appaiono un indispensabile elemento per arginare l’invadenza, la prepotenza dell’antropologo, nella misura in cui concedono ai soggetti indagati il diritto alla condivisione del progetto conoscitivo dell’antropologo e alla presa di parola sulla rappresentazione di loro stessi. Nell’articolo di Villa, l’antropologo appare meno una vittima e più un soggetto politico incline a scivolare nella tentazione di manipolare, appropriarsi, esercitare violenza culturale. Il Codice Etico diventa quindi un’importante controparte. Simile è la richiesta di Francesca Crivellaro. Crivellaro chiede una maggiore formazione etica dei giovani antropologi e un maggior sostegno da parte delle associazioni antropologiche nel tematizzare in maniera chiara qual è il comportamento corretto che il ricercatore deve tenere di fronte a certe pressioni (anche al silenzio) che gli interlocutori sul campo – in specifiche posizione di potere – possono esercitare.

Se per Villa le associazioni e i loro codici sono indispensabili per tutelare le comunità dallo sguardo invadente del ricercatore, per Crivellaro esse lo diventano per sostenere, invece, l’antropologo nella sua libertà di ricerca e di denuncia.

Si profilano quindi due strade. Se seguiamo la prima, il dilemma etico appare un problema di volta in volta definito e definibile in base ai contesti, alle contingenze, alle sensibilità, al farsi carico individuale dell’Altro che caratterizza la ricerca applicata; i codici appaiono in questa visione insufficienti (forse inutili?). Il supporto dell’antropologo sono le modellizzazioni teoriche, la trasparenza metodologica, la riflessività, l’umanità.

Se seguiamo invece la seconda strada, i codici diventano, pragmaticamente, validi alleati della ricerca, capaci di chiarire il progetto dell’antropologia ai suoi committenti e al suo pubblico, di definirne limiti e finalità, e capaci di tutelare in situazioni di difficoltà o conflitto.

Quale idea di Bene per l’antropologia applicata?

Nei testi, la ricerca applicata si mostra, in maniera più o meno esplicita, portatrice di un’idea interna di Bene, da difendere a fronte di ostacoli, impedimenti, resistenze, censure. L’antropologo si muove – talvolta si scontra – con diverse forme di potere che faticano nell’accogliere la presenza, la lettura, l’idea di innovazione o critica portata avanti nella ricerca sul campo. L’idea che l’etica difesa dall’antropologo sia buona, e che il suo sguardo sia giusto “nonostante tutto”, pervade questi scritti e sostiene l’intenzionalità conoscitiva e applicativa dell’antropologo anche a fronte di dubbi, incompletezze, preoccupazioni.

Da dove ha origine questa idea di bene? Qual è il suo fondamento? In che modo essa autorizza il nostro sapere e il nostro intervento?

Per alcuni autori di questo volume – come Ferdinando Fava – essa è interna al progetto conoscitivo antropologico, alla pratica del campo, all’intenzionalità che è alla base del riconoscimento delle diverse forme dell’umano (MacIntyre 2009). Esiste a prescindere dal rispetto dei codici etici, perché gli elementi che la determinano (la relazione, il riconoscimento, la reciprocità…) sono elementi che sfuggono alla strumentalità e alla sola etica dell’obbligazione: «Ciò che si impone a noi come buono da ricercare, questo s’impone a noi anche come un obbligo vincolante da realizzare».

Altri autori – come ad esempio Marco Bassi – pongono l’accento sul fatto che il “bene” è prodotto invece all’interno dei codici di riferimento, delle regole che la comunità scientifica decide di porre come perimetro per i comportamenti leciti; i codici etici, per quanto limitati, sono riflessioni condivise che nascono da esperienze che attestano il riproporsi di problematiche sul campo; selezionano e orientano l’attenzione su ambiti del pensabile e del possibile. Dentro ad essi, più o meno consapevolmente, ci muoviamo. Un’idea di bene di questo tipo è quindi contestuale e richiama le associazioni antropologiche a rimettersi in discussione in quanto esse stesse istituzioni, che nel loro tentativo di preservarsi, tutelarsi, darsi un’identità, possono rischiare di perdere di vista il progetto universalista dell’antropologia.

Resta, al termine di questo percorso, la consapevolezza della necessità di un’analisi degli elementi che determinano l’attenzione di un antropologo – su una direzione di ricerca anziché un’altra, una modellizzazione, una strategia, una relazione, anziché altre. C’è, infatti, un’importante scelta etica alla base dell’epistemologia dell’antropologia applicata. Se e in che modo la comunità scientifica e i codici etici possono contribuire a rendere questa scelta una scelta “buona” (non solo per l’antropologo ma anche per i soggetti studiati e per il suo pubblico) e se e quanto possono essere determinanti nel sostenere la coerenza, la legittimità e la validità del progetto conoscitivo e applicativo dell’antropologia – e sulla base di quali valutazioni e di quali risultati condivisibili – è questione aperta. Una questione che richiede un esercizio di equilibrio riflessivo tra il repertorio dei saperi ereditati dalla nostra tradizione e le richieste avanzate dai nuovi interlocutori e dai nuovi contesti in cui ci troviamo ad operare.

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